2016
Il dibattito teorico sui diritti di bambine e
bambini
Isabel
Fanlo Cortés
(Università degli Studi
di Genova)
1. La Convenzione ONU sui diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza e il processo di specificazione dei
diritti umani
La Convenzione internazionale sui diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza, adottata dall’Assemblea delle Nazioni
Unite nel 1989, costituisce uno dei prodotti più significativi del
processo di “moltiplicazione per specificazione” dei diritti umani[1]. A partire dalle prime dichiarazioni di
diritti di fine Settecento[2],
tale processo ha investito due diversi profili, distinguibili sul piano
analitico ma destinati a intersecarsi nel loro sviluppo storico:
rispettivamente, il contenuto e i soggetti titolari dei diritti.
Così, per quanto riguarda il contenuto, se le
dichiarazioni di fine Settecento contemplavano un paniere piuttosto
ristretto di diritti (il diritto alla vita, alla proprietà, alla
libertà, alla sicurezza, alla ricerca della felicità e pochi altri), il
secolo scorso vede una progressiva estensione del catalogo dei diritti
umani: un catalogo, in cui oggi si inscrivono a pieno titolo, come
noto, i diritti politici, i diritti sociali, i diritti culturali, i
diritti c.d. bioetici, e così via, sanciti sia in testi costituzionali
sia in atti (dichiarazioni o convenzioni) internazionali.
Per quanto riguarda i soggetti titolari, anche se le
dichiarazioni di diritti di fine Settecento sembrano fare riferimento a
un modello di soggetto umano astrattamente considerato e, dunque, in
apparenza “neutrale”, in realtà - come già avevano notato a loro tempo
Marx e, ancor prima, alcune antesignane del femminismo come Olympe de
Gouges – il concetto di umano sotteso alla grammatica dei diritti è,
almeno da un punto di vista storico, profondamente condizionato
dall’appartenenza a una certa classe sociale, a un certo genere, a una
certa fascia d’età, e così via. L’ “essere umano” dei diritti umani
denota, in altri termini, un tipo particolare di uomo: maschio, bianco,
proprietario, borghese, occidentale, eterosessuale e, possiamo
aggiungere, anche adulto e razionale.
Di qui l’esigenza – che comincia a trovare
espressione a livello internazionale nel corso della metà del Novecento
- di rideclinare il linguaggio dei diritti tenendo conto delle
specifiche necessità e rivendicazioni legate alla condizione di donna,
di bambina/o, di persona con disabilità, e così via. Un’esigenza per la
verità non sempre condivisa, sul presupposto, a mio modo di vedere
discutibile, che l’origine particolaristica del linguaggio dei diritti
sia destinata in qualche modo a inficiare il carattere universale delle
istanze rivendicate attraverso il ricorso a questo linguaggio.
Personalmente condivido la tesi metodologica secondo cui si può, e anzi
si deve, distinguere analiticamente la questione relativa alla genesi
dei diritti dalle questioni relative al loro status ed alla loro
legittimazione[3].
Con specifico riferimento ai bambini – ma
considerazioni analoghe potrebbero valere anche in relazione ad altri
gruppi sociali caratterizzati da una condizione di svantaggio - occorre
certo fare i conti con le difficoltà derivanti dal fatto che il
concetto di diritto in senso soggettivo sia nato, e si sia
successivamente sviluppato, avendo come esclusivo punto di riferimento
i bisogni, gli interessi e le aspettative di un certo modello di
soggetto titolare, con le caratteristiche tipiche dell’adulto
(razionalità, capacità di agire e così via), ma ciò non rende
necessariamente superfluo o inadeguato l’impiego del linguaggio dei
diritti in relazione ai bambini, come pure alcune autrici e autori
hanno sostenuto[4].
Va piuttosto considerato che la storia dei diritti
dei/delle bambini/e è una storia relativamente recente, almeno se posta
a confronto con quella dei diritti umani in generale; inoltre, così
come nel corso dei secoli il catalogo dei diritti umani si è
progressivamente ampliato, qualcosa di analogo si è verificato, a
partire dal secondo dopo guerra, in relazione al catalogo dei diritti
specificatamente riconosciuti ai/alle bambini/e. Infatti, se le prime
dichiarazioni internazionali in materia (i.e. la Dichiarazione di
Ginevra del 1924 e la Dichiarazione internazionale sui diritti del
fanciullo del 1959) si limitavano a enunciare alcuni diritti sociali,
culturali ed economici, la Convenzione ONU del 1989 (e ratificata dal
Parlamento italiano con la Legge 176/1991) riconosce in capo ai/alle
bambini/e il godimento di alcuni diritti di libertà, come la libertà di
coscienza, d’espressione e di religione, considerati tradizionalmente
esclusiva prerogativa degli adulti (si tratta, appunto, dei “nuovi”
diritti, sui quali tornerò nelle conclusioni). Il percorso storico di
riconoscimento dei diritti di bambini e bambine si è realizzato,
dunque, in senso contrario rispetto a quanto è avvenuto per i soggetti
adulti: infatti, mentre per questi ultimi, i diritti di libertà
costituiscono i diritti di c.d. prima generazione, a cui solo in un
secondo momento si sono aggiunti i diritti posti a tutela di interessi
di rilevanza sociale, economica e culturale, per i bambini, la
codificazione, per certi versi già acquisita, dei diritti sociali o di
terza generazione e in parte dei diritti culturali o di quarta
generazione tende ad estendersi, solo alla fine degli anni Ottanta,
alle libertà civili e politiche.
