2008

Relativismo etico, antidogmatismo e tolleranza

Enrico Diciotti (*)

Da qualche anno tengo un corso sui diritti umani nel quale dedico qualche lezione al contrasto tra due posizioni genericamente etichettabili l'una come universalista e l'altra come relativista: cioè tra la posizione di chi ritiene che a tutti spettino determinati diritti e che quindi questi debbano essere dovunque tutelati e la posizione di chi, rilevando che l'idea dei diritti umani appartiene ad una cultura particolare, affermatasi in occidente a partire dal XVII secolo, sostiene che pretendere la validità universale di questi diritti equivale ad adottare una posizione dogmatica sul piano teorico e imperialista su quello pratico. Dopo una prima approssimativa caratterizzazione delle due posizioni, domando agli studenti in quale si riconoscano e ogni volta quasi tutti si dichiarano relativisti. Il loro relativismo si sostanzia essenzialmente nelle seguenti idee: ogni cultura ha la propria morale e noi non abbiamo il diritto di imporre la nostra alle altre culture, così come esse non hanno il diritto di imporre a noi la loro; e un corollario di queste idee che talvolta emerge nella discussione è che, date le profonde differenze tra le diverse culture, sarebbe bene che ognuno restasse dentro la propria, cioè nel proprio paese, invece di migrare e portare scompiglio nel corpo di culture cui è estraneo.

Lo schieramento relativista si dissolve però rapidamente. Infatti, è sufficiente chiarire meglio la concezione o le concezioni del relativismo etico, le ragioni che possono essere addotte a loro sostegno ma anche le difficoltà che comportano e alcune loro sgradevoli implicazioni, per ottenere una grande quantità di conversioni. Al termine delle lezioni dedicate al relativismo solo un'esigua minoranza, e talvolta nessuno, continua a dichiararsi relativista.

Da ciò traggo qualche motivo per rafforzare una mia convinzione: la diffusione del relativismo etico nelle società occidentali è in un certo senso apparente, in quanto dipende principalmente da equivoci verbali e da una certa mancanza di chiarezza sul contenuto, sulle giustificazioni e sulle implicazioni delle diverse tesi che possono essere etichettate come relativiste. Basta fare un po' di chiarezza e il relativismo etico cessa di apparire ragionevole, tranne che in alcuni dei suoi possibili sensi, innocui dal punto di vista politico e più in generale pratico.

Fin qui per quanto riguarda l'adesione al relativismo di studenti di giurisprudenza senesi e di altre persone mediamente informate sul mondo e mediamente disposte a riflettere sulle proprie posizioni etiche. Credo però che anche nel mondo degli intellettuali, di coloro che esprimono le proprie opinioni in libri e giornali, la diffusione del relativismo etico presenti caratteri analoghi. Mi sembra infatti che anche molti autorevoli pensatori, nel dichiararsi relativisti o nel proporre idee relativiste, facciano una di queste cose: o usino la parola 'relativismo' per indicare cose che sarebbe opportuno indicare con altre parole, oppure evitino di pensare il loro relativismo fino in fondo, cioè di considerarne tutte le conseguenze.

Dal mio punto di vista, Per la verità di Diego Marconi è dunque non solo un ottimo libro per il rigore dell'analisi e la chiarezza dell'esposizione, ma anche un libro necessario, almeno nel nostro paese, per dissolvere il pervasivo fantasma del relativismo. Del suo contenuto condivido quasi tutto, sia per quanto riguarda il relativismo teorico sia per quanto riguarda il relativismo etico. In esso c'è forse qualche tesi e qualche passaggio argomentativo su cui potrei trovarmi in disaccordo, ma se volessi avanzare obiezioni finirei con l'occuparmi di aspetti che, nell'impianto complessivo del discorso di Marconi, apparirebbero marginali.

Non avanzerò dunque obiezioni e cercherò invece di articolare un breve discorso sul relativismo etico in parte parallelo a quello condotto da Marconi, non con la pretesa di chiarire meglio di lui le questioni di cui tratta nel suo libro, ma per proporre (pur senza poterla debitamente approfondire) una distinzione che egli trascura (sebbene ricorra con una certa frequenza nella letteratura filosofica sul relativismo) fra tre diverse posizioni relativiste, che vanno sotto il nome di relativismo etico descrittivo, relativismo metaetico e relativismo etico normativo (1). Mi sembra infatti che questa distinzione sia di grande utilità quando si vogliano perseguire gli stessi obiettivi di Marconi: portare un po' di chiarezza in una discussione spesso confusa e in questo modo fare emergere le debolezze del pensiero relativista.

