2015

Clima e diritti dei minori

Raffaele K. Salinari   
(Presidente di «Terre des Hommes»)



Nell’ambito di una riflessione sui Diritti dei Minori, Terre des Hommes vuole attirare l’attenzione su di una relazione inusuale ma che a nostro parere segnerà nel prossimo futuro un orizzonte innovativo di concepire la definizione stessa di “Diritto dei minori”.

Per la nostra Ong, nata oramai cinquanta anni or sono durante la guerra civile in Algeria, per difendere i diritti degli orfani di quella guerra di liberazione da giogo coloniale, i cambiamenti climatici rappresentano, nel breve e medio periodo, la minaccia peggiore nei confronti dei diritti fondamentali delle future generazioni. Se pensiamo a quanti rifugiati ambientali, in gran parte minori non accompagnati, già oggi vagano tra un continente e l’altro, o all’interno dello stesso spazio continentale o nazionale, alla ricerca di un ambiente consono al loro sviluppo, ci accorgiamo che non è necessario aspettare i peggioramenti previsti per il prossimo futuro per intervenire. Un rapporto dell’United Nations Environment Program (UNEP) pubblicato nel 2013 indica, ad esempio, come oggi in Africa la maggioranza delle persone dipenda dalle risorse naturali per il proprio sostentamento e come il 28% dei casi di malattie sia causato da fattori ambientali quali l’inquinamento dell’acqua e dell’aria.

Inoltre, come evidenziato nello studio del Cespi L’Africa e le trasformazioni in corso a cura di Marco Zupi (2014): “Il processo di rapida urbanizzazione e la competizione tra i nuovi cittadini sulle risorse già scarse in aree urbane - terra, ad esempio, (soprattutto quella più fertile), acqua, energia - uniti ai nuovi stili di vita consumistici in tutto il mondo rischiano di mettere a repentaglio la capacità di conservazione dinamica degli ecosistemi già oggi”.

Se poi lo sguardo si spinge poco oltre, non solo nel tempo, ma nello spazio, cioè ad alcuni paesi dell’area sub sahariana o dell’Asia esposti ai cosiddetti “fenomeni naturali estremi”, inondazioni, tornadi, ecc., appare molto chiaro che gli squilibri in atto anticipano la possibilità che esistano in molte parti del globo nuove generazioni che non potranno avere accesso all’acqua potabile, ad un minimo di sicurezza alimentare ed energetica, e dunque alle condizioni basiche della vita. In sintesi senza un ambiente sano non esiste nessun futuro possibile, specie per quanti oggi, e sono la maggioranza, non possono certo permettersi una vita altamente artificiale, come vediamo già in certe aree del mondo più avanzato, in cui i cambiamenti climatici vengono per così dire “mitigati” attraverso tecnologie protettive che, però, non affrontano certo il problema alla radice.

Da queste ovvie osservazioni discendono alcune implicazioni innovative nella nostra maniera di affrontare questo ordine di problemi, insieme alle popolazioni colpite e alle loro comunità emigrate, ed in specifico ai minori. In primis stiamo sviluppando inedite ma solide convergenze con le organizzazioni ambientaliste, che sino a qualche tempo fa agivano in ambiti complementari ai nostri ma distaccati. Noi pensiamo che la definizione di “cambiamento climatico” debba essere vista nella sua complessità e, soprattutto, affrontato nelle sue cause “evitabili” cioè antropiche.

A nostro parere se si vuole realmente valorizzare la diaspora per affrontare i problemi di disequilibrio climatico nei paesi di provenienza, si devono anche prendere in considerazione le cause economiche di questi cambiamenti, quelle che influenzano lo sfruttamento massiccio di territorio e di risorse in maniera indiscriminata a beneficio solo delle esportazioni verso i Paesi industrializzati ad esempio.

A questo proposito sembra che la tempesta finanziaria, con tutte le conseguenze nefaste che sta portando rispetto alla stabilità interna dei Paesi più industrializzati, stia ottenebrando la vista dei decisori politici, impegnati a tamponare nel brevissimo periodo una crisi sistemica della quale l’ambiente, e dunque la stessa possibilità che le future generazioni possano vivere, sembra essere la prima vittima poiché, a ben vedere, esiste una radicale contrapposizione tra uno sguardo che mette in sicurezza il «bene comune» ambiente, inteso nella sua totalità presente e futuro, e quello che reputa come realmente «bene comune» le banche.

E dunque sinché non cambieranno le relazioni economiche tra Paesi industrializzati e Paesi produttori di materie prime, molto difficilmente le popolazioni emigrate potranno dare un contributo decisivo al riequilibrio ambientale dei lori Paesi di provenienza.

E allora, a nostro parere, nel nesso immigrazione-ambiente va introdotto il tema dei “diritti ambientali delle nuove generazioni”, e di conseguenza clausole ambientali per quanto concerne lo sfruttamento delle risorse naturali. Da qui, come dicevo prima, anche la vicinanza – in corso - tra le ONG Diritti Umani e Ambientaliste per sviluppare l’agenda dei “diritti ecologici”.

