2007

Giustificare l'eccezione: l'egemonia dimezzata della Critical Race Theory

Massimo Gelardi (*)

1. Le tesi di fondo della Critical Race Theory

Quali sono i limiti e le tensioni a cui è sottoposto un sistema normativo? E quali le forze che ne determinano l'espansione e ne governano la proliferazione?

Sosterremo di seguito che a tali quesiti - cruciali per ogni riflessione attorno alla natura e alla funzione del diritto - la Critical Race Theory fornisce risposte problematiche, e che alla lucida diagnosi del sistema giuridico quale strumento primario di razzializzazione negli Stati Uniti essa ha fatto fin qui corrispondere una teoria politica piuttosto contraddittoria, a tal punto che la plausibilità metodologica e la stessa potenzialità riformatrice dell'intero progetto rischiano di essere compromesse.

Con qualche semplificazione, le tesi di fondo della CRT sono le seguenti:

  1. La codificazione discorsiva della razza - anziché mero dispositivo di ordinamento e regolazione - è un suo essenziale mezzo di produzione e di riproduzione.
  2. Il discorso giuridico sulla razza procede lungo linee di sviluppo internamente correlate al modo di distribuzione delle risorse materiali: l'attitudine regolativa del diritto è intesa cioè dalla CRT quale relazione biunivoca (reciprocamente costitutiva) tra la disposizione performativa e produttiva propria del linguaggio giuridico (e in realtà, secondo modalità e misure mutevoli, di ogni attività simbolica), e l'insieme degli stati di cose, l'ontologia sociale nella sua forma contingente eppure vigente, realizzata.

Nello specifico:

  1. L'ascrizione razziale determina le traiettorie esistenziali degli individui, selezionandone l'accesso alle opportunità sociali e materiali. Le prescrizioni del diritto (norme di carattere generale, pronunce giurisprudenziali, provvedimenti amministrativi), sia pure nella forma logicamente universale della tradizione liberale, non sono neutre: lungi dall'operare in astratto (dall'integrare fattispecie alle quali sia potenzialmente capace di aderire qualunque soggetto), esse si situano e agiscono in una determinata regione storico-linguistica, alle cui radici e possibilità sono esclusivamente e necessariamente vincolate. In questo senso, le disposizioni censitarie e anagrafiche (nonché i dettati normativi che a ogni livello le confermano e corroborano) che istituiscono le categorie razziali statuendo i criteri di inclusione degli individui sono concettualmente e materialmente associate a un ordine simbolico ed economico del quale assecondano, articolano e sviluppano gli elementi e la ragione (1).

In conclusione:

  1. Un complesso di policies che punti a stabilire l'eguaglianza razziale dovrà rettificare criteri, finalità e prassi del sistema giuridico. Ciò dovrebbe avvenire non già in direzione di quella color-blindness (la concezione secondo la quale la produzione normativa e giurisprudenziale deve disconoscere qualunque rilevanza al fatto del colore e che invece si rivela il più efficace dei metodi di dissimulazione di una egemonia razziale solida e radicata in quanto incarnata nelle istituzioni al di là delle intenzioni e delle strategie degli stessi attori, e perciò costitutivamente sottratta alle sanzioni del diritto), ma, al contrario, in vista di una nuova color-consciousness, di una nuova razzializzazione, di un rafforzamento delle opportunità della comunità nera via il programmatico ridimensionamento di quelle della comunità bianca.

2. Due sentenze paradigmatiche e la questione della discriminazione razziale

Il 28 giugno 1978 la Corte Suprema degli Stati Uniti impose all'Università della California (Davis) di ammettere nella propria Facoltà di Medicina Allan Bakke (2), che era ricorso alla Corte Suprema della California (la quale aveva riconosciuto le sue ragioni) sostenendo che tra il 1973 e il 1974 i suoi diritti erano stati violati dal programma dell'università che aveva riservato 14 dei 100 posti disponibili a persone che si dichiarassero svantaggiate dal punto di vista economico o dell'istruzione ovvero appartenenti a una minoranza (3), e che in quei due anni avevano guadagnato l'ammissione nella Scuola pur ottenendo nel test di ingresso un punteggio inferiore a quello di Bakke. La Corte motivò la propria decisione affermando che non era possibile dimostrare che Bakke sarebbe stato escluso dalla Scuola anche in assenza del programma di ammissione per le minoranze, e che ciò significava che la sua esclusione era motivata dalla propria razza, dunque integrava una violazione della Equal Protection Clause contenuta nel XIV Emendamento alla Costituzione (4).

Il 23 luglio 1997 la 7th Circuit Court of Appeals giudicò legittimo il licenziamento dell'afroamericano Thomas Cowan da parte della Glenbrook Security Services, Inc., ritenendo privi di rilievo gli epiteti razziali [nigger] ripetutamente rivolti al querelante dal proprio supervisore (i cui rapporti furono determinanti nella decisione dell'azienda di licenziare Cowan) e le opinioni da questi espresse a proposito della minoranza razziale alla quale il querelante apparteneva [I don't like niggers].

La sentenza Bakke rovesciò la storia dei rapporti tra le razze negli Stati Uniti. Il depotenziamento dell'affirmative action, vale a dire di quella che era parsa la più promettente politica di riallineamento delle razze, segna - a dispetto della propria solidissima autonarrazione - il ritrarsi del diritto di matrice universalista, il suo trincerarsi in quell'assetto mondano, necessariamente strutturato in forma differenziale (nel senso della sua sedimentazione storica, della sua logica selettività istituzionale, della sua intrinseca dissimmetria materiale), che ne costituisce tanto il latente e naturale luogo di dispiegamento quanto il sotteso e insuperabile confine (5).

La sentenza Cowan fornisce invece una paradigmatica esemplificazione della dominante interpretazione giurisprudenziale del Title VII del Civil Rights Act del 1964, ossia il cardine della normativa antidiscriminatoria in tema di occupazione in vigore negli Stati Uniti (6).

Con tutta evidenza siamo di fronte a due patologie differenti (7), che integrano e segnalano due stati sistemici di ordine diverso, che alludono a due distinti decorsi, e alle quali corrispondono rispettivamente - nelle posizioni e nelle omissioni della CRT - due strategie terapeutiche difformi ma ognuna di reattività (non, evidentemente, di efficacia) inversamente proporzionale alla portata fenomenica delle situazioni da esse affrontate. La distanza tra i due casi in questione (e le tendenze giurisprudenziali da essi esemplificate) misura dunque la disomogeneità di due contesti epistemici e normativi, delle assunzioni utilizzate per decifrarli, degli strumenti adottati per conservarli o modificarli, in ultima istanza delle separate concezioni politico-regolative che soggiacciono a due diversi dispositivi euristici e diagnostici.

La tesi qui sostenuta, tuttavia, è che la CRT (8) tenda a equivocare i due orizzonti di indagine e di azione, annettendo all'uno proprietà sintomatiche, implicazioni, traiettorie evolutive e facoltà trasformatrici che sembrerebbero invece propri dell'altro: la conseguenza un calcolo non perfettamente ragionevole delle opportunità disponibili e dei costi prevedibili.