1. Il relativismo etico descrittivo

La tesi del relativismo etico descrittivo è che gli individui, e in particolare gli individui appartenenti a culture diverse, hanno opinioni morali spesso discordanti, tali per cui uno è convinto che X sia buono e un altro che X sia cattivo, uno ritiene che nelle circostanze C si debba fare Y e un altro ritiene invece che nelle circostanze C non si debba fare Y. Questa è una tesi di etica descrittiva, cioè una tesi avanzata allo scopo di riferire ciò che avviene nel mondo dei fatti, e può dunque essere considerata vera o falsa a seconda che i fatti stiano o non stiano nel modo in cui essa li rappresenta.

Per la precisione bisogna dire che questa tesi può in effetti essere proposta in più di una versione. Nella versione più semplice essa è riducibile all'asserzione che individui diversi esprimono (spesso o talvolta) giudizi morali contrastanti, ed appare dunque come un'ovvietà, perché è innegabile che individui diversi esprimano (spesso o talvolta) opinioni morali contrastanti. In altre versioni, invece, appare meno pacifica.

Ad esempio, questa tesi appare meno pacifica nella versione in cui dice che la diversità delle opinioni morali espresse dagli individui è determinata, almeno in alcuni casi, dalla diversità dei valori o dei principi da cui tali opinioni dipendono e in base ai quali potrebbero essere giustificate (2). A questa versione del relativismo etico descrittivo si contrappone infatti la posizione universalista secondo cui tutti gli individui, o meglio tutte le culture, condividono gli stessi valori o principi morali fondamentali, cioè quelli che possono essere richiamati in ultima istanza per la giustificazione dei giudizi morali, e pertanto le divergenze tra i giudizi morali che vengono avanzati dai diversi individui dipendono unicamente da disaccordi sui fatti rilevanti per la formazione e la giustificazione di tali giudizi. Si deve peraltro notare che l'universalismo etico descrittivo non è necessariamente una concezione ottimistica, secondo cui la diffusione e la crescita delle conoscenze scientifiche, producendo accordi sui fatti, è in grado di ridurre progressivamente lo spazio dei conflitti morali. Infatti, il sostenitore dell'universalismo etico descrittivo potrebbe anche ammettere che i disaccordi sui fatti che determinano la diversità delle opinioni morali non possano essere tutti risolti dalla crescita delle conoscenze empiriche, poiché alcuni di questi riguardano l'esistenza di divinità e il contenuto dei loro comandi.

2. Il relativismo metaetico

Dal relativismo etico descrittivo deve essere distinto il cosiddetto relativismo metaetico, cioè la posizione secondo cui la correttezza, validità o verità dei giudizi morali dipende da criteri che possono essere diversi per individui diversi, ovvero per individui che appartengono a culture diverse. Secondo questa posizione, la correttezza, validità o verità dei giudizi morali è non oggettiva o assoluta, ma relativa a un contesto o a un insieme di criteri o coordinate; vi è una pluralità di contesti possibili; non vi sono criteri indipendenti da questi contesti per mostrare la superiorità di uno di questi contesti sugli altri.

Il relativismo metaetico comprende una varietà di posizioni, e qui sarà opportuno precisare che possono essere considerate relativiste teorie metaetiche di diverso tipo: da un lato teorie metaetiche naturaliste, ed oggettiviste per quanto riguarda la verità dei giudizi etici, dall'altro lato teorie metaetiche non naturaliste e non oggettiviste (3). Le teorie metaetiche naturaliste possono essere considerate relativiste se attribuiscono ai termini etici fondamentali un significato tale per cui giudizi come «È bene fare X» o «È giusto fare X» risultano veri o falsi in relazione a chi li proferisce o li valuta in vista di una possibile accettazione. A questo riguardo, un esempio è costituito dalla teoria secondo cui 'buono' ha un significato tale per cui dire che un'azione X è buona equivale a dire che X è un'azione che non ci piace; un altro esempio è costituito dalla teoria secondo cui 'giusto' ha un significato tale per cui dire che un'azione X è giusta equivale a dire che X è conforme alle consuetudini seguite dal gruppo al quale si appartiene. Una teoria metaetica non naturalista è invece relativista se assume che siano variabili le ragioni ultime, cioè i valori o principi fondamentali, utilizzabili da individui o gruppi diversi per giustificare i propri giudizi morali, e che dunque che siano variabili, da individuo a individuo o da gruppo a gruppo, i criteri di correttezza, validità o verità di questi giudizi.

La diversità tra queste teorie è evidente. Secondo le teorie relativiste naturaliste i giudizi morali sono "oggettivamente" veri o falsi e tuttavia è possibile che individui diversi esprimano giudizi morali veri e divergenti: ad esempio, secondo la teoria per cui dire che un'azione è buona equivale a dire che quell'azione ci piace, è possibile che l'affermazione di Tizio che l'azione X è buona e l'affermazione di Caio che l'azione X non è buona, pur essendo in un certo senso divergenti, siano entrambe "oggettivamente" vere, perché è possibile che effettivamente a Tizio piaccia X ed a Caio non piaccia X. Secondo una teoria relativista non naturalista, invece, la verità dei giudizi morali è non "oggettiva", ma relativa agli insiemi di valori o principi fondamentali in base ai quali i diversi individui giustificano (o giustificherebbero, nel caso in cui fosse loro richiesto) i loro giudizi morali: ad esempio, il giudizio secondo cui l'azione X è buona può essere al tempo stesso vero in relazione all'insieme di valori o principi fondamentali di Tizio e falso in relazione all'insieme di valori o principi fondamentali di Caio.