In altre parole, noi non crediamo sia risolutivo spingere, ad esempio, le comunità emigrate solo ad investire le loro rimesse nel piantumare alberi in zona desertica quando sappiamo che il fenomeno desertificazione è spesso legato a squilibri ambientali di tipo inquinante, dovuti a tecniche di estrazione mineraria assolutamente improponibili dal punto di vista ambientale. Non è il caso di cercare di riempire un secchio senza fondo.

Sempre il medesimo studio del Cespi, succitato, evidenzia come: “I sistemi di distribuzione iniqua delle terre, dunque, spesso ereditati dai regimi coloniali e mai sanati, insieme al fenomeno della corsa per l’accaparramento delle terre attraverso investimenti diretti esteri (IDE) per la produzione di bio-combustibili e piantagioni arboree da legno, esercitano una pressione insostenibile per la natura e per la produzione alimentare. L’Africa contribuisce con 45 milioni di ettari (il 70% del totale mondiale) al mercato delle concessioni o vendita di terra alle imprese estere per produrre cibo e biocombustibili per i mercati esteri, compromettendo gli obiettivi di sicurezza alimentare e stili di vita tradizionali. Inoltre i presunti benefici degli IDE in termini occupazionali, di trasferimento tecnologico, di gettito fiscale aggiuntivo e di migliori infrastrutture molto spesso non si sono concretizzati, lasciando le popolazioni in uno stato di maggior dipendenza dei capitali stranieri”.

Insistiamo su questi aspetti analitici perché senza una idea chiara e coerente delle cause, tutte le soluzioni saranno solo palliative ed anzi, metteranno in ombra i problemi strutturali con la pubblicità di qualche “buona pratica” che però non li affronta né tantomeno li risolve. Dunque noi pensiamo che il ruolo politico delle comunità diasporiche nella difesa del loro ambiente di provenienza, che poi è anche il nostro alla lunga, debba mirare non solo a puntuali progetti di sostegno ambientale lì, bensì ad individuare casi di buone pratiche che siano riproducibili su vasta scala anche da noi, dato che oramai molti problemi ambientali sono decisamente comuni sia ai Paesi poveri o impoveriti, sia a quelli industrializzati a capitalismo cosiddetto maturo soprattutto.

In altre parole, tra le caratteristiche di un buona iniziativa deve essere centrale il fatto che questa possa essere trasformata in proposta politica di ampio respiro, strutturale, da sottoporre ai decisori politici internazionali nelle sedi opportune. In questo senso le comunità diasporiche sono importanti non solo per investire nei loro Paesi di origine me anche per aiutare il Paese ospite nel prevenire fenomeni che essi già conoscono.

Faccio un piccolo esempio tratto proprio dall’ultimo summit Rio+20 di due anni or sono. In quella occasione avevamo creato una vasta alleanza tra organizzazioni ambientaliste, associazioni di emigrati in Europa e America latina, e Ong. La richiesta comune era che nella dichiarazione finale comparisse l’Ombudsman per le future generazioni. Una richiesta avanzata alla presidenza brasiliana che però, inaspettatamente, non ha voluto inserirla nella bozza di dichiarazione finale che pure la nazione ospitante aveva tenuta aperta ai contributi delle Ong internazionali. La scomparsa della figura di garanzia per i diritti delle future generazioni non è l’unica, grave, mancanza di quel vertice, per noi fallito almeno dal punto di vista degli obiettivi che si sarebbe dovuto prefiggere. L’aver negato anche la possibilità teorica che nell’immediato futuro ci sia bisogno di una autorità internazionale che possa far valere sulle compatibilità economiche i diritti delle vite future la dice lunga non solo sulla miopia che ha dettato l’agenda del summit, ma anche rispetto alla paura che ogni piccola concessione ad un futuro diverso destabilizzi ulteriormente i già instabili mercati, veri convitati di pietra di Rio+20. E non è una caso che l’Ombudsman per le future generazioni sia scomparso dalla Dichiarazione finale poiché, a ben vedere, esiste una radicale contrapposizione tra uno sguardo che mette in sicurezza il «bene comune» ambiente, inteso nella sua totalità presente e futura, e quello che reputa come realmente «bene comune» il business as usual, seppure “tinto di verde”.

In altre parole, tra le future generazioni e i loro diritti, a partire da quelli che assicurano la vita su questa terra, e la salvezza del Capitale finanziario, la scelta a Rio era già stata fatta. Ed è questa scelta di fondo che spiega tutte le incongruenze del Summit, le vistose mancanze rispetto ad impegni vincolanti sulle riduzioni dei vari inquinanti, l’enfasi sull’“economia verde” senza cambiamento alcuno dei modelli di sviluppo in crisi, ed infine, ma non per importanza, una marcata mercificazione delle risorse naturali che vengono poste sotto la tutele del mercato, a salvaguardia, colmo dell’ironia, della loro fragilità.