Da una parte, infatti, si sostiene l'affirmative action (9) sminuendone se non dissimulandone la discontinuità e la contraddittorietà rispetto a taluni fondamentali principi dell'ordinamento (dell'etica che lo orienta e della metafisica che esso evoca e realizza), con ciò travisando le vigenti condizioni di possibilità e sottovalutando la natura e l'entità degli investimenti da mobilitare. Dall'altra parte, si concede scarsa attenzione all'andamento degli indirizzi giurisprudenziali in materia di discriminazione, omettendo di battere un sentiero relativamente favorevole (in termini comparativi) sotto il duplice profilo del dispendio di risorse e dei benefici ipotizzabili.

Esaminiamo più da vicino le principali modalità con le quali la CRT affronta l'esperienza della discriminazione razziale negli Stati Uniti.

Nella convinzione che la sua natura residuale e meramente contrastiva, nonché il suo carattere peculiarmente post hoc, ne facciano una policy di scarso respiro e perciò scarsamente incisiva e attraente, la Critical Race Theory ha puntato poco o nulla sul rafforzamento e sul riorientamento della normativa antidiscriminazione in vigore negli Stati Uniti, pure sottoposta da alcuni decenni a letture interpretative di crescente restrittività, della cui devastante portata - in termini di trinceramento dei vantaggi acquisiti e di consolidamento consuetudinario delle politiche retoriche che valgono a custodirli - la CRT ha mostrato curiosamente di non avvedersi.

L'indirizzo giurisprudenziale invalso negli ultimi due decenni ha infatti sostanzialmente svuotato di efficacia l'intera disciplina inaugurata dal Civil Rights Act del 1964 attraverso l'azione congiunta di una tattica discorsiva e di un sovradimensionamento dei requisiti empirici. In primo luogo, l'occorrere della discriminazione è stato normalmente subordinato alla dimostrazione di una precisa intenzione discriminatoria del soggetto: in altre parole, l'esistenza di una discriminazione di fatto (di un trattamento svantaggioso a parità di condizioni e coincidente con una differenza razziale) viene comunemente reputata irrilevante ai fini dell'irrogazione di una sanzione e della relativa riparazione (10). In secondo luogo, si tende a pretendere che l'atteggiamento discriminatorio si manifesti chiaramente ed esattamente al momento dell'assunzione della decisione (11). E' difficile non vedere come un simile combinato interpretativo blindi pressoché inattaccabilmente l'autonomia di datori di lavoro e funzionari, e frustri irreparabilmente aspirazioni e prospettive del Civil Rights Act. Da una parte, infatti, si richiede una implausibile indagine di uno stato mentale, dall'altra si rafforza tale pretesa esigendone il riscontro empirico-fenomenico. In entrambi i casi si fa appello a una teoria della mente largamente sconfessata dai più accreditati studi cognitivi: tanto l'idea della trasparenza al soggetto dei propri processi mentali, quanto l'obiettivo della loro precisa collocazione e presentazione nel mondo, appaiono infatti raramente realizzabili (12). Senza necessariamente scivolare in una visione macroteleologica, appare chiaro come la loro funzione sia quella di sostenere la razzializzazione della società statunitense, quella frattura che tanto è più incolmabile quanto più la si allarga ricorrendo all'operato di meccanismi impersonali e sottraendola all'ormai inefficace morsa degli stati intenzionali (13). La prevalente giurisprudenza in materia di discriminazione chiude cioè il circolo del color-blind racism nella maniera più soddisfacente: rimuove in radice la possibilità di catturare quel razzismo senza razzisti (14) che rappresenta l'autentica spina dorsale della divisione sociale statunitense, e concede esclusiva rilevanza al razzismo di tipo finalistico-volizionale solo per proclamare la propria impotenza e dichiararlo di fatto inafferrabile.

Sorprende che la Critical Race Theory non soltanto abbia puntato solo sporadicamente e marginalmente su questo versante d'azione, ma abbia mostrato in realtà di non averne né percepito l'urgenza, né colto l'importanza strategica, né infine compreso la relativa redditività. Siamo infatti di fronte a una empasse densa di conseguenze, che per il proprio superamento richiede una pura torsione semantica le cui premesse sono reperibili in contesti affini e contigui. L'esempio è quello della giurisprudenza in materia di discriminazione per motivi di età (15): in questo caso l'indirizzo largamente prevalente è quello di includere tra le azioni discriminatorie anche quelle che "derivano da una applicazione inconscia di nozioni stereotipate di abilità piuttosto che dal desiderio deliberato di tener fuori dalla forza lavoro le persone più anziane" (16). La pronuncia della corte aderisce in questo caso a una ben più realistica visione dei processi cognitivi (17): la distinzione e selezione categoriale, infatti, è una funzione ordinaria e continua nell'orientamento di un organismo, e come tale procede in maniera regolare e latente, senza dipendere da esplicite interpellanze; i suoi esiti sono cioè semplicemente i punti d'approdo di un'attività di codificazione inferenziale di flusso che preordina i suoi elementi e che in ogni singolo episodio non fa che manifestare il proprio andamento pregresso. Ciò vuol dire che ogni discriminazione (qui intesa in senso neutro) agisce necessariamente a livello inconscio, e solo occasionalmente a livello conscio; come qualunque attività di differenziazione, il bias è infatti una risorsa individuale, uno strumento di un repertorio soggettivo che concorre a mappare il mondo interno ed esercita la propria azione senza esser costretto a emergere sul piano delle razionalizzazioni esplicite. Sulla base di questi elementi è facile concludere che l'assenza di una discriminazione esplicita (trasparente allo stesso soggetto) non prova affatto l'inesistenza di una discriminazione deliberata (qui nel senso di conforme a un sistema di principi e di valori di cui il soggetto è consapevole titolare): questa va invece individuata nelle cose stesse, vale a dire nell'oggettiva discriminazione tra soggetti che vengono trattati differentemente e che si trovano in due situazioni identiche eccetto che nella particolare appartenenza a un gruppo sociale. E nulla rileva in proposito la precisazione di Syvock v. Milwaukee Boiler Mfg. Co., secondo la quale la discriminazione per motivi di età si differenzia da quella razziale perché quest'ultima sarebbe causata da sentimenti che non presentano alcun collegamento con la capacità della persona di svolgere il lavoro, mentre la prima sarebbe determinata da convinzioni relative all'effetto dell'età sulla prestazione. La distinzione infatti lascia del tutto inalterata l'analogia funzionale tra le strutture cognitive che nei due casi presiedono alla costruzione sociocategoriale (e che in entrambi i casi ricorrono a stereotipi normativi di ordine inconscio).

Ovviamente qui non si sta sostenendo che l'adozione di una nuova accezione lessicale in campo giuridico non sia strettamente correlata a un favorevole ambiente politico-culturale (18). Proprio al contrario, si sta mettendo in rilievo come - a meno di suggerire che ogni azione di riforma presenta uguali difficoltà e identici costi - l'opportunità di un mutamento graduale (che non necessiti cioè di strutture discorsive e di risorse pragmatiche da idearsi e sorreggersi ex novo, e che possa contare sulla disponibilità di procedure discrete di disseminazione) vada presa in considerazione, laddove naturalmente esso sia reputato significativo e degno di esser perseguito, almeno quanto uno che porti con sé oggettivi tratti di incoerenza con l'ordine esistente, e la cui praticabilità venga per di più sostenuta da elementi essenziali del sistema teorico e assiologico che esso intende modificare, e privata al contempo del sostegno di una concezione politica ad essa direttamente e utilmente connessa.