2. Dall’indifferenza nei confronti della
condizione infantile alla “invenzione” del/della bambino/a
Specie a partire dalla fine degli anni Settanta,
anche in concomitanza alla diffusione in quasi tutto l’Occidente di
istanze riformatrici del diritto di famiglia, il “nuovo” fenomeno dei
diritti dei bambini sembra riscuotere un progressivo successo nella
cultura giuridica sia esterna, sia a interna, tanto in Europa
continentale, quanto nel contesto anglosassone (in quest’ultimo
contesto il tema dei diritti dei bambini trova tuttavia maggiore
approfondimento sul piano teorico). Sintomo di questo successo è, ad
esempio, il fatto che la già citata Convenzione ONU del 1989 sia ancor
oggi il trattato internazionale in materia di diritti umani ad aver
raccolto il più ampio numero di adesioni nella storia: tutti gli Stati
del mondo, a eccezione degli Stati Uniti e della Somalia, hanno
provveduto alla sua ratifica pur con eventuali riserve.
Sul successo riscosso a livello internazionale dai
diritti dei bambini pesano diversi fattori culturali, sociali,
politici, non ultima la centralità rivestita nel dibattito etico
contemporaneo dai discorsi in termini di diritti. Benché le attuali
politiche di governo dei fenomeni sociali sembrino, a ben vedere,
privilegiare il linguaggio dei divieti piuttosto che quello dei
diritti, nel dibattito teorico-politico occidentale si tende a
considerare i diritti umani come una sorta di codice etico e giuridico
universale, una sorta di “religione laica”, capace di offrire la
cornice normativa entro la quale i problemi sociali possono essere
affrontati e gestiti. Nel caso specifico dei diritti dei bambini e
delle bambine, ritengo tuttavia che un ruolo rilevante debba essere
riconosciuto a un fenomeno che, pur venendo da lontano, ha prodotto
effetti significativi sull’atteggiamento della cultura giuridica tardo
novecentesca nei confronti dei bambini. Mi riferisco al fenomeno della
“scoperta” o “invenzione” dell’infanzia.
A partire dalla pioneristica, e forse per questo
assai nota, analisi condotta da Ph. Ariès negli anni Sessanta[5] è opinione molto diffusa che la categoriadell’infanzia,
almeno così come siamo abituati a percepirla noi oggi, quale fase
distinta e autonoma dell’esistenza umana meritevole di particolari cure
e attenzioni, non abbia sempre fatto parte del patrimonio culturale
occidentale, rappresentando piuttosto un prodotto della modernità,
grosso modo risalente alla fine del XVII secolo. Per quanto ci sia
disaccordo sull’esatto periodo storico a cui far risalire la nascita di
quello che Ariès chiama il “sentimento dell’infanzia” - cui è legato il
sentimento di maternità e paternità (sentimenti molto meno innati e
“naturali” di quanto saremmo portati a credere) - quel che conta è che
anche i bambini, un po’ come i loro diritti, sono un prodotto della
modernità. O meglio, a essere un prodotto della modernità non sono
certo i bambini come persone in carne e ossa, bensì il nostro concetto
di bambini come soggetti dotati di caratteristiche tipicamente
infantili, ovvero di quelle prerogative, per lo più psicologiche (di
debolezza, immaturità, dipendenza, e così via), che, secondo un diffuso
modo di pensare, contraddistinguono la condizione del bambino rispetto
a quella dell’adulto. Fra le altre, la considerazione che si tratti di
un soggetto in continua evoluzione: idea, questa, difficilmente
concepibile nell’ambito di un costrutto sociale (si pensi all’epoca
medievale, ma non solo) dove il bambino, da una condizione di “cucciolo
d’uomo” da svezzare, passava, senza soluzione di continuità, a quella
di “piccolo uomo”, non appena la sopravvivenza alle malattie infantili
o la capacità di sopportare la fatica di un lavoro glielo
permettessero.