Le teorie relativiste naturaliste vanno incontro alle consuete obiezioni che possono essere rivolte alle metaetiche naturaliste. A queste teorie si può ad esempio obiettare che appare perfettamente sensato dire «Faccio X non perché mi piace, ma perché è bene agire così», oppure «So che fare X è contrario alle consuetudini della mia comunità, ma farò X perché è giusto agire così» (4); e che, in definitiva, ogni definizione naturalista dei termini etici fondamentali è resa problematica dalla possibilità di negare sensatamente che una qualche azione, pur soddisfacendo le condizioni stabilite dalla definizione, sia buona, giusta o doverosa (5). Per le difficoltà in cui incorrono e per il fatto di non essere oggi molto diffuse, non terrò conto di queste teorie nella discussione che segue.

Più diffuse appaiono le teorie relativiste non naturaliste, delle quali bisogna rilevare la prossimità alle teorie metaetiche scettiche, cioè alle teorie secondo cui i giudizi morali non sono veri né falsi, perché non si riferiscono a fatti e costituiscono semplicemente l'espressione di emozioni o sentimenti individuali. Infatti, l'idea secondo cui i giudizi morali non sono veri né falsi non è troppo diversa dall'idea secondo cui ogni giudizio morale può essere al tempo stesso vero e falso, perché giustificabile sulla base dei valori o principi fondamentali adottati da alcuni individui e non giustificabile sulla base dei valori o principi fondamentali adottati da altri individui.

Si deve comunque notare che il relativismo metaetico sembra talvolta presentarsi, nelle pagine dei suoi sostenitori, anche in una versione che lo rende abbastanza ben distinguibile dallo scetticismo metaetico. La versione in cui non è ben distinguibile dallo scetticismo metaetico è quella per così dire individualista, secondo cui i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli adottati dai singoli individui che esprimono tali giudizi: non sembrano infatti esservi grandi differenze tra l'idea che i giudizi morali non siano veri o falsi e l'idea che la verità dei giudizi morali dipenda da criteri puramente soggettivi. La versione che sembra meglio distinguibile dallo scetticismo metaetico è quella per così dire culturalista, secondo cui i principi o valori fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli propri delle culture alle quali appartengono gli individui che esprimono tali giudizi: questa versione fa infatti dipendere la verità dei giudizi morali da criteri non puramente soggettivi, ma intersoggettivi e pubblici (sebbene contingenti e non universali).

Il problema è però che questa seconda forma di relativismo o è, al di là delle apparenze, riducibile alla prima oppure è difficilmente sostenibile, e per più di una ragione. La versione culturalista è infatti riducibile alla versione individualista se alla tesi di quest'ultima, cioè alla tesi secondo cui i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli adottati dai singoli individui che esprimono tali giudizi, si limita ad aggiungere l'asserzione (vera o falsa a seconda che corrisponda o non corrisponda ai fatti) che individui appartenenti alla stessa cultura condividono in genere gli stessi valori o principi fondamentali. La versione culturalista si distacca invece dalla versione individualista, e risulta effettivamente ben distinguibile dallo scetticismo metaetico, se assume che le culture abbiano una sorta di autorità per quanto concerne i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali, cosicché il giudizio morale di Tizio deve essere considerato vero o falso a seconda che soddisfi o non soddisfi i criteri propri della cultura cui Tizio appartiene e non quelli, eventualmente diversi, che Tizio potrebbe eventualmente adottare. I problemi che comporta questa versione sono però evidenti. Anzitutto non è chiaro se e come sia possibile tracciare precise linee di confine tra le diverse culture, in modo da includere nell'una o nell'altra cultura ogni individuo che esprima giudizi morali. Inoltre non è chiaro se e come sia possibile individuare con sufficiente precisione i valori o i principi morali fondamentali propri di una cultura, visto che in molte culture (comunque queste siano delimitate) sembrano convivere individui provvisti di opinioni morali profondamente diverse. Infine, non è chiaro come sia possibile conferire il valore di criteri di verità ai valori o principi morali propri delle culture e non a quelli adottati dai singoli individui, dato che la questione della verità dei nostri giudizi non sembra concepibile come una questione risolvibile in base a principi di autorità o a regole di maggioranza.