3. La strategia della Critical Race Theory: giustificazioni e aporie dell'affirmative action

La Critical Race Theory ha preferito invece concentrare le proprie energie sulla promozione di una versione forte di affirmative action, principio e strumento normativo che non casualmente ha conosciuto il proprio rapido declino contestualmente all'affermazione del color-blind racism quale forma dominante dei rapporti tra le razze negli Stati Uniti, nei confronti del quale esso rappresentava l'autentico, esclusivo antidoto (19). E se è difficilmente opinabile che l'erosione dell'affirmative action abbia costituito la necessaria strategia difensiva di una politica razziale che doveva adattarsi alle rinnovate esigenze espressive e comunicative ma non intendeva recedere dalla propria tradizionale configurazione, è di conseguenza difficile mettere in dubbio la plausibilità della più ricorrente argomentazione a suo sostegno, e cioè che essa serva a rimediare agli handicap strutturali che un nero o un membro di altra minoranza svantaggiata incontra prevedibilmente, anzi normalmente, rispetto a un bianco nell'accesso alle opportunità educative o professionali (oltre che residenziali, sanitarie, finanche affettive, etc.) (20).

Ciò che invece risulta difficile - perlomeno se si rimane dentro i confini della timida e incerta struttura metadiscorsiva che viene normalmente utilizzata - è condividere la più importante argomentazione difensiva connessa, e cioè che una simile policy non leda i diritti di alcuno. A partire dalla sentenza Bakke, esemplare sia per la decisione in essa contenuta sia per il dibattito che ha suscitato, esamineremo brevemente questa idea.

Essa si sorregge principalmente su una tesi (a) e su un suo corollario (b):

  1. L'affirmative action ripristina la realtà : essa ci fa vedere come starebbero le cose se la struttura razziale statunitense non avesse compromesso il naturale sviluppo della società.
  2. L'affirmative action non contraddice il principio del merito, casomai lo realizza più autenticamente e compiutamente.

a) La tesi è ben espressa dai seguenti passi:

In un mondo più perfetto quei candidati appartenenti a minoranze avrebbero ottenuto migliori risultati alle scuole superiori e risultati al MCAT [Medical College Admissions Test] in proporzione alla loro percentuale rispetto alla popolazione generale. E in quel mondo più perfetto il cosiddetto risultato obiettivo di Bakke lo avrebbe collocato al di sotto dei primi 100 candidati. Bakke si sarebbe evidentemente classificato tra i primi 100 candidati bianchi, ma non si sarebbe classificato tra i primi 100 dell'insieme comprendente tutti i candidati. Premiare Bakke ammettendolo al posto di un candidato appartenente a una minoranza ha significato permettergli di godere dei vantaggi del razzismo della società [...] Bakke non aveva diritto ad essere ammesso al primo anno di corso perché senza razzismo quel posto sarebbe stato correttamente conquistato da un candidato appartenente a una minoranza [...] Non c'è violazione della clausola dell'eguale protezione quando la società agisce per ripristinare quell'equilibrio che si sarebbe naturalmente avuto in presenza di condizioni non razziste (21).

In uno stato di cose dove una così ampia gamma di strutture sociali e di pratiche istituzionali agisce come un ostacolo sulla strada delle eguali opportunità dei lavoratori, delle donne e delle minoranze, le policies di azione affermativa non sono una questione di trattamento preferenziale per i membri di questi gruppi. Esse rappresentano, piuttosto, dei tentativi per creare un'eguaglianza di opportunità più grande di quella che verosimilmente avrà luogo in assenza di tali policies, contrastando alcuni degli effetti delle <<preferenze>> sistemiche che favoriscono i ricchi, i bianchi, i poveri. [...] in circostanze dove la classe, il genere, la razza, operano come uno status che impedisce l'eguaglianza di opportunità, le policies di azione affermativa promuovono un più alto livello di eguaglianza di opportunità di quello che sarebbe altrimenti concesso ai membri di questi gruppi (22).

Comunque la si metta, una prospettiva del genere è semplicemente contraria all'intero impianto filosofico su cui poggia il sistema giuridico statunitense (e, per estensione, la sua ontologia sociale come viene prevalentemente riconosciuta, condivisa e abitata). Essa vi introduce infatti un elemento comunitarista e antiegualitario che non solo non riesce a comporre in maniera giustificata, ma che apre uno spiraglio dal quale si accede a una diversa metafisica che induce ad autentiche aporie logiche.

In primo luogo, per sostenere una simile tesi si deve adottare un atteggiamento profondamente e peculiarmente antindividualistico. Ignorare che l'azione promossa da Bakke è l'azione di un singolo individuo, che vede violati i propri diritti soggettivi, significa infatti che nell'assoggettarlo al regime epistemico-normativo che spetta normalmente alle classi di individui, nell'imputargli una sfera di responsabilità più ampia di quella riconducibile al suo controllo, nell'assegnargli una soggettività che lo eccede per definizione, si deve anche parzialmente occludere quello stesso criterio di classificazione: farne cioè un abito giuridico più costrittivo (maggiormente riduttivo delle opportunità formalmente disponibili) perché ritagliato su uno strumento individuativo più potente (che circoscrive più profondamente la sfera delle determinazioni generali ascrivibili a un soggetto) e più univoco (che oblitera una sezione relativamente omogenea del complesso delle determinazioni generali ascrivibili a un soggetto) rispetto a quello che definisce il soggetto in situazioni analoghe (rispetto alla classe dei bianchi, la classe dei membri di minoranze candidati alla Facoltà di Medicina della Università di California viene disegnata secondo un ordine di individuazione superiore, non viene gravata da determinazioni altrettanto particolari, da tratti altrettanto connotativi (23)). Per raggiungere tale obiettivo si deve evocare una fattispecie a contenuto determinato, che si regga cioè su un principio stipulativo sorretto da un numero non finito di presunzioni (indimostrabili): nello specifico, il dato empiricamente ineccepibile dei privilegi bianchi perpetuatisi e accumulatisi conduce all'assunzione che Bakke debba essere privato dei propri immeritati privilegi via il presupposto che egli abbia goduto realmente di determinati privilegi (le presunzioni riguardano natura e proprietà - storia, caratteri, requisiti, abilità - dei soggetti coinvolti nonché i modi particolari della loro inserzione nella traiettoria di Bakke), ciò che consente di affermare che in quella situazione concreta sussistono violazioni pregresse della clausola dell'eguale opportunità.

Ma un simile discorso regge solo ove si trascenda la particolare, contingente, singolare, concreta condizione di Bakke: ove cioè egli venga incluso in un regime normativo che ne codifichi presuntivamente esperienza e qualità, e lo faccia in ragione della sua razza. In altre parole, per sostenere che Bakke sia giustamente escluso dalla Facoltà in quanto altrimenti favorito dai vantaggi della sua bianchezza, lo si deve regolare e intendere non come individuo, bensì come pura istanza di una classe logica statuita convenzionalmente. Al contrario, si può affermare che nella sottostima del punteggio di Bakke si disveli il reale rapporto tra le capacità di Bakke e quelle dei suoi rivali solo incorrendo al tempo stesso in una fallacia metafisico-naturalistica e in una contraddizione autoperformativa, dove l'una sostiene l'altra.