Quel che è importante notare è che un po’ in tutti i
campi, questo processo di “invenzione” dell’infanzia si realizza
all’insegna del riconoscimento delle caratteristiche distintive tra
adulti e bambine/i e coincide, potremmo dire, con il superamento di un
diffuso atteggiamento di indifferenza nei confronti della specificità
della condizione infantile.
Un atteggiamento culturale, quello
dell’indifferenza, ben rappresentato nell’arte rinascimentale dove i
bambini vengono raffigurati come adulti in miniatura, e che trova
espressione teorica nelle dottrine creazioniste che dominano il clima
intellettuale pre-illuminista. Mi riferisco alle dottrine c.d.
preformazioniste, secondo le quali ciascun essere umano è il prodotto
di un atto istantaneo di creazione e, dunque, fin dal suo nascere, un
uomo o una donna in formato ridotto: le differenze tra adulti e bambini
sono meramente quantitative, riguardano le dimensioni del corpo, non
aspetti qualitativi, come la razionalità, le competenze logiche e
cognitive (ciò giustifica, ad esempio, l’adozione di sistemi educativi
molto rigidi, che non tengono conto delle limitate capacità di
apprendimento dei più piccoli).
La stessa indifferenza ha costituito per secoli, del
resto, l’unica possibile risposta adattiva a circostanze
economico-sociali nelle quali, specie tra le classi più povere, le
numerose bocche da sfamare e gli alti tassi di mortalità infantile non
concedevano molto spazio allo sviluppo di atteggiamenti di tenerezza e
di considerazione nei confronti della specificità della condizione
infantile.
La “invenzione” del bambino, dicevo, si realizza in
tutti i campi, ivi compreso l’ambito giuridico, sotto il segno
dell’identificazione e della valorizzazione delle differenze tra adulti
e non adulti, ora non più negate: illuminante, a questo proposito, è
quanto avviene in Europa a seguito del processo di codificazione. Qui
l’agnosticismo mostrato dai codici liberali ottocenteschi nei confronti
delle esigenze materiali e psicologiche legate alle età delle persone
(funzionale anche all’esigenza illuministica di semplificazione, a cui
ben risponde il modello di soggetto unico di diritto[6]) è ancora il riflesso del paradigma della
indifferenza, i cui strascichi sono evidenti nell’impianto originario
del codice civile italiano del ’42. Tale paradigma, nel nostro paese
come altrove in Europa, viene superato grazie al consolidarsi di un
opposto atteggiamento ideologico, ispirato al principio del c.d. favor
minoris, che ispirerà le grandi riforme legislative introdotte in
materia di diritto di famiglia tra gli anni Sessanta e Settanta in
quasi tutti gli ordinamenti occidentali. Si tratta di riforme basate
per lo più sulla considerazione secondo cui la minore età, nel rilevare
alcune differenze specifiche, comporta l’esigenza di un trattamento
giuridico differenziato: un’esigenza che viene ben presto tradotta
nella creazione di una nuova e autonoma branca del diritto – il c.d.
diritto minorile – e nell’istituzione, in molti paesi, di tribunali
specializzati (è il caso del Tribunale per i minorenni operante in
Italia dal 1934).
All’affermazione del modello della differenza
legato alla “invenzione” dell’infanza e dell’adolescenza contribuiscono
diversi fattori: tra gli altri, un certo e diffuso modo di concepire e
interpretare lo sviluppo del bambino (in termini di stadi evolutivi)
tuttora prevalente nel campo delle scienze sociali e psicologiche. Mi
riferisco alla concezione evolutiva, teorizzata, tra gli altri, dallo
psicologo francese Jean Piaget e ispirata all’idea che lo sviluppo del
bambino avvenga attraverso una successione di stadi in cui si maturano
tipi sempre più complessi di competenze concettuali fino
all’acquisizione delle capacità logico-formali e al raggiungimento del
carattere “universale” dell’età adulta, ossia la razionalità[7].