Bisogna dunque concludere che il relativismo metaetico, nella sua variante più persuasiva, è sostanzialmente affine allo scetticismo metaetico. A suo sostegno, così come a sostegno dello scetticismo metaetico, possono essere addotte varie ragioni, e prima tra tutte l'assenza di un mondo di fatti morali che consenta di verificare i giudizi morali nel modo in cui il mondo fisico consente di verificare le asserzioni relative sui fatti. Varie sono però anche le ragioni per cui può essere considerato insoddisfacente: ma su questo punto mi limito a rinviare alle considerazioni di Marconi (6).

3. Il relativismo etico normativo

Il relativismo etico normativo consiste in una dottrina morale, o meglio in una famiglia di dottrine morali. Adottare la posizione del relativismo etico normativo significa dunque avere determinate convinzioni o credenze morali, condividere determinati giudizi riguardo al modo in cui è bene, giusto o doveroso agire.

Del relativismo etico normativo bisogna anzitutto distinguere una possibile variante che fa riferimento agli individui e un'altra che fa riferimento a gruppi. Secondo la prima, ognuno deve agire (o è bene o giusto che agisca) in conformità con le proprie idee di come si deve (o è bene o giusto) agire. Secondo l'altra variante, ognuno deve agire (o è bene o giusto che agisca) in conformità con le idee di come si deve (o è bene o giusto) agire condivise all'interno del proprio gruppo, comunità o cultura, ovvero seguendo le regole ivi accettate e osservate (7). Poiché la variante che fa riferimento a gruppi appare più diffusa, qui non terrò conto di quella che fa riferimento a individui.

Della variante che fa riferimento a gruppi sono possibili una pluralità di versioni. In primo luogo, infatti, possono essere caratterizzati diversamente i gruppi alle cui opinioni morali o norme l'individuo deve adeguarsi: questi gruppi possono ad esempio essere identificati con comunità statali oppure con gruppi culturali. E vale la pena di osservare che, se questi gruppi sono identificati con comunità statali, il relativismo normativo finisce col coincidere con il cosiddetto giuspositivismo etico, cioè con la concezione secondo cui in ogni circostanza è giusto o doveroso osservare le norme dall'ordinamento giuridico cui si è soggetti, quale che sia il loro contenuto (8).

In secondo luogo, bisogna rilevare che il relativismo normativo può presentarsi in una versione elementare (e meno diffusa) e in una versione più complessa, rispettosa dei confini tra comunità o culture. La versione elementare è quella secondo cui gli individui devono agire osservando le norme vigenti nel territorio della comunità o nel gruppo che li accoglie. La versione più complessa è quella secondo cui gli individui devono agire osservando le norme vigenti nel territorio della comunità o nel gruppo che li accoglie solo entro i confini di questo territorio o all'interno di questo gruppo, cioè senza interferire con l'azione di altri individui che in altri territori o all'interno di altri gruppi seguano le norme ivi vigenti. La differenza tra le due versioni è evidente: la prima, diversamente dalla seconda, conferisce validità ad ogni norma vigente in ogni comunità di un certo tipo. Infatti, se nella comunità C vige la norma N secondo cui ci si deve impossessare delle teste degli individui appartenenti ad altre comunità, la prima variante dice che N deve essere osservata da tutti gli appartenenti alla comunità C; la seconda variante dice invece che N non deve essere osservata dagli appartenenti alla comunità C (tranne nel caso, assai improbabile, in cui in altre comunità sia vigente la norma secondo cui ci si deve far tagliare la testa dai membri di C).

Al relativismo etico normativo si contrappone l'universalismo etico normativo. Riguardo a questa contrapposizione, bisogna però chiarire due aspetti: il primo è che anche il relativismo metaetico è in un certo senso una dottrina universalista; il secondo è che anche l'universalismo normativo può imporre obblighi o conferire diritti non a tutti gli individui, ma solo ad alcuni che siano provvisti di determinati caratteri o che si trovino in determinate situazioni.

Il relativismo etico normativo è, in un certo senso, una dottrina universalista, in quanto necessariamente assume che sia valida una norma universale: nella variante elementare, assume che sia valida la norma universale secondo cui tutti gli individui devono osservare le norme vigenti nella propria comunità o nel proprio gruppo; nella variante rispettosa dei confini tra culture o comunità, assume invece che sia valida la norma universale secondo cui ognuno deve osservare le norme vigenti nella propria comunità o nel proprio gruppo unicamente entro il territorio di questa comunità o nei rapporti con i membri di questo gruppo.

L'universalismo normativo non necessariamente impone obblighi o conferisce diritti a tutti gli esseri umani, perché le norme universali che assume come valide non necessariamente impongono obblighi e/o conferiscono diritti incondizionatamente a tutti gli individui: la maggior parte delle dottrine universaliste assumono infatti che siano valide anche norme universali che impongono obblighi e conferiscono diritti (non a tutti incondizionatamente, ma) a tutti a coloro che presentano determinate proprietà, ossia a questi soltanto. Da un lato, è possibile che una dottrina universalista assuma che siano valide norme che impongono obblighi o conferiscono diritti a tutti coloro che hanno generato un figlio, cioè ai soli genitori, o a tutti coloro che siano di sesso femminile, cioè alle sole donne, o a tutti coloro che svolgano un certo lavoro, cioè ad esempio ai soli giornalisti o ai soli avvocati, ecc. E dunque è anche possibile che una dottrina universalista imponga un obbligo solo a coloro che si trovano in società provviste di determinati caratteri, nell'ambito di culture provviste di determinati mezzi tecnici e non di altri, entro comunità stanziate in territori provvisti di determinati beni e non di altri, ecc. Dall'altro lato, è possibile che una dottrina universalista fornisca un fondamento ad alcune forme di potere, ad esempio al potere democratico, e quindi conferisca validità anche alle norme prodotte da queste forme di potere. Tradizionalmente, alcune dottrine di questo genere hanno sostenuto che gli esseri umani devono seguire le norme giuridiche vigenti nel territorio in cui vivono, ma solo fin quando tali norme non siano contrastanti, o non siano eccessivamente contrastanti, con determinati principi morali fondamentali (9). È peraltro evidente che una dottrina morale universalista non può sostenere, dovendo distinguersi dal relativismo, che debbano essere seguite, a prescindere dal loro contenuto, tutte le norme prodotte da qualsiasi forma di potere si sia imposta in un territorio o entro un gruppo culturale.

4. Il bello del relativismo?

Chi si dichiara relativista sembra spesso convinto del fatto che la diffusione di idee relativiste abbia conseguenze apprezzabili sull'azione e sugli atteggiamenti degli individui. Credo che la distinzione dei tre tipi di relativismo etico sia utile per mostrare che questa convinzione dipende probabilmente da equivoci.

È possibile che la tesi del relativismo etico descrittivo, in qualcuna delle sue possibili versioni, sia vera: ad esempio, è possibile che davvero individui diversi adottino valori morali differenti e che dunque i conflitti morali non dipendano solo da disaccordi su determinati fatti rilevanti. Se questa tesi è vera, allora indubbiamente si pongono per la nostra azione problemi diversi da quelli che si porrebbero se la tesi fosse falsa. Però è altrettanto indubbio che da ciò non segue nulla per quanto concerne il modo in cui dobbiamo agire.

Alcuni ritengono che il relativismo metaetico e lo scetticismo metaetico siano posizioni da preferire a quella dell'oggettivismo metaetico. Come ho già detto, una discussione a questo riguardo non è qui possibile; ciò che conta è comunque che neppure da queste posizioni discende una qualche indicazione per la nostra azione. Il relativismo metaetico e lo scetticismo metaetico forniscono infatti una risposta non alla domanda di come si deve agire, ma alla domanda se e in che senso i giudizi morali possano essere considerati veri o falsi.

Evidentemente, il solo tipo di relativismo in grado di orientare la nostra azione è il relativismo etico normativo, cioè una particolare dottrina morale. Ma questa dottrina morale può ritenersi fondata o in qualche modo attraente? Non solo è possibile dubitarne; è anche ragionevole credere che in effetti non siano molti, anche tra coloro che si dichiarano relativisti, quelli che davvero sarebbero disposti ad accettare il relativismo etico normativo in tutte le sue implicazioni.

Abbastanza frequentemente i sostenitori del relativismo sembrano ritenere che il relativismo etico normativo sia una conseguenza necessaria del relativismo etico descrittivo e/o del relativismo metaetico. Sembra cioè che essi ragionino più o meno così: individui diversi, o culture o popoli diversi, hanno credenze morali irriducibilmente diverse; dunque, si deve ritenere che i giudizi morali non siano oggettivamente veri o falsi, ma siano veri o falsi solo in relazione a un insieme di credenze morali fondamentali adottato da un individuo o da una cultura o da un popolo ecc. (oppure, si deve dunque ritenere che i giudizi morali non siano veri né falsi); dunque, ognuno deve seguire le regole della propria cultura o comunità senza interferire nelle attività delle altre culture o comunità. Questo ragionamento è però sbagliato. Dall'osservazione che gli individui hanno opinioni morali contrastanti non segue infatti che i giudizi morali non siano oggettivamente veri o falsi, così come dall'osservazione che gli individui hanno credenze diverse sull'origine dell'universo o sulle cause di alcune malattie non segue che le asserzioni degli astronomi o dei biologi non siano oggettivamente vere o false. E neppure si può asserire che la prescrizione secondo cui gli individui devono osservare le regole della propria cultura o comunità discenda dall'osservazione che gli individui di culture o comunità diverse hanno opinioni morali contrastanti o dall'assunzione secondo cui i giudizi morali non sono oggettivamente veri o falsi. Vi è certamente un legame tra il relativismo etico normativo ed il relativismo etico descrittivo, ma solo in quanto il primo presuppone una qualche forma del secondo, dato che la prescrizione secondo cui ognuno deve osservare le regole della propria cultura o comunità non sarebbe sensata se non vi fossero culture o comunità distinte provviste di regole diverse. Nessuna relazione necessaria può invece essere individuata tra il relativismo etico normativo e le concezioni metaetiche del relativismo e dello scetticismo: si potrebbe semmai sostenere che uno scettico coerente, se davvero ritiene che i giudizi morali costituiscano solo l'espressione di emozioni e sentimenti, dovrebbe esprimere i propri sentimenti ed emozioni senza mascherarli dietro il linguaggio della morale, cioè rinunciare ad avanzare giudizi morali e a dare il proprio sostegno a dottrine morali, siano queste universaliste o relativiste.

Le attrattive del relativismo etico normativo appaiono abbastanza diverse a seconda che prendiamo in considerazione la variante elementare di questa dottrina o la variante complessa, rispettosa dei confini tra comunità o culture. La variante elementare, infatti, nega tutto ciò che siamo soliti ritenere provvisto di valore morale, in quanto conferisce valore a tutto ciò che in ogni possibile cultura o comunità potrebbe essere considerato provvisto di valore: all'imperialismo e al bellicismo così come al pacifismo, all'intolleranza così come alla tolleranza, e poi alla diseguaglianza, allo sfruttamento, al razzismo, ecc. La variante complessa, invece, accoglie almeno uno dei nostri valori: una certa forma di tolleranza, consistente nella non interferenza, tra le diverse culture o comunità.

Ma, tutto considerato, anche la variante complessa può difficilmente essere considerata attraente. Essa consente la convivenza pacifica tra le diverse culture o comunità, ma a ciò sacrifica ogni altra cosa. Anch'essa infatti legittima ogni forma di intolleranza, diseguaglianza, sfruttamento e razzismo, purché permanga all'interno della cultura o comunità che la accoglie (10). Inoltre, essa delegittima ogni tentativo di mutare le regole delle diverse culture, a meno che questi tentativi non siano consentiti da queste stesse regole: cioè condanna ogni aspirazione ad una diversa società che sia condannata dalla società stessa in cui sorge e si manifesta. Come è stato sottolineato più volte, il relativismo etico normativo consiste in una dottrina morale conservatrice e conformista (11).

Inoltre, il relativismo etico normativo, quale che sia la variante presa in considerazione, o fa riferimento alle regole poste nell'ambito di comunità statali, e come ho già accennato coincide quindi con il giuspositivismo etico, o si basa su una concezione piuttosto dubbia delle culture. Infatti, nel prescrivere a ogni individuo di osservare le tradizioni o le regole della propria cultura, presuppone che sia possibile tracciare confini rigidi e precisi tra le diverse culture, come se queste fossero entità ben distinguibili e non fenomeni caratterizzati da fluidità e da compenetrazione. E sulla base di questo presupposto inevitabilmente assoggetta un gran numero di individui a culture o tradizioni in cui non si riconoscono.

5. Relativismo etico, antidogmatismo, tolleranza, pacifismo

Il relativismo viene talvolta considerato attraente in quanto viene confuso con l'antidogmatismo, cioè con l'atteggiamento di chi non erige le proprie convinzioni a dogmi inattaccabili dalla critica ed è pronto a rivederle alla luce delle convinzioni altrui, mostrandosi così disponibile al dialogo e attento alle ragioni degli altri. A questo riguardo si può rilevare da un lato che appare inopportuno chiamare relativismo l'antidogmatismo e dall'altro lato che l'antidogmatismo, così come il dogmatismo, non è implicato da alcuna delle tre posizioni del relativismo etico che prima ho distinto, né peraltro dalle posizioni che a queste si contrappongono. Chi adotta il relativismo etico descrittivo può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico, così come chi adotta l'universalismo etico descrittivo. Chi adotta il relativismo metaetico può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico allo stesso modo di chi adotta l'oggettivismo metaetico. Infine, anche chi adotta il relativismo etico normativo, cioè chi adotta una dottrina morale relativista, può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico, cioè pronto a mutare la propria dottrina morale, non diversamente da chi adotta una dottrina morale universalista.

Qualcuno sembra però credere che le convinzioni morali degli altri siano più facilmente apprezzabili da chi ritiene che non vi siano verità assolute in etica, e che dunque il relativismo metaetico, anche se non implica l'antidogmatismo, favorisca comunque atteggiamenti antidogmatici meglio dell'oggettivismo metaetico (12). Anche quest'idea, però, è ragionevolmente sbagliata e si può anzi sostenere che è l'oggettivismo, e non il relativismo metaetico, a rivelarsi più favorevole all'antidogmatismo. Per l'oggettivismo, infatti, la questione se un certo giudizio morale sia vero o falso non è una questione privata di colui che proferisce il giudizio, risolvibile guardando alla coerenza di questo con l'insieme delle credenze morali fondamentali del parlante, ma è una questione in un certo senso pubblica, perché un giudizio vero è un giudizio che deve essere accettato da tutti e che non può che imporsi a tutti per le ragioni che lo fondano. Chi adotti la posizione oggettivista sarà dunque spinto a prendere in considerazione i giudizi morali avanzati dagli altri e le ragioni con cui questi sono giustificati, per valutare se tali giudizi, date le ragioni che li sorreggono, siano migliori candidati alla verità dei propri. Per il relativismo, invece, la questione se un certo giudizio morale sia vero o falso è in un certo senso una questione privata di colui che proferisce il giudizio, poiché questo sarà probabilmente vero per il parlante, cioè sulla base delle credenze morali fondamentali che egli adotta (e presumibilmente falso sulla base di altre credenze morali fondamentali che altri adottano o potrebbero adottare). Chi adotti la posizione relativista, dunque, non ha particolari motivazioni a prendere in considerazione i giudizi morali avanzati dagli altri e le ragioni con cui questi sono giustificati: la questione se questi giudizi, date le ragioni che li sorreggono, siano candidati alla verità migliori dei propri giudizi difficilmente si pone là dove si ritiene che ogni individuo abbia le proprie verità. Ancor meno propenso a valutare i propri giudizi morali confrontandoli con quelli degli altri sarà poi chi adotta la posizione dello scetticismo metaetico: per chi è convinto che i giudizi morali esprimano solo sentimenti ed emozioni, ovvero gusti personali, non sembra infatti ragionevole intavolare una discussione al fine di individuare il giudizio morale migliore, cioè sorretto più solidamente da ragioni (come è noto, è inutile disputare intorno ai gusti) (13).

Un'altra attrattiva del relativismo viene talvolta individuata nella tolleranza, poiché ad alcuni sembra che il relativismo, in qualcuna delle sue forme, implichi la tolleranza. A questo riguardo abbiamo già visto che il relativismo etico normativo, in una sua versione, prescrive effettivamente una certa forma di tolleranza, in quanto prescrive ad ogni cultura di non interferire negli affari delle altre culture. Certamente, però, il relativismo normativo non prescrive, in nessuna delle sue forme, la tolleranza alla quale siamo soliti attribuire valore, cioè la non interferenza del potere in determinati ambiti dell'azione umana, come quelli della manifestazione del pensiero o della religione: esso conferisce infatti validità alle regole di ogni possibile cultura, a prescindere dalla questione se queste garantiscano o non garantiscano la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa o qualunque altra libertà.

Un'idea piuttosto diffusa è che il valore della tolleranza presupponga il relativismo metaetico o lo scetticismo metaetico, perché solo dalla convinzione che in etica vi siano molte verità o nessuna verità può seguire l'idea che non vi è alcuna ragione per imporre agli altri le nostre credenze morali o determinati comportamenti che ci appaiono giusti. Anche questo modo di pensare, però, è evidentemente sbagliato: relativismo metaetico e scetticismo metaetico non implicano alcun valore particolare, e dunque neppure il valore della tolleranza (14). Per contro, chi ritenga che il valore della tolleranza sia provvisto di un fondamento oggettivo, e dunque debba essere adottato da tutti, si porrà inevitabilmente nell'ambito dell'oggettivismo metaetico (15).

Alcuni sembrano infine ritenere che dal relativismo segua il pacifismo e dal suo opposto la legittimazione della guerra, almeno in alcune circostanze. In particolare vengono addossate responsabilità belliche alle dottrine morali universaliste che fanno proprio il valore della democrazia o l'idea dei diritti umani. Anche questa posizione, però, è evidentemente sbagliata. Da un lato è vero che il relativismo etico normativo assicura la pace tra le diverse culture (mentre ciò non è evidentemente assicurato né dal relativismo etico descrittivo né dal relativismo metaetico). Dall'altro lato, però, è falso che l'universalismo etico normativo legittimi necessariamente la guerra in qualche circostanza. Le dottrine morali universaliste possono infatti essere le più varie quanto al contenuto, e dunque possono essere le più varie anche le posizioni che da esse discendono riguardo alla legittimità della guerra nell'una o nell'altra circostanza.

Neppure si può sostenere che la guerra sia necessariamente legittimata da dottrine universaliste che facciano proprio il valore della democrazia o l'idea dei diritti umani. Se e in quali circostanze la guerra sia legittima dipende, ancora, dal contenuto complessivo di queste dottrine. È certamente probabile che dottrine di questo genere consentano azioni e interventi volti a favorire l'instaurazione di regimi democratici o a garantire la protezione dei diritti umani. Ma questi non saranno necessariamente interventi bellici: sono indubbiamente possibili dottrine universaliste che in ogni circostanza (o in quasi tutte le circostanze) consentano solo forme di intervento che sarebbero giudicate favorevolmente dalla maggior parte dei pacifisti.