La prima consiste nello scambiare una descrizione consistente di presupposizioni, dati, procedure e metodi di indagine per la rappresentazione della realtà ultima, priva delle incrostazioni che fin lì ne hanno impedito il corretto dispiegarsi, colta finalmente nella sua essenza profonda, nella sua verità: di Bakke e dei suoi avversari, nonché del loro essere in relazione, si pretende di aver individuato proprietà ed elementi costitutivi, nella cui messa in forma - anziché l'interna promanazione di determinati criteri di misurazione (dei quali invece si ignora l'artificiosità) - risiederebbe il rispecchiamento degli autentici tratti di un agente, della sua identità e delle sue possibilità catturate nei loro intimi fondamenti, attinte al di qua di ogni impurità.

b) Venendo al corollario di cui sopra si accennava, alcuni brani sono esemplificativi

Il punto non è quello di prendere posizione a favore di una «società puramente meritocratica» come modello di società ideale, ma piuttosto quello di mettere in luce la realtà dei fatti, che cioè molte istituzioni non solo sono ben lungi dal funzionare come perfette meritocrazie, ma funzionano anche in modo da svantaggiare sistematicamente i lavoratori, le donne, le persone di colore. Il minimo che si può dire è che l'azione affermativa non può essere considerata come un'improvvisa inversione di rotta, da procedure di selezione puramente meritocratiche a procedure non-meritocratiche (24).

[...] il non-riconoscimento governativo della razza è implicitamente volto a offrire un modello di comportamento per la sfera privata. Il modello funziona sia in negativo che in positivo.Il modello negativo suggerisce che il progresso sociale si conquista nel modo migliore quando le persone vengono giudicate secondo le loro abilità: i processi decisionali basati sulla razza, di conseguenza, distolgono i cittadini da un più legittimo sistema basato sul merito. Ci sono due problemi col modello negativo. Il primo è l'assunzione acritica che i sistemi meritocratici siano validi; il secondo è l'implicita negazione di qualsivoglia valore positivo alla razza (25).

[...] in un modo completamente indipendente dal merito come lo intendiamo correntemente, ci dovrebbe essere una sostanziale rappresentanza di tutte le comunità di minoranza numericamente significative nelle Law School americane. L'analogia è col diritto di voto, che noi ci rifiutiamo di distribuire sulla base del merito, e con la libertà di espressione, che noi ci rifiutiamo di riservare a coloro che meritano di parlare o ai discorsi che hanno valore. La posta in gioco è un potere giuridico e politico che viene conferito, anziché agli individui, alle comunità. Nel caso dell'azione affermativa, come nel caso del diritto di voto e della libertà di espressione, lo scopo è politico e prioritario rispetto alla ricompensa del merito [...] una massiccia azione affermativa... avrebbe anche un effetto benefico sulla qualità della vita, perché indebolirebbe gli atteggiamenti feticisti, nevrotici, o semplicemente irrazionali verso gli standard e i «diritti-basati-sul-merito» che prevalgono nell'ambiente accademico (26).

Consideriamo l'affermazione secondo la quale gli individui che si candidano ai posti disponibili nella facoltà di medicina dovrebbero essere giudicati sulla base del merito, e solo su di essa. Se questo slogan significa che le commissioni per le ammissioni dovrebbero prendere in considerazione nient'altro che i punteggi ottenuti in qualche particolare test di intelligenza, allora esso è arbitrario e, in ogni caso, contraddetto dalla consolidata prassi di qualunque facoltà di medicina. Se significa invece che una facoltà di medicina dovrebbe scegliere quei candidati che promettono di essere i medici più efficaci [useful], allora qualunque cosa influisce sulla valutazione di quali fattori rendano efficaci i diversi medici. La facoltà di medicina di Davis assegnò a ogni candidato regolare, così come a ogni candidato appartenente a un gruppo di minoranza, quello che ha chiamato un «punteggio indice» [benchmark score]. Questo rifletteva non solo i risultati di test attitudinali e le medie voto ottenute al college, ma anche una valutazione soggettiva delle possibilità del candidato di agire come un medico efficace, in considerazione del tipo di assistenza sanitaria di cui necessita la nostra attuale società. Si può presumere che le qualità che vennero giudicate importanti fossero diverse da quelle che verrebbero ricercate da una facoltà di diritto o di ingegneria o di economia, proprio come i test di intelligenza utilizzati da una facoltà di medicina sarebbero differenti da quelli che sarebbero reputati appropriati da queste altre facoltà. Non c'è una combinazione di abilità, capacità e caratteristiche individuali che costituisca il «merito» in astratto; se la destrezza manuale [quick hands] conta come «merito»> nel caso di un futuro chirurgo, è perché la destrezza manuale lo renderà più utile ai pazienti, e per nessun'altra ragione. Se - per uno spiacevole dato di fatto - una pelle nera renderà un altro dottore capace di svolgere meglio un altro incarico medico, allora anche quella pelle nera costituirà un «merito» (27).

Ma si può far a meno di tener conto dei meriti degli individui? E, se la risposta è affermativa, la Critical Race Theory - nonché gli studiosi e gli attivisti di orientamento contiguo - hanno prospettato in termini ragionevoli e/o praticabili una simile possibilità?

La metafisica sociale evocata dal principale argomento a sostegno dell'affirmative action trova la fonte e il terreno della propria strutturazione in una contraddizione performativa che si manifesta su un duplice versante. Da una parte si sostiene la necessità di respingere o rendere opaco il criterio del merito proprio mentre si invoca una policy che si appella al principio per cui i membri di intere popolazioni vedono ingiustamente ignorati i loro (reali) meriti: il problema qui non è solo l'impossibilità di una società che non rifletta sui meriti dei suoi componenti (progettando di conseguenza il proprio destino), ma è quello - precisamente concettuale - di una nozione di merito disgiunta da quella di misurazione. Dall'altra parte, si brandisce la credenza - improvvisamente e paradossalmente forte - che il sistema delle quote misuri precisamente il demerito dei mille Bakke.

Che non esista un'accezione astratta di merito, è osservazione di essenziale importanza. Essa però non coglie pienamente nel segno. Perché lo stesso Robert Dworkin farebbe fatica a sostenere che tra le virtualmente infinite combinazioni di capacità che farebbero di un medico un buon medico ne esista una che non contempli l'abilità tecnica, e il fatto che i test disponibili non siano capaci di identificare o misurare tale qualità non è un argomento a favore della sua irrilevanza (28).

Il punto è decisivo perché è dallo smantellamento della nozione di merito che procede l'intera argomentazione di Dworkin: infatti è solo sostenendo che in tale nozione qualunque qualità possiede potenzialmente identico peso che egli può accantonare il problema della lesione di qualche diritto, vale a dire della stima ingiusta delle capacità di qualche individuo. Abbattendo il criterio fondamentale del merito (l'abilità tecnica), e sostituendolo con una serie di criteri di eguale legittimità, Dworkin si è liberato infatti dell'unico metro disponibile, rimuovendo così la stessa possibilità che esista una interferenza ingiustificata nel processo valutativo: questa infatti può aversi soltanto ove nell'oggetto della valutazione vi siano una o più componenti sovraordinate, che istituiscano una chiusura operativa nel concetto, e con essa le sue possibili violazioni. Cosicché, nella sbrigativa dismissione di un concetto irrinunciabile quale quello di merito (o, quantomeno, nel disconoscimento del suo nucleo costitutivo), Dworkin non solo cade nell'errore categoriale consistente nell'equiparare una capacità non essenziale (il colore della pelle, che - in quanto talvolta utile strumento di relazione - può rappresentare una risorsa importante per un medico) a una essenziale (l'abilità tecnica), ma crea le condizioni di un ulteriore scivolamento verso una tesi segnata da qualche indebita confusione. Perché Dworkin, troppo decisamente proteso a mostrare la pari fungibilità (dunque l'identica capacità di contribuire alla composizione del merito di un candidato) di ognuna delle doti ipoteticamente esigibili da un potenziale medico, finisce per perdere di vista una sostanziale differenza all'interno di esse, e cioè che nessuna è data (vale a dire sottratta alle capacità di autogoverno o di autotrasformazione dell'individuo) salvo l'appartenenza razziale. Il che vuol dire che 1. la totalità dei candidati viene sottoposta a criteri di selezione sensibili non alle caratteristiche individuali ma a quelle connesse all'appartenenza a un gruppo; 2. uno di tali criteri è costitutivamente ineludibile e si applica - necessariamente - solo ad alcuni dei candidati (29); 3. tali candidati sono trattati in maniera ineguale (30).

4. Il limite della Critical Race Theory

La libertà non basta. Voi non potete prendere una persona che per anni è stata ristretta in catene, liberarla, portarla al nastro di partenza di una corsa e dirle «sei libero di competere con tutti gli altri», e credere con ciò di essere stati perfettamente equi. Non basta semplicemente aprire le porte delle opportunità. Tutti i nostri cittadini devono avere la capacità di attraversarle. E' questa la prossima e più importante fase della lotta per i diritti civili. Noi non aspiriamo semplicemente alla libertà, ma alle opportunità; non solo alla libertà legale, ma alle reali capacità; noi aspiriamo all'eguaglianza non solo come diritto e come teoria, ma come fatto e come risultato (31).

[...] se, storicamente, il diritto ha legittimato e protetto il privilegio bianco, la delegittimazione dovrebbe avvenire non meramente implementando un eguale trattamento, ma anche con un trattamento eguagliante in favore dei gruppi che sono stati illegittimamente privilegiati o ingiustamente subordinati dalla stratificazione razziale (32).

L'affirmative action è un principio di ineguaglianza consustanziale a un progetto di realizzazione dell'eguaglianza: la sua compatibilità con l'ordinamento giuridico statunitense (con i principii normativi e operativi che lo ispirano) non può risiedere mai nella sua attualità, bensì unicamente e costitutivamente in una transizione, in una istituzione, nella indecidibile riconfigurazione normativo-ontologica inaugurata da uno stato di eccezione.

Il limite della Critical Race Theory è quello di non saper andare fino in fondo, di non cogliere il fondamento fattuale e imprescrivibile (o meglio, pluriprescrivibile) di ogni istanza di esecuzione di una regola, di contenere ed esaurire l'innovazione normativa nelle sue stesse condizioni di possibilità. Nel richiamo all'autorità di ideali tradizionali e unificanti vi sono al tempo stesso una fiera rivendicazione di originarietà e autenticità, e la rassicurante e ostentata intrapresa di una rotta già tracciata. La conseguenza è che della modificata formulazione regolativa si sollecita la ratifica prima di favorirne il compimento, finendo così per rimanere aggrappati a risorse inefficaci perché inappropriate.

E' in un'approssimazione teorica che si può ravvisare l'intero deficit politico-strategico della CRT, e precisamente nel ricorrente ma superficiale utilizzo della categoria di egemonia, la quale - derubricata a mera e generale posizione di forza garantita a sufficienza da un'abile organizzazione retorica e sradicata da qualunque ipotesi genetica - finisce per non dire nulla sulla forma dell'articolazione che segna la dinamica di una società. Più precisamente e proficuamente, ci si dovrebbe riferire all'egemonia come al movimento e allo stato di un sistema di relazioni dato che si istituisce quale criterio epistemico-normativo di strutturazione del campo ontologico non in forza di una decidibilità metalogica, ma piuttosto di un mero convergere fattuale (la partecipazione a un gioco linguistico condiviso, a un agire ordinato che per esibire la propria intelligibilità può rimandare solo a se stesso, al fatto di essere-in-comune): si tratta di un particolare che, nell'emendare l'opacità della soggettività molteplice, declina se stesso come totalità, di un contingente sovradeterminato che dissimula l'escluso di cui è costituito e si articola come fondamento più che immanente dell'ordine collettivo, di uno stilema organizzativo che surroga l'universalità assente.

Detto altrimenti, egemonia è il compimento di una sineddoche, la terapia che rimedia all'opacità di ogni significante (alla indisponibilità di un significato che ne discenda direttamente, compiutamente e definitivamente, cioè indipendentemente dalle effettive istanze del significante) con una suturazione contingente, il movimento di una singolarità che tuttavia si istituisce come equivalenza rispetto ad una catena di ulteriori singolarità rappresentando l'indebolimento della propria differenza, e così affermandosi come sostitutività tendenzialmente illimitata e avente effetti di trascendentalizzazione. Da una parte, dunque, ogni soggetto è costitutivamente particolare per il fatto che emerge quale assenza di una soggettività assoluta e autotrasparente (sottratta a ogni determinazione contingente), ed ogni comunità è intrinsecamente divisa perché ogni consenso comporta esclusione: in questo senso, il fuori è la condizione di possibilità della comunità e al tempo stesso la ragione dell'impossibilità della sua piena realizzazione. Dall'altra parte, la totalità irrappresentabile si risolve tuttavia in un orizzonte di significato, nella dislocazione di un particolare contingente che dissimula l'esclusione che lo costituisce sovradeterminandosi come soggetto generale, come istanza comune a tutti, come condizione universale (articolazione è appunto l'insieme delle operazioni che fissano transitoriamente le identità, arrestando la proliferazione dei significati sempre implicita in ogni significante).

La sterilità della strategia discorsiva della CRT deriva proprio dalla rinuncia a quella attività di risignificazione dalla quale sola discende il riposizionamento di una soggettività, la trasformazione della relazione intersoggettiva in cui essa è inclusa, (l'egemonia realizzata o in via di compimento, ovvero l'antagonismo più promettente). La conformità all'arredo ontologico corrente si rivela redditizia per quei gruppi sociali marginalizzati che sopravvivono nello scansare ogni pratica di autocostituzione in soggettività collettiva (33) ma, per quanti invece conservano nel proprio repertorio istanze controfattuali (ma oggettive) di sovversione, condizione della trasformazione della propria soggettività è l'assunzione della responsabilità di indicare una nuova conformità all'ordine normativo, un nuovo modo di seguire la regola.


Note

*. Svolge attività di ricerca presso il CERCO (Centro di Ricerca sull'Antropologia e l'Epistemologia della Complessità), afferente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bergamo.

1. Tra i contributi meglio rappresentativi dei principi e degli obiettivi della Critical Race Theory, si veda GOTANDA Neil, A Critique of "Our Constitution is Color-Blind", "Stanford Law Review", vol. 44, 1, 1991 (trad. it. La nostra Costituzione è cieca rispetto al colore": una critica, in THOMAS Kendall, ZANETTI Gianfrancesco (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia 2005). Una introduzione generale ed esaustiva è HANEY LOPEZ Ian F., White by Law. The Legal Construction of Race, New York University Press, New York-London 1996. Un fondamentale approccio genealogico alla questione razziale - secondo il quale la bianchezza è storicamente, fattualmente e logicamente associata al modo economico di produzione - è HARRIS Cheryl I., Whiteness as Property, "Harvard Law Journal", vol. 106, 1709, 1993 (trad. it. parz. La bianchezza come "proprietà", in THOMAS Kendall, ZANETTI Gianfrancesco (a cura di), op. cit.. Sulla dimensione negoziale, conflittuale e parziale delle categorie socio-giuridiche razziali cfr. DELGADO Richard, STEFANCIC Jean, Why Do We Tell the Same Stories? Law Reform, Critical Librarianship, and the Triple Helix Dilemma, "Stanford Law Review", vol. 42, 207, 1989; HANEY LOPEZ Ian F., The Social Construction of Race. Some Observations on Illusion, Fabrication, and Choice, "Harvard Civil Rights - Civil Liberties Law Review", vol. 29, no. 1, 1994; PEREA Juan F., The Black/White Binary Paradigm of Race, "California Law Review", vol. 85, 1213, 1997. Sulla natura irrimediabilmente (e politicamente) situata del linguaggio giuridico cfr. WILLIAMS Robert A. Jr., Documents of Barbarism: The Contemporary Legacy of European Racism and Colonialism in the Narrative Traditions of Federal Indian Law, "Arizona Law Review", vol. 31, 237, 1989; TORRES Gerald, MILUN Kathryn, Translating Yonnondio by Precedent and Evidence: The Mashpee Indian Case, "Duke Law Journal", vol. 39, 625, 1990. Per un sintetico punto di vista teorico-dottrinale cfr. BELL Derrick A.Jr., Racial Realism, "Connecticut Law Review", vol. 24, 363, 1992. Utili antologie sono DELGADO Richard, STEFANCIC Jean (eds.), Critical Race Theory. The Cutting Edge, Temple University Press, Philadelphia 20002; CRENSHAW Kimberlé, GOTANDA Neil, PELLER Gary, THOMAS Kendall (eds.), Critical Race Theory. The Key Writings That Formed the Movement, New Press, New York 1995.

2. Regents of the University of California v. Bakke, 438 U.S. 265 (1978).

3. Per minority groups la University of California intendeva "blacks, Chicanos, Asians, Indian Americans".

4. La Section 1 dell'Amendment XIV to U.S.Constitution recita: "[...] nessuno stato negherà a una persona che si trovi sotto la sua giurisdizione l'eguale protezione delle leggi".

5. Va precisato che la sentenza Bakke dichiarò inconstituzionale unicamente il sistema delle quote. La considerazione della razza quale fattore aggiuntivo in tema di selezione educativa o professionale è invece reputata legittima ove integri un criterio non massiccio o generalizzato, bensì circoscritto e mirato (narrowly tailored). In tal senso Grutter v. Bollinger, 539 U.S. 306 (2003), che stabilì che i vantaggi accordati ai membri delle minoranze dai criteri di ammissione della University of Michigan Law School non violavano il XIV Emendamento alla Costituzione in quanto ragionevolmente rivolti all'obiettivo della diversità del corpo studentesco. In senso precisamente opposto, invece, Gratz v. Bollinger, 539 U.S. 244 (2003), a proposito dei vantaggi accordati ai membri delle minoranze dai criteri di ammissione della University of Michigan.

6. La Section 703 del Civil Rights Act del 1964 (42 U.S.C. §§ 2000e to -16) "proibisce la discriminazione da parte dei datori di lavoro sulla base della razza, del colore, della religione, del sesso o dell'origine nazionale". In particolare, "costituirà pratica illecita per un datore di lavoro evitare o rifiutarsi di assumere una persona, ovvero licenziarla - o attuare contro una persona un comportamento discriminatorio relativamente al compenso, ai termini, alle condizioni, alle prerogative del suo lavoro - in ragione della razza, del colore, della religione, del sesso o dell'origine nazionale di questa persona" (42 U.S.C. §§ 2000e - 2).

7. Per "patologia" intendiamo naturalmente uno stato disfunzionale di un sistema nella prospettiva di un osservatore dato: non vi è patologia senza un osservatore che propone una diversa fisiologia, perché non vi è un sistema senza un osservatore che ne individua gli stati. Da una diversa prospettiva (di un diverso osservatore) sarà facile notare che nella subordinazione della popolazione nera negli Stati Uniti non vi è alcunché di patologico, essa rappresentando un modo (una determinata forma di relazione) che, senza essere necessario al sistema, è ad esso connaturato (essi condividono una comune natura).

8. L'unitarietà teorico-dottrinale che si tende ad attribuire alla Critical Race Theory è ovviamente solo parziale e limitata. In questo caso, tuttavia, l'indirizzo metodologico-politico a cui facciamo riferimento appare essere sufficientemente solido e condiviso da consentire ampie generalizzazioni.

9. L'affirmative action - ideata per il mercato del lavoro, ma il cui principio ispiratore si estese immediatamente all'intero mercato delle opportunità - fu istituita dall'Executive Order 10925 del 6 marzo 1961, secondo il quale "le aziende contraenti del governo devono intraprendere azioni positive per accertarsi che i candidati siano assunti, e che i lavoratori vengano trattati, senza tener conto della loro razza, del loro credo, del loro colore, della loro origine nazionale" (si costituiva inoltre il President's Committee on Equal Employment Opportunity, che col Civil Rights Act del 1964 sarebbe divenuto Equal Employment Opportunity Commission (EEOC)). Il 17 ottobre 1967 l'Executive Order 11375 (che emendava l'Executive Order 11246 del 24 settembre 1965) avrebbe poi fissato in 50.000 dollari annuali la soglia dei ricavi complessivi provenienti da un contratto federale oltre la quale un'azienda contraente o subcontraente del governo (che però impiegasse almeno 50 dipendenti) si sarebbe dovuta dotare di un piano di affirmative action, e avrebbe aggiunto il sesso ai criteri che non avrebbero dovuto avere alcun peso nelle pratiche di assunzione di un'azienda e nei modi di trattamento del lavoratore ("[...] senza tener conto della loro razza, del loro colore, della loro religione, del loro sesso, della loro origine nazionale")

10. Si richiede di norma una intentional discrimination, una purposeful discrimination, un discriminatory animus. Si è anche chiarito che il discriminatory purpose è qualcosa di più della semplice consapevolezza delle conseguenze discriminatorie di un atto, e qualcosa di più anche del semplice intento come volizione (intent as volition) (Personnel Adm'r v. Feeney, 442 U.S 256, 279 (1979)). Naturalmente la prova di tale intenzione ricade sul querelante: "Siamo consapevoli che la discriminazione razziale sul lavoro può verificarsi in modi tanto sottili quanto ovvii, entrambi contrari all'obiettivo dell'eguale opportunità fissato dal Congresso nel Titolo VII [...] Siamo anche consapevoli che le forme sottili di discriminazione possono essere difficili da dimostrare, ma l'onere della prova è a carico del querelante" Nichelson v. Quaker Oats Co., 752 F.2d 1153, 1156 (6th Cir. 1985).

11. Cfr. ad esempio McCarthy v. Kemper Life Ins. Co., 924 F.2d 683, 686-687 (7th Cir. 1991), secondo la quale, per essere prova sufficiente di racial animus, i commenti di carattere razziale devono essere relativamente contemporanei alla conclusione del rapporto di lavoro e "collegati alla decisione avente per oggetto l'impiego in questione"; oppure Williams v. Mead Coated Bd., Inc., 836 F. Supp. 1552, 1571 (M.D. Ala. 1993), che riteneva insufficienti per provare una discriminazione intenzionale i commenti di carattere razziale "non collegati alla decisione sull'impiego"). Sentenze come queste si richiamavano in realtà espressamente alla sentenza della Corte Suprema Price Waterhouse v.Hopkins, 490 U.S. 228 che, in un caso di asserita discriminazione professionale per motivi di genere, osservava che "il tempo presente attivo dei verbi in uso nella Section 703 (a)(1) ("evitare o rifiutarsi") indirizza la nostra attenzione al momento effettivo dell'evento in questione, l'avversa decisione sull'impiego. L'indagine cruciale, quella pretesa dalle parole della Section 703(a)(1), è se il genere sia stato un fattore nella decisione sull'impiego nel momento in cui essa è stata presa" (pp. 240-241).

12. Più precisamente, appare pressoché irraggiungibile, se non addirittura inconcepibile, la dimostrazione della loro realizzazione.

13. Una innegabile evoluzione politico-culturale ha ritirato pressoché ogni credibilità agli atteggiamenti razzisti tradizionali (quelli che denotano avversione esplicita e che si manifestano con uso massiccio e noncurante di stereotipi negativi), i quali naturalmente rimangono diffusi in misura cospicua - la loro recente impresentabilità ne determina anzi una certa invisibilità - ma risultano ormai scarsamente spendibili.
Con institutional racism o color-blind racism si intende appunto una discriminazione razziale di tipo strutturale, vale a dire radicata storicamente (cresciuta nella difesa della propria origine) e capace di riprodursi attraverso pratiche, transazioni e modalità organizzative non direttamente attivate o dipendenti da motivazioni e finalità di singoli agenti (individuali o collettivi che siano), ma connesse a ragioni sistemiche: il quadro generale è quello della correlazione - con effetti cumulativi e di rinforzo - tra deficit educativi, residenziali e professionali, ma valgano nello specifico gli esempi dei network informali che in gran parte presiedono alla distribuzione dei posti di lavoro e che favoriscono i bianchi in virtù della semplice storia delle condizioni occupazionali negli Stati Uniti (destinatari delle offerte sono gli insiders, e gli insiders sono storicamente, prevalentemente bianchi: la linea del colore deve la propria riproduzione alla propria mera esistenza), o dell'agenzia immobiliare che nella vendita di un'abitazione discrimina l'acquirente nero non per una qualche intenzione razzista bensì per scongiurare l'oggettivo deterioramento del valore dell'immobile. Sull'argomento sia consentito rimandare a GELARDI Massimo, Discriminazione e "color-blind society": la dissoluzione della questione razziale negli USA, "Cosmopolis", II, 1, 2007.

14. Cfr. BONILLA-SILVA Eduardo, Racism without Racists. Color-Blind Racism and the Persistence of Racial Inequality in the United States, Rowman & Littlefield, Lanham (MD) 2003.

15. Secondo l'Age Discrimination in Employment Act (ADEA) del 1988 (29 U.S.C. § 623 (a), "costituirà pratica illecita per un datore di lavoro evitare o rifiutarsi di assumere una persona, ovvero licenziarla - o attuare contro una persona un comportamento discriminatorio relativamente al compenso, ai termini, alle condizioni, alle prerogative del suo lavoro - in ragione dell'età di questa persona".

16. Syvock v. Milwaukee Boiler Mfg. Co., 665 F.2d 149, 155 (7th Cir. 1981); a questa sentenza si è ripetutamente richiamata la giurisprudenza dei decenni successivi. Cfr. anche Burlew v. Eaton Corp., 869 F.2d, 1063, 1066 (7th Cir. 1989), secondo la quale "questo standard - che l'età fosse un fattore determinante - non richiede in sé alcun accertamento attorno allo stato della mente dell'imputato, perché nel diritto esiste una distinzione tra motivo e intento. <<Motivo è ciò che spinge una persona ad agire, o a rinunciare ad agire. Intento si riferisce esclusivamente allo stato della mente con il quale l'atto viene compiuto o omesso>>. Infatti nel 1981 noi affermammo: <<Il Congresso, secondo noi, intese che ai sensi dell'ADEA la responsabilità possa essere stabilita senza alcuna dimostrazione relativa allo stato della mente dell'imputato>>".

17. Cfr. HAMILTON KRIEGER Linda, The Content of Our Categories: A Cognitive Bias Approach to Discrimination and Equal Employment Opportunity, "Stanford Law Review", vol. 47, 1161, 1995.

18. Altrettanto ovviamente alludiamo qui a una relazione di omologia, non a una di causazione: i rapporti tra sottosistemi sociali (in questo caso quello giuridico e quello politico, sebbene i confini siano con tutta evidenza porosi) non obbediscono ad alcuna regolarità deterministica, tantomeno univoca.

19. Con l'espressione affirmative action ci riferiamo qui in realtà a un vasto e incisivo sistema di quote, vale a dire quello dichiarato illecito dalla sentenza Bakke (e, per esempio, dalla sentenza Grutter: vedi retro, nota 5). Come si è accennato, invece, una blanda considerazione del fattore razziale nei metodi di selezione e distribuzione delle opportunità non è bandita dalla corrente giurisprudenza; ma discutere l'affirmative action nelle sue manifestazioni meno significative e rivoluzionarie appare poco sensato (l'argomento, tuttavia, non è affatto ignorato dalla letteratura: cfr., solo a titolo di esempio, WISE Tim, Affirmative Action: Racial Preference in Black and White, Routledge, New York-London 2005, pp. 71-72, laddove si contesta la tendenza al vittimismo bianco facendo notare come in realtà l'affirmative action - nei limiti entro i quali è stata ristretta - riduca in maniera pressoché risibile le possibilità di ammissione degli studenti bianchi; l'irresistibile impressione è che si difenda un principio proclamandolo innocuo).

20. La seconda più importante argomentazione è quella della necessità di promuovere la diversità (cfr. per esempio KENNEDY Duncan, Per l'azione affermativa nelle Law Schools, in THOMAS Kendall, ZANETTI Gianfrancesco (a cura di), op. cit.). Talvolta, ma mai come tesi principale, si aggiunge l'idea che si debba fornire un risarcimento per i torti subiti nel passato.

21. FISCUS Ronald J., The Constitutional Logic of Affirmative Action: Making the Case for Quotas, Duke University Press, Durham (NC), 1992, pp. 38-39. Pur non potendo in alcun modo ascriversi alla corrente della Critical Race Theory, l'autore ne esemplifica in questo caso perfettamente temi e assunzioni. Analoga osservazione vale a proposito delle influenti riflessioni di Ronald Dworkin (cfr. infra, nota 27).

22. HARRIS Charles Luke, NARAYAN Uma, L'azione affermativa e il mito del trattamento preferenziale, in THOMAS Kendall, ZANETTI Gianfrancesco (a cura di), op. cit., pp. 169-170.

23. All'ovvia obiezione secondo la quale ratio dell'affirmative action è proprio che la classe degli appartenenti alle minoranze è gravata e connotata dalle determinazioni della propria storia di ingiustizie, è facile replicare che un simile confronto apparenta operazioni logico-esistenziali di natura diversa: in un caso si allude alla totalità delle istanze di una classe (i bianchi), convenzionalmente sussunte in una rappresentazione uniforme, senza residui (viene espunto dalla descrizione il bianco che rispetto ai membri - perlomeno rispetto ad alcuni membri - di una minoranza non ha goduto di privilegi), alla quale si assegnano conseguenze legali (sanzionate istituzionalmente e coattivamente); nell'altro caso si procede a una generalizzazione congetturale, apertamente fittizia, che dissimula e tuttavia accoglie le proprie istanze contrarie (i membri di minoranze che non hanno subito discriminazioni) lasciandole libere di esercitare gli effetti della propria diversa e irriducibile realtà (essi ottengono un trattamento preferenziale a dispetto della loro storia priva di discriminazioni). Agli uni si nega, agli altri si riconosce quella singolarità (esito intersezionale e transitorio di una pluralità di condizioni universali) dentro la quale inestricabilmente congiunti dimorano accidenti, potenzialità e libertà.

24. HARRIS Charles Luke, NARAYAN Uma, L'azione affermativa e il mito del trattamento preferenziale, in THOMAS Kendall, ZANETTI Gianfrancesco (a cura di), op. cit., pp. 171-172.

25. GOTANDA Neil, "La nostra costituzione è cieca rispetto al colore": una critica, in THOMAS Kendall, ZANETTI Gianfrancesco (a cura di), op. cit., p. 55.

26. KENNEDY Duncan, Per l'azione affermativa nelle Law Schools, in THOMAS Kendall, ZANETTI Gianfrancesco (a cura di), op. cit., pp. 149-150; 151.

27. DWORKIN Robert, Bakke's Case: Are Quotas Unfair?, in Boxill Bernard (ed.), Race and Racism, Oxford University Press, Oxford-New York 2001, p. 303.

28. L'inadeguatezza dei test formali di misurazione di abilità (a qualunque livello, in qualunque sfera di attività) - vale a dire la loro parzialità, la loro incapacità di agire egualmente sui soggetti ai quali vengono somministrati - è un tratto cruciale della subordinazione delle minoranze razziali negli Stati Uniti (per una esaustiva rassegna delle ragioni di natura materiale e culturale che rendono sostanzialmente inaffidabili tali test, cfr. WISE Tim, op. cit., pp. 91-124), ma non è che una parte del problema: è infatti l'intero sistema delle interazioni, in primo luogo nelle sue modalità informali, ad essere talmente rigido da deprimere aspettative e opportunità degli individui che manifestano uno stile dissonante rispetto a quello assunto come canonico. E' difficile stimare la diversità culturale delle minoranze, ma nella riproduzione dei privilegi bianchi negli Stati Uniti gioca certamente un ruolo essenziale la penalizzazione di modi espressivi che risultano largamente meno diffusi nella popolazione bianca, e ai quali vengono regolarmente associate sanzioni (formali e informali) capaci di recidere, spesso in radice, intere biografie professionali e esistenziali (individuali e - ancor più importante - collettive).

29. Dworkin sostiene che "in passato era sensato affermare che nell'escludere uno studente nero o ebreo lo si sacrificava per via della sua razza o della sua religione; questo significava che la sua esclusione era considerata come desiderabile in sé, non perché essa contribuisse a un qualche obiettivo del quale egli, come il resto della società, potesse sentirsi orgoglioso. Allan Bakke viene «sacrificato» per via della sua razza solo in un senso molto artificiale del termine" (DWORKIN Robert, op. cit., pp. 305-306). Ma a Dworkin sfugge che qui si tratta di una questione di fatto. Bakke viene escluso perché bianco (in un senso per nulla artificiale del termine), quali che siano le motivazioni e gli obiettivi per i quali la sua razza viene reputata significativa.

30. Le presenti osservazioni sono dedicate alla plausibilità politica dei programmi di affirmative action, alla cornice pratico-discorsiva cui essi affidano la loro realizzabilità e persistenza istituzionale. Per una utile e rapida disamina di due degli argomenti più ricorrenti (e però di portata meno generale) nelle tesi dei detrattori della affirmative action, cfr. l'equilibrata confutazione della convinzione che l'affirmative action finisca per provocare una parziale dequalificazione della forza-lavoro, contenuta in HOLZER Harry J., NEUMARK David, What Does Do Affirmative Action?, in HOLZER Harry J., NEUMARK David (eds.), The Economics of Affirmative Action, Elgar Reference Collection, Cheltenham, Northampton 2004; e - quali convinte ed esemplari esposizioni della poco credibile idea che l'affirmative action abbia sulle minoranze effetti di stigmatizzazione più profondi di quelli provocati da una condizione di perdurante subordinazione - STEELE Shelby, The Content of Our Character: A New Vision of Race in America, St. Martin's Press, New York 1990; McWHORTER John, Losing the Race: Self-Sabotage in Black America, Free Press, New York 2000 (la sensazione è abbastanza diffusa nella parte politicamente conservatrice della comunità nera, della quale i due autori indicati sono elementi particolarmente rappresentativi, ma tale punto di vista rimane decisamente e non casualmente elitario, come dimostra il fatto che solo una esigua parte degli Afroamericani si oppone ai programmi di affirmative action (il 12% secondo un sondaggio Gallup del 2005): per un quadro delle posizioni - non sempre prevedibili - tenute dai distinti gruppi razziali a proposito dell'affirmative action cfr. BOBO Lawrence, Race and Beliefs about Affirmative Action: Assessing the Effects of Interests, Group Threat, Ideology, and Racism, in SEARS David O., SIDANIUS Jim, BOBO Lawrence (eds.), Racialized Politics: The Debate about Racism in America, University of Chicago Press, Chicago-London 2000).

31. Dal discorso che il presidente Lyndon Johnson pronunciò in occasione dell'emanazione dell'Executive Order 11246 del 1965 (cit. in STEINBERG Stephen, Turning Back: The Retreat from Racial Justice in American Thought and Policy, Beacon Press, Boston (MASS) 1995, pp. 113-114).

32. HARRIS Cheryl, L'azione affermativa come strategia per delegittimare la bianchezza come interesse proprietario, in THOMAS Kendall, ZANETTI Gianfrancesco (a cura di), op. cit., pp. 154-155.

33. Non è casuale che negli Stati Uniti l'affirmative action abbia fin qui esibito il proprio vigore a pressoché esclusivo beneficio delle classi dei disabili o dei veterani di guerra, strutturalmente impossibilitati a virare la propria differenza in contingente trascendenza.