2006

Nominare la razza (*)

Étienne Balibar (**)

Recentemente mi sono ritrovato a leggere il prologo del libro di Lani Guinier (scritto a quattro mani con Gerald Torres), The Miner's Canary (1). L'autrice ricorda il momento in cui, mentre era impegnata a scrivere al computer un testo su una «donna nera del Texas», il figlioletto di otto anni, che stava leggendo alle sue spalle, le chiese di togliere la parola 'nera': «non importa specificarla, mamma». Difendendo la sua idea politica e forte di molte esperienze personali, Guinier ribatté che in determinate occasioni il nome della razza deve essere rivendicato. «Ma Niko insisteva, quindi gli domandai: "Cosa dovrei dire allora? Preferiresti che scrivessi 'Un'affascinante persona del Texas mi chiese di scattare una foto con lei'?" Niko rispose: "No, è una donna". "Perché è importante specificare che si tratta di una donna, ma non di una donna nera?", gli chiesi. La distinzione arrivò senza alcuna esitazione. "Non puoi scrivere solo 'una persona' perché sarebbe una mancanza di rispetto dal punto di vista sessuale". Aveva parlato di questo argomento a scuola e si dichiarò pronto a dimostrare quello che intendeva...».

Guinier si cimenta, quindi, nella costruzione di un parallelo con quello che potrebbe essere considerato un "insulto razziale", ad esempio nel caso in cui suo figlio stesse camminando e qualcuno gli urlasse 'negro' dall'altra parte della strada. «Mio figlio apparve molto colpito e angosciato. Quindi, quasi in un sussurro, mormorò: "Mamma, qualcuno potrà mai chiamarmi così?" Ero confusa. Non volevo ingannarlo, ma mi rattristava il pensiero di spaventarlo in così tenera età. Affermai restia: "Mi dispiace dirtelo, ma è possibile". Niko si mise a piagnucolare: "Mamma, mi hai appena fatto desiderare di essere bianco". "Perché?" gli domandai. "Perché se fossi bianco, nessuno potrebbe chiamarmi negro." Mio figlio era in grado di considerare quella della "donna" una vera e propria categoria, in parte a causa dell'educazione quacchera ricevuta nella scuola di Germantown, dove gli avevano insegnato a prendere sul serio le differenze sessuali, ma non quelle razziali (...). Aveva fatto sua la norma della cecità rispetto al colore (colorblind norm): la razza era in qualche modo un elemento diverso. I ruoli e le differenze in termini di genere avevano confini che dovevano essere rispettati e, come per tutti i tipi di confine, esistevano regole precise circa la possibilità di superare i limiti fissati. Al contrario di quella sessuale, l'identità o la differenza razziale non doveva teoricamente esistere e non necessitava quindi di alcuna definizione».

Guinier prosegue l'analisi prendendo in considerazione vari aspetti dell'ufficializzazione di una visione di "cecità rispetto al colore" (colorblind) all'interno della società statunitense, associata alla considerazione del colore della pelle come uno stigma (l'intera discussione è davvero molto interessante e merita di essere esaminata). Quindi ella giunge a un punto critico: «Tuttavia, in un certo senso, la mia risposta non era altro che un'immagine speculare della visione quacchera della cecità rispetto al colore. Stavo insegnando a mio figlio a considerare la razza uno stigma. Stavo contribuendo a far sì che si creasse una visione di se stesso che gli faceva desiderare di essere invisibile. Gli stavo trasmettendo la convinzione che il solo modo di considerare le differenze di razza era in senso negativo (...) Da un certo punto di vista, io stessa ero prigioniera di categorie. Stavo insegnando a Niko di rifiutare l'idea quacchera che la razza è solo un'illusione per sostituirla con un'altra illusione: quella secondo la quale la razza è concreta dal momento che può essere manipolata per stigmatizzare e opprimere. Avevo trascurato di sottolineare il fatto che la razza, e l'identità razziale, è sempre un fattore relazionale e non intrinseco (...)».