Per finire vorrei però introdurre un altro elemento che può qualificare politicamente e qualitativamente il ruolo delle comunità emigrate nel processo di azione in favore del loro ambiente di provenienza. Si tratta in realtà più di una precondizione che di una condizione, legata alla prima accoglienza dei Minori stranieri specie di quelli non accompagnati (MSNA) che oramai con estrema frequenza e numeri altissimi rappresentano il profilo della immigrazione specie in Europa1. L’esperienza che sto per proporre nasce dall’evidenza che nei prossimi anni i fenomeni migratori cresceranno esponenzialmente, sia a causa della instabilità politica del continente africano, o del Medio Oriente - esposti oramai a guerre multiple di difficilissima gestione - sia a causa di quei cambiamenti climatici di cui abbiamo già parlato.

Questa esperienza si chiama FARO, un progetto lungimirante attraverso il quale la Federazione Internazionale Terre des Hommes offre ormai da un biennio supporto psicologico e psicosociale mirato proprio alle centinaia di minori che arrivano via mare nel nostro Paese. Oltre 1800 i minori che ad oggi ne hanno beneficiato, nel 2014. Solo nei primi 8 mesi del 2014 (dati Min. Lavoro e Politiche Sociali) gennaio – agosto oltre 11.000 MSNA sono giunti in Italia e oltre 2.000 sono risultati irreperibili. Molti quindi sono sfuggiti alle maglie del sistema di accoglienza italiano che vorrebbe ‘proteggerli’ e molti altri dei quali nemmeno conosciamo le stime, non sono mai stati intercettati dalle nostre forze di polizia. Dunque un sommerso inquietante di minori soli si aggira in Italia, la attraversa silenziosamente, per sfuggire al suo sistema. Per cercare altrove un futuro. FARO si inserisce qui.

Perché si tratta di un progetto lungimirante? Perché è la prima risposta sistematica al bisogno che questi ragazzi hanno di ritrovare una propria dimensione identitaria in un contesto di estrema vulnerabilità, confusione, e burocrazia che ogni giorno ne viola diritti fondamentali esponendoli a rischi di violenza sia psicologica sia fisica.

Chiudere gli occhi dinnanzi al bisogno urgente di ascolto, di un giovane quindicenne maliano o gambiano, sopravvissuto a quanto tutti noi possiamo immaginare e fornirgli subito strumenti utili a ubicarsi nel nuovo contesto sociale, significa – certo – garantire accesso ad un diritto fondamentale sancito peraltro dalla nostra Costituzione, ma soprattutto creare cittadini di domani, impegnati e disponibili a ricostruire insieme all’Italia e per l’Italia un dialogo serio e rispettoso con quella grande fetta di mondo che ancora la comunità internazionale puntualmente esclude dai giochi.

Dunque, in conclusione, se da una parte è necessario per prevenire realmente i flussi migratori legati ai cambiamenti climatici una politica globale che cambi radicalmente il “paradigma sviluppista” sino ad ora imperante, anche il coinvolgimento delle comunità migranti all’interno dei Pesi ospiti deve essere raggiunto sulla base di cambiamenti politici che tengano conto delle diseguaglianze in termini di scambi economici e di diritti ambientali delle future generazioni.





Documenti

- Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, Nizza, 2000

- CONCLUSIONI DEL CONSIGLIO dell'8 maggio 2003 (2003/C 137/01)

- COMMISSION DECISION of 25 March 2003 setting up a consultative group, to be known as the ''Experts Group on Trafficking in Human Beings'' (2003/209/EC)

- CONSIGLIO EUROPEO DI BRUXELLES 4/5 novembre 2004, Conclusioni della Presidenza

- DECISIONE QUADRO DEL CONSIGLIO del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani (2002/629/GAI)

- Déclaration de Bruxelles sur la prévention de la traite des êtres humains et la lutte contre celle-ci. Documento Redatto dalla Commissione Europea dopo la Conferenza Europea sulla prevenzione e la lotta contro il trafficking di esseri umani organizzata dall'OIM, settembre 2002

- L’Africa e le trasformazioni in corso, a cura di Marco Zupi, Cespi 2014

- Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, Conferenza di Palermo (12-15 dicembre 2000)

- Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, particolare di donne e bambini, Conferenza di Palermo (12-15 dicembre 2000)

- Trafficking in human beings. Documento redatto dalla Commissione Europea, settembre 2002


Siti di campagne e organizzazioni internazionali

http://www.unviolencestudy.org/
http://www.amnesty.org/
http://www.child-soldiers.org
www.baazee.com
www.eurispes.com
www.fondfranceshi.it
www.GreatDomains.com
www.organkeeper.com/links.html
www.pitt.edu/~htk/
www.savethechildren.it
www.stopchildtrafficking.org
www.tdh.ch
www.tdhitaly.org
www.terredeshommes.org
www.terrelibere.it
www.transplantkidneysale.com.
www.unhchr.ch
www.unicef.org
Forum: dialysis.net/renal/messages


1 Si vedano, al riguardo, i contributi di Sandra Zampa e Giorgio Pighi all’interno di questo stesso Forum.