Note

*. Professore di Teoria generale del diritto, Università di Siena.

1. Tra gli autori nei quali è presente questa distinzione, ricordo M. Barberis, Etica per giuristi, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 162-167; R.B. Brandt, Ethical Relativism, in The Encyclopedia of Philosophy, New York, The Macmillan Company and Free Press, 1967, vol. 3, pp. 75-78; T.L. Carson e P.K. Moser, Moral Relativism: Species, Rationales, and Problems, in T.L. Carson e P.K. Moser (a cura di), Moral Relativism. A Reader, New York-Oxford, Oxford University Press, 2002, pp. 1-21, alle pp. 1-4; W.K. Frankena, Ethics, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1973, trad. it. Etica, Milano, Edizioni di Comunità, 1981, pp. 208-209; N. Levy, Moral Relativism, Oxford, Oneworld, 2002, pp. 19-22; F.E. Oppenheim, Moral Principles in Political Philosophy, New York, Random House, 1968, trad. it. Etica e filosofia politica, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. 208-213.

2. Vedi R.B. Brandt, Ethical Relativism, cit., p. 75; T.L. Carson e P.K. Moser, Moral Relativism, cit., p. 1; N. Levy, Moral Relativism, cit., pp. 92-93; F.E. Oppenheim, Etica e filosofia politica, cit., p. 9.

3. R. Brandt, Ethical Relativism, cit., p. 75.

4. Cfr. C. Wellman, The Ethical Implications of Cultural Relativism, in "The Journal of Philosophy", 55, 1963, pp. 169-184, alle pp. 170-171.

5. Questa obiezione alle metaetiche naturaliste si fa risalire, come è noto, a G.E. Moore, Principia ethica, Cambridge, Cambridge University Press, 1903, trad. it. Milano, Bompiani, 1964, pp. 62-63.

6. D. Marconi, Per la verità, Torino, Einaudi, 2007, in particolare le pp. 109-112 e il cap. II.

7. R.B. Brandt, Ethical Relativism, cit., p. 76; T.L. Carson e P.K. Moser, Moral Relativism, cit., pp. 1-2.

8. Per la distinzione tra il positivismo etico (o positivismo giuridico come ideologia) ed altre forme di positivismo giuridico, vedi N. Bobbio, Il positivismo giuridico, nuova ed., Torino, Giappichelli, 1996, pp. 129-132; Id., Sul positivismo giuridico, in "Rivista di filosofia", 52, 1961, pp. 14-34, rist. col titolo Aspetti del positivismo giuridico, in N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, Edizioni di Comunità, 1964, pp. 101-126.

9. Questa è la tipica posizione del neogiusnaturalismo: vedi G. Radbruch, Gesetzliches Unrecht und übergesetzkiches Recht, in "Süddeutsche Juristen-Zeitung", 5, 1946, trad. it. Ingiustizia legale e diritto sovralegale, A.G. Conte et al. (a cura di), Filosofia del diritto, Milano, Cortina, 2002, pp. 152-163, alla p. 158; R. Alexy, Begriff und Geltung des Rechts, Freiburg im Breisgau-München, Karl Alber, 1992, trad. it. Concetto e validità del diritto, Torino, Einaudi, 1997, pp. 47-48.

10. Su questo aspetto vedi anche D. Marconi, Per la verità, cit., p. 130.

11. Vedi, tra gli altri, D. Marconi, Per la verità, cit., pp. 132-135.

12. Tra i molti autori contemporanei secondo cui il relativismo, per il suo antidogmatismo, favorisce il dialogo tra culture morali diverse, ricordo M. Aime, Gli specchi di Gulliver, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 21-26; F. Cassano, Per un relativismo ben temperato, in S. Latouche (a cura di), Il ritorno dell'etnocentrismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 94-106; G. Giorello, Di nessuna chiesa, Milano, Cortina, 2005, pp. 11-21.

13. Cfr. D. Marconi, Per la verità, cit., pp. 102-105.

14. Cfr. D. Brink, Moral Realism and the Foundations of Ethics, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 93-94; T.L. Carson e P.K. Moser, Moral Relativism, cit., pp. 4-5; G. Graham, Tolerance, Pluralism, and Relativism, in D. Heyd (a cura di), Toleration: An Elusive Virtue, Princeton, Princeton University Press, 1996, pp. 44-59; G. Harrison, Relativism and Tolerance, in "Ethics", 86, 1976, pp. 122-135; N. Levy, Moral Relativism, cit., pp. 56-62. D. Wong, Moral Relativity, Berkeley, University of California Press, 1984, pp. 180-189, chiarisce l'implicazione mostrando come la tolleranza discenda in effetti dal relativismo metaetico congiuntamente alla premessa normativa secondo cui noi non dobbiamo imporre qualcosa agli altri se non siamo in grado di mostrare loro che ciò è giustificato.

15. D. Marconi, Per la verità, cit., pp. 129-130.