Lo stesso paradigma della differenza è peraltro
quello dominante nella tradizione filosofica e politica di stampo
liberale, dove il minorenne è in genere concepito come soggetto debole
da proteggere, cittadino solo potenziale, tendenzialmente escluso dal
godimento dei diritti di libertà, almeno fino all’acquisto della
capacità di agire. Così era per John Locke – notevole precursore del
modello della differenza e, non a caso, acerrimo critico dell’innatismo
che permeava le dottrine preformazioniste di cui si è detto –, che,
dovendo individuare un criterio distintivo in base al quale stabilire
chi poteva rientrare nella cerchia dei contraenti nel patto istitutivo
della società, fonda tale criterio sul possesso della capacità di agire
e della razionalità, lasciando fuori le donne (considerate ai tempi,
come noto, soggetti irrazionali per definizione) e ovviamente i
bambini. Ma non molto diversa è la soluzione adottata, secoli dopo, da
John Rawls il quale esclude i bambini dalla sfera degli eguali nella
posizione originaria, compiendo così un’operazione poco coerente con
l’impianto interno della sua Theory of Justice[8]. Dopo aver escogitato
l’espediente del “velo di ignoranza” al precipuo scopo di rendere i
decisori inconsapevoli della propria condizione di partenza (per cui a
ciascuno di essi conviene mettersi nei panni di “tutti”), stabilisce,
infatti, che i bambini vengano invece rappresentati da un capofamiglia
il quale, più che calarsi nel ruolo di bambino, sembra promuovere i
suoi interessi come se si trattasse di interessi di una persona diversa
da sé, ciò peraltro in contrasto alla definizione rawlsiana di famiglia
come istituzione sociale – comunità non naturale, bensì convenzionale –
alla quale, come tale, dovrebbe essere esteso, senza eccezioni, il
paradigma contrattuale e individualistico previsto in A Theory of
Justice[9].
Nonostante il suo duraturo successo, il modello
interpretativo della minore età ispirato al modello evolutivo della
differenza conosce alterne vicende, ed è a più riprese contestato, ora
da chi rivendica l’importanza del ruolo del bambino, da intendersi come
già cittadino, nel funzionamento del sistema della
rappresentanza democratica[10],
ora da chi, come i cultori della c.d. nuova sociologia dell’infanzia,
ne enfatizza le capacità in termini di attore sociale competente. In
particolare, la nuova sociologia dell’infanzia, in aperta critica alla
concezione evolutiva di Piaget e alla teoria tradizionale della
socializzazione, evidenzia come i bambini, fin da piccoli, lungi
dall’imitare passivamente i modelli comportamentali degli adulti,
abbiano un ruolo attivo nella conoscenza del mondo e, attraverso
l’interazione con il gruppo dei pari e con gli adulti, siano in grado
di sviluppare le competenze necessarie alla riproduzione di un proprio
mondo sociale[11] Di qui
l’importanza della partecipazione sociale dei bambini e delle bambine
alle scelte che riguardano le loro azioni ed esperienze attraverso
l’esercizio del c.d. diritto all’agency[12].
3. Specificità dei diritti umani della/del
bambina/o
Il successo riscosso dal linguaggio dei diritti dei
bambini – un linguaggio che, lungi dal venir univocamente inteso,
nasconde in realtà non poche ambiguità e contraddizioni[13] – serve non solo a misurare la distanza
con il mondo reale, lo scarto tra essere e dover essere, suscitando
quindi qualche legittima riserva sul piano dell’effettiva applicazione
di questi diritti (che spesso si rivelano meri diritti di “carta”). Sul
piano del dibattito teorico esso tende spesso a oscurare la
problematicità che, sotto diversi profili, caratterizza la relazione
tra diritti e bambini. Una relazione che non solo mette a confronto due
nozioni controverse e costruite sotto il segno di contrasti teorici e
ideologici, ma risente, per così dire, di una sfasatura temporale.
Per dirla in termini un po’ tranchant, la
“invenzione” dei diritti – nella loro prima versione storica che è
quella dei diritti naturali – anticipa, come abbiamo visto all’inizio,
la “invenzione” del bambino nel senso sopra chiarito, e cioè del
bambino come siamo abituati a percepirlo noi oggi, come soggetto
diverso dall’adulto e dunque meritevole di uno speciale trattamento sul
piano morale e giuridico. Conseguentemente, la grammatica dei diritti
umani non poteva che nascere e svilupparsi avendo come punto di
riferimento i bisogni, gli interessi, le aspettative di un certo
modello antropologico, che, come detto, oltre a essere maschio, bianco,
borghese, proprietario, eterosessuale, è sicuramente già adulto.
Ma proprio nella problematicità della relazione
bambini-diritti, risiede forse il suo principale motivo d’interesse
teorico che consiste nel catturare alcune aporie, forzature,
condizionamenti ideologici che caratterizzano l’apparato
teorico/concettuale dei diritti in generale, portando alla ribalta
questioni e nodi irrisolti, se non del tutto trascurati da parte della
teoria liberale classica.
In particolare, a essere in chiamato in causa è
l’approccio liberale più fedele alla tradizione, responsabile: i)
non solo, come accennato nella sezione precedente, di una certa
caratterizzazione della minore età, intesa come sinonimo di incapacità,
irrazionalità, esclusione dai processi di deliberazione democratica,
che ha giocato una significativa influenza negli ordinamenti giuridici
liberali, ii) ma altresì di una caratterizzazione in senso
minimalista dei diritti, concepiti ora come strumenti di rivