2006

Apologia della vecchietta, ovvero Surtout, pas trop de zèle

Mauro Barberis (*)

Legge, razza e diritti, l'antologia sulla Critical Race Theory curata con la solita sensibilità da Gianfrancesco Zanetti insieme con Kendall Thomas, è un libro importante non solo in sé, ma anche perché fornisce l'occasione per discutere di razzismo e anti-razzismo in termini meno generici di quanto si faccia di solito. Mi scuso quindi se gran parte di questo intervento sarà dedicato - non tanto al libro, su cui tornerò comunque nella terza parte, quanto - ai rapporti fra razzismo e anti-razzismo non solo al di là, ma anche al di qua dell'Atlantico. In particolare, nella prima parte dell'intervento cercherò di fare qualche riflessione sul razzismo in sé; nella seconda, di avanzare qualche ipotesi su quella forma di pluralismo culturale, o multiculturalismo, o politica della differenza, che è l'anti-razzismo; nella terza parte, di suggerire qualche tratto di una politica anti-razzista più efficace e realistica di quella consueta.

1. Che cos'è il razzismo? Il termine 'razzismo' presenta una ambiguità comune a tutti i termini con lo stesso suffisso ('ismo'): si potrebbe chiamarla l'ambiguità studio/oggetto di studio. Nel primo senso (studio), 'razzismo' significa le teorie o piuttosto le dottrine della razza che compaiono a partire dal Settecento: dottrine che peraltro s'innestano, e cercano di legittimare scientificamente pre-giudizi molto più antichi. In un lavoro di qualche anno fa (La grammatica del razzismo, in "Ragion pratica", 3, 1994), ho cercato di mostrare che il rapporto fra queste teorie e dottrine e il senso comune risponde a un meccanismo di divisione del lavoro linguistico: il senso comune razzista cerca legittimazione scientifica nelle dottrine razziste, ma può sopravvivere allegramente alla confutazione scientifica di queste ultime.

Molto più importante, dunque, è il secondo senso di 'razzismo': non lo studio, ma l'oggetto di studio, ossia lo stesso insieme di atteggiamenti, discorsi, pratiche discriminatorie che chiamiamo normalmente razzismo. Nel lavoro del 1994 cercavo di distinguere il razzismo in questo secondo senso da altri fenomeni affini, di solito molto più antichi, che concorrono a determinare la fallace impressione che il razzismo sia eterno e inestirpabile: schiavismo, esclusivismo, etnocentrismo, xenofobia, antisemitismo, e anche alcune forme di pluralismo culturale, o multiculturalismo, o politica della differenza, su cui tornerò nella seconda parte. Qui, invece, vorrei avanzare un'ipotesi più forte sul razzismo: un'ipotesi che suonerà ambigua, che verrà certamente contestata, ma che vi sottopongo lo stesso, per amore di discussione.

Per rispondere alla domanda 'cos'è il razzismo?' occorre prima un'analisi del fenomeno del pre-giudizio, come quella condotta da Pierre-André Taguieff ne La force du prejugé (1987), tradotto dal Mulino nel 1994. I pre-giudizi sono credenze prive di valore scientifico, ma utili per orientarsi nella vita quotidiana. Il pregiudizio razzista appartiene a un'ampia famiglia di stereotipi del tipo: i filosofi hanno la testa fra le nuvole, gli scozzesi sono tirchi, gli zingari rubano, e via generalizzando. Si tratta di generalizzazioni induttive che urtano chiunque si collochi al di sopra di una certa soglia di cultura e di sensibilità etica, e che hanno un valore scientifico o teorico prossimo allo zero: ma - questo il punto - aiutano nella pratica, e non sono eticamente indifferenti (cfr. almeno F. Schauer, Profiles, Probabilities and Stereotypes, Harvard U. P., Cambridge (Mass.), 2003, di prossima traduzione presso il Mulino.

Per fare un esempio che urterà i più: se su un autobus affollato salgono due zingari, e la solita vecchietta con il cappellino si aggrappa alla propria borsetta, possiamo biasimarla per questo? (Naturalmente, anche il termine 'vecchietta' indica uno stereotipo, ed è politicamente scorretto. Ma se cominciassimo a infischiarcene, del politicamente corretto?). Certo, magari la vecchietta ha completamente torto: i due zingari sono perfettamente integrati, hanno un master ad Harvard, e comunque non si dedicano più al banale borseggio, bensì a quel tipo di furto su più larga scala che sono le assicurazioni. Ma tant'è, non possiamo biasimare la vecchietta che, d'istinto, s'aggrappa alla borsetta; al massimo possiamo prendercela con i vari Borghezio che sfruttano le sue paure. Ma il pregiudizio della vecchietta è utile: certo non la fa vivere meglio, ma la mette in guardia da brutte sorprese.

Qualcuno a questo punto comincerà a sospettare che io stia difendendo il razzismo come una sorta di male necessario. Niente di tutto questo. Sto solo mettendo fieno in cascina per sostenere una forma di anti-razzismo meno ingenua e irrealistica di quella che tutti noi comunemente sosteniamo. Voglio dire: se uno di noi si mettesse a fare la predica alla vecchietta, dicendo che non è affatto detto che due zingari salgano su un autobus affollato per rubare, che si tratta solo di pregiudizi e stereotipi razzisti, otterrebbe il solo risultato di confermare altri pre-giudizi della vecchietta: in particolare, il pre-giudizio che gli anti-razzisti siano complessivamente un mix di anime belle e di grilli parlanti. Pregiudizio anche questo, certo: ma in questo caso la nostra simpatica vecchietta, temo, avrebbe perfettamente ragione.

2. Il nostro problema, dunque, non è il razzismo, che è sempre brutto, sporco e cattivo, ma l'anti-razzismo: o almeno l'anti-razzismo tutto impegnato, almen in Italia, a darsi la zappa sui piedi. Parliamo dell'anti-razzismo, allora, cercando di collocarlo nel panorama delle idee correnti. Il sottoscritto ha appena finito di curare un numero monografico di "Ragion pratica" sul pluralismo dei valori (value pluralism), nel senso di Isaiah Berlin, Bernard Williams e compagnia bella: numero che uscirà a giugno, e al quale ha partecipato anche il mio amico Gianfrancesco, con un saggio, manco a dirlo, sulla Teoria critica della razza. Confesso che appena ho letto il suo saggio, informato e brillante come al solito, mi sono subito chiesto che cosa diavolo avesse a che fare la Teoria critica della razza con il pluralismo (dei valori): e mi sono dato la seguente risposta.

Ci sono tre grandi famiglie di pluralismi, o tre sensi principali di 'pluralismo': il pluralismo politico, come la tesi di John Rawls sul fatto del pluralismo; il pluralismo culturale, detto anche multiculturalismo; il pluralismo dei valori, o etico, o meglio ancora meta-etico. L'anti-razzismo, in effetti, non è una forma di pluralismo dei valori, bensì di pluralismo culturale o multiculturalismo. Secondo una nota classificazione di Will Kymlicka, si danno almeno tre forme di multiculturalismo, tre sensi principali di 'multiculturalismo': il multinazionalismo, la polietnicità, e le varie politiche della differenza (di genere, di inclinazione sessuale, di abilità, e anche di razza; su tutte queste uggiose classificazioni, posso solo rinviare al mio libro Etica per giuristi, che uscirà in autunno da Laterza). L'anti-razzismo della Teoria critica della razza è appunto una forma di politica della differenza.

Detto altrimenti, si tratta della rivendicazione di diritti al riconoscimento, e poi anche al trattamento preferenziale, o compensativo, o redistributivo, da parte di minoranze ingiustamente discriminate per ragioni razziali: rivendicazione che, dopo i flussi migratori che attraversano la globalizzazione, non è comune solo nella sua patria storica, gli Stati Uniti, ma anche nella vecchia Europa. La cosa importante, in questa classificazione dell'anti-razzismo come forma di pluralismo culturale, o multiculturalismo, è questa: che si tratta di una dottrina strutturalmente ambigua. Da un lato, è una dottrina che reclama eguaglianza di diritti per neri, zingari, cinesi...; dall'altra, è una dottrina che rivendica differenza, identità, non-omologazione culturale, e simili.

Letizia Gianformaggio ci ha insegnato a guardare alle rivendicazioni di differenza come un aspetto della lotta per l'eguaglianza. Ma altri, come il Francesco Remotti di Contro l'identità (1996) ci invitano a guardarci dalle rivendicazioni identitarie; lo stesso Taguieff sopra menzionato ha mostrato come in Francia tesi razziste, divenute impresentabili dopo l'Olocausto, siano state recuperate e rimesse in circolazione camuffandole da rivendicazioni pluraliste, multiculturaliste, identitarie. Questa tensione fra egualitarismo e differenzialismo, in effetti, si presenta anche nella Teoria critica della razza: che è un tentativo di superamento dell'anti-razzismo liberal, con la sua idea egualitaria della cecità al colore, nella direzione differenzialista della sensibilità alla razza. Proprio di questo - ossia, di una politica anti-razzista all'altezza, o alla bassezza dei tempi - occorre discutere ora.

3. Legge, razza e diritti non è un asettico reportage sullo stato dell'arte dell'anti-razzismo teorico. Si tratta anche della prosecuzione della riflessione sull'etica di Zanetti e di tutto il gruppo di studiosi operanti presso l'università di Modena e Reggio Emilia: riflessione teorica, come nella Introduzione al pensiero normativo (2004), ma anche pratica, come negli Elementi di etica pratica (2003). Che non si tratti mai di «riflessione puramente teorica», come l'antologia dice a p. 152 a proposito della Teoria critica della razza, in effetti, permette di cercare in questo libro non solo le tracce di un metodo di soluzione dei problemi normativi (sul quale ardisco rinviare ancora a M. Barberis, «Facta sunt observanda». Sulla metodolologia etica "modenese", in "Ragion pratica", 23, 2004), ma anche qualche indicazione sulla politica anti-razzista da perseguire.

Legge, razza e diritti contiene molto materiale interessante, anche da questo punto di vista; qui mi limito a uno dei saggi migliori della raccolta, il lavoro di Kendall Thomas intitolato anch'esso Legge, razza e diritti, già apparso in "Filosofia politica", 2003. In poche pagine, il lavoro delinea il passaggio dalla vecchia politica di apartheid consacrata nella dottrina «separate but equals», sostenuta dalla Corte Suprema in Plessy v. Ferguson (1896), alla politica liberal di "cecità al colore", ben rappresentata dalla decisione Brown v. Board of Education (1954) opportunamente riportata all'inizio della raccolta, sino alla Teoria critica della razza: il cui motivo caratteristico, se ce n'è uno, è proprio il tentativo di superamento dell'ideale liberal della color blindness per una prospettiva differenzialista e multiculturalista "sensibile alla razza".

Facendo astrazione dal cosiddetto post-modernismo di questa prospettiva (sul quale ho spremuto tutto il mio sarcasmo nell'Introduzione a G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, Mulino, Bologna, 2001), il nucleo di questa proposta è il seguente: decenni di politica dei diritti civili, di cecità al colore e di eguaglianza solo formale hanno prodotto soltanto sempre maggiore emarginazione della popolazione di colore; una nuova politica "sensibile alla razza", invece, avrebbe la possibilità di rovesciare questa tendenza. I giornali di questi giorni, peraltro, riportano un esempio di "sensibilità alla razza" che sta facendo molto discutere, almeno negli Stati Uniti; lo riprendo come l'ha riportato "Repubblica" lo scorso 15 aprile, perché aiuta a chiarire l'alternativa fra i due tipi di politica anti-razzista.

Nello Stato del Nebraska, su iniziativa del senatore nero Ernie Chambers, è stata approvata una legge che differenzia per razza i distretti scolastici: in poche parole, secondo questa legge sostenuta, suppongo, da una parte consistente della stessa comunità afro-americana, d'ora in poi bianchi, neri e latinos avranno ognuno le loro scuole, come ai bei tempi dell'apartheid. Ritenendo che la tradizionale politica egualitaria liberal abbia fallito, producendo scuole di fatto già divise per colore, con gli istituti migliori frequentati dai bianchi e gli istituti peggiori frequentati da neri e ispanici, il senatore Chambers ha optato per una politica differenzialista, multiculturalista e sensibile alla razza: la comunità nera e quella ispanica gestiranno direttamente le loro scuole e cercheranno di portarle al livello delle scuole bianche.

La legge entrerà in vigore solo nel 2008, e comunque appare sin d'ora incostituzionale: ma il problema resta. La mia opinione di liberal è che la legge non migliorerà la situazione nei distretti scolastici neri e intanto reintrodurrà l'apartheid: che mi sembra il risultato peggiore possibile. Su questa opinione, peraltro, pesa un mio personale pregiudizio sulla sinistra statunitense, e sulla stessa Teoria critica della razza; per me, che vedo la questione dalla vecchia Europa, l'unica soluzione a questi problemi ha poco a che fare con la razza, e molto con una politica redistributiva gestita in prima persona dai rappresentanti di minoranze che si avviano a diventare maggioranze numeriche; dunque, la soluzione è politica, passa attraverso la riforma del sistema elettorale e la partecipazione al voto di tutti coloro che oggi ne sono di fatto esclusi.

Quello che Teoria critica della razza e multiculturalismo hanno da insegnare a noi, liberal europei o italiani, è però questo: ogni teoria o dottrina sociale è culturalmente situata, e non può essere elaborata senza ascoltare i diretti interessati. Certo, i diretti interessati possono avere torto marcio, e noi perfettamente ragione: ma tant'è, sarebbe inutile, o controproducente, imporre loro ricette cui costoro non credono e non possono credere. Dunque, occorre parlare con le persone e ascoltare le loro ragioni: anche quando ci sembrano balbettamenti razzisti. In uno slogan: siamo inflessibili sui princìpi, ma comprensivi con le vecchiette; beninteso, se non vogliamo che si allarghi ancora la voragine che oggi ci divide da una buona metà di questo paese. Tutto questo, ovviamente, è stato scritto dopo il 9-10 aprile.


*. Università di Trieste.