Infine, dopo un altro approfondimento (anche questo assai interessante) riguardo lo stato sociale delle categorie, Guinier racconta altre esperienze del figlio, che è passato a frequentare un'altra scuola in Massachusetts e segue lezioni in cui vengono affrontati direttamente i problemi della società contemporanea, come la razza e il razzismo. «Gli insegnanti incoraggiavano gli studenti di colore a riunirsi in gruppi separati per discutere delle loro emozioni senza doversi preoccupare del giudizio degli altri. A metà della seconda media, Niko mi annunciò che intendeva chiedere ai suoi compagni di classe di non definirlo più afroamericano. (...) "Chiamaci neri", disse a un compagno che aveva appena affermato: "A quanto pare, tutti gli afroamericani hanno i capelli scuri". "Ci vuole troppo a dire 'afroamericani'", spiegò Niko. "Si nota persino un'esitazione prima che venga pronunciata la parola." "Giusto" fece subito eco una ragazzina quando Niko smise di parlare. "Chiamaci neri." Quando Niko mi raccontò questa storia, provai un misto di timore reverenziale e incertezza. Ero fiera del fatto che avesse sostenuto la propria idea in un ambiente in prevalenza bianco (...), ma ero allo stesso tempo visibilmente confusa. "Ti ricordi", gli chiesi, "di quando in terza elementare mi hai chiesto di non usare la parola 'nera' in una frase in cui parlavo di una donna che voleva scattare una foto con me?" "No, mamma. Non mi ricordo." (...) Ma poi si fece improvvisamente silenzioso e disse, con un velo di tristezza nella voce, "Mi vergogno di me stesso." "Perché?" gli domandai (...) "Beh, non ricordo che tu mi abbia parlato della possibilità che qualcuno mi chiamasse 'negro', ma non ho dimenticato che quando ero in terza elementare volevo essere bianco come gli altri bambini della mia classe. Ricordo che desideravo (...) i vantaggi dell'essere bianco. (...) Volevo semplicemente non attirare l'attenzione su di me perché pensavo che tutti si sarebbero accorti che ero diverso." Quindi qual era l'approccio più giusto? "Chiamami nero", affermò Nico con un sorriso sicuro sul viso. "Ora so chi sono, mamma. E non vorrei essere nessun altro"».

Questo breve Bildungsroman, raccontato con orgoglio dalla stessa "Mamma", che in esso ha trovato anche una sorta di risarcimento per le ferite inflittele (è stata rifiutata dal presidente Clinton che in un primo momento ha "simbolicamente" nominato Procuratore capo per i diritti civili una donna nera e ha poi cambiato idea in seguito alle critiche ricevute), è senza dubbio vero. Forse è anche troppo bello. In ogni caso, mette in evidenza alcuni dei più significativi aspetti che rendono il "nominare la razza" in prima, seconda o terza persona una situazione performativa 'a doppio legame'.

Si tratta del tipo di problemi che Judith Butler affronta nel suo libro Excitable speech, dove vengono prese in considerazione questioni legate alla razza, con particolare riferimento al "discorso ostile" contro gli omosessuali, alle conversazioni e agli atteggiamenti "sessisti" e alle possibili conseguenze legali (alcuni teorici e attivisti, sulla scia delle argomentazioni di Catherine McKinnon, chiedono che gli insulti omofobici e i proclami sessisti atti a strumentalizzare l'immagine delle donne come oggetti di desiderio, "espressioni pornografiche", ecc. diventino crimini punibili dalla legge, sulla base del fatto che si tratta di reali forme di violenza ["minacce"] che possono causare danni morali e fisici). Anche se da un lato si fa paladina dei diritti delle donne, degli omosessuali e delle persone di colore (e del loro bisogno di sentirsi completamente al riparo da minacce e insulti) e sostiene le loro lotte contro qualsiasi tipo di discriminazione, Butler si oppone a questa conclusione, che, a suo dire, non tiene conto della struttura del linguaggio e della natura conflittuale dei suoi effetti performativi (ed è quindi inadeguata al fine della formulazione di soluzioni politiche efficaci). Vorrei riportare alcuni passaggi della sua ormai nota argomentazione (2).

«Gli argomenti a favore di una contro-appropriazione o riformulazione del discorso offensivo sono evidentemente suffragati dalla constatazione che l'effetto offensivo dell'atto discorsivo è necessariamente legato all'atto discorsivo stesso, al suo contesto di origine o permanenza o, per meglio dire, alle intenzioni che lo animano o alle modalità di utilizzo», scrive Butler facendo riferimento a una ragione addotta dai marxisti e dalle femministe per spiegare il motivo per cui le «parole feriscono». «La rivalutazione di termini quali 'checca' suggerisce», prosegue Butler, che il discorso può essere 'rispedito' al mittente sotto un'altra forma, che è possibile citarlo per contrastarne lo scopo originario e generare un capovolgimento dei suoi effetti. Più in generale, questa idea suggerisce che il potere variabile di questi termini segnala una tipologia di performatività discorsiva che non è costituita da una serie di atti discorsivi distinti, ma piuttosto da una catena rituale di risignificazioni la cui origine e il cui fine rimangono indefiniti e indefinibili...».

Più avanti nel testo, l'autrice si chiede se può esistere un tipo di enunciazione in grado di «interrompere» una struttura di dominio (di cui il discorso è una componente integrante) e non semplicemente di «riprodurla» o «rafforzarla». A questo punto, prende in esame la possibilità che le strutture «subiscano una destrutturazione a forza di essere reiterate, ripetute e riarticolate». «Vorrei provare per un momento a mettere in dubbio l'assunto che il discorso ostile sia sempre efficace, non per minimizzare la sofferenza che provoca (...) ma per lasciare aperta la possibilità che un suo eventuale fallimento sia la condizione per una risposta critica. (...) L'atto discorsivo del discorso ostile potrebbe essere considerato meno efficace, più incline all'innovazione e al sovvertimento, se prendessimo in considerazione la validità temporale della "struttura" che viene enunciata? Se per la sua perpetuazione tale struttura dipende dall'enunciazione, allora è proprio dall'enunciazione che si deve partire per considerare la questione della sua continuità» Infine, dopo aver illustrato la teoria dell'«interpellanza degli individui in quanto soggetti», esemplificata da Althusser con la scena allegorica del poliziotto che chiama un passante che, «riconoscendo se stesso», si volta per rispondere e interiorizza una qualche forma di 'colpa' associata a sottomissione sociale, Butler prende in esame la possibilità intrinseca nella situazione che il soggetto «resista» alla vittimizzazione dichiarando il suo nome per appropriarsi di un'altra identità rispetto a quella associata con la colpa (o stigma). «Per mettere in evidenza i punti di contatto tra le teorie di Austin e Althusser, sarebbe necessario dar conto della modalità con cui il soggetto costituito attraverso il richiamo dell'Altro diviene un soggetto in grado di richiamare altri (...) Il discorso ostile svela una vulnerabilità fondamentale del linguaggio, legata al fatto che dobbiamo essere interpellati in quanto esseri viventi e siamo dipendenti dal richiamo dell'Altro per constatare la nostra esistenza. (...) Non è possibile proteggerci da questa vulnerabilità fondamentale e dalla reattività al richiamo che ci consente di riconoscerci e ci dimostra la nostra esistenza (...) Di conseguenza, talvolta ci leghiamo ai termini che ci feriscono perché ci consentono se non altro di esperire una qualche forma di esistenza sociale e discorsiva. Il richiamo che genera la possibilità di azione preclude in un colpo solo la possibilità di un'autonomia radicale (...) È quindi impossibile controllare completamente l'effetto potenzialmente offensivo del linguaggio senza distruggere elementi fondamentali (...) della costituzione del soggetto attraverso il linguaggio. D'altra parte, nel momento in cui ci rendiamo conto che la nostra dipendenza dalla modalità con cui veniamo interpellati è un fattore inevitabile per esercitare un qualsiasi tipo di azione, una valutazione critica delle tipologie di linguaggio che determinano la regolazione e la costituzione dei soggetti diventa imprescindibile». Butler descrive una «struttura ambivalente in seno alla performatività» e associa strettamente le possibilità storiche dell'azione politica delle vittime di abusi razziali e sessuali indipendentemente dalla protezione di una struttura statale paternalistico, con l'allargamento del dominio della «sopravvivenza linguistica», dove diventa possibile «esprimere l'indicibile» associato a un trauma collettivo nella vita pubblica.

(traduzione a cura di Thomas Casadei)


Note

*. Lo scritto qui riportato è parte del saggio 'Performative reversals of the name race and the dilemma of the victims' (paper presentato al Convegno su «con/vergences. Critical interventions in the politics of race and gender», Center for Race and Gender, University of California, Berkeley, February 5-7, 2004). Si ringrazia Étienne Balibar per averne autorizzato la traduzione italiana. Un ringraziamento particolare a Sara Morgagni e Gianmaria Zamagni per alcune delucidazioni relative a un paio di passaggi in cui l'autore fa uso di categorie tratte dalla linguistica [Ndt].

**. Université de Paris X Nanterre - University of California, Irvine

1. Lani Guinier e Gerald Torres: The Miner's Canary. Enlisting Race, Resisting Power, Transforming Democracy, Harvard, Harvard University Press, 2002, pp. 1-6.

2. Judith Butler, Excitable speech. A politics of the Performative, Routledge 1997, pp. 14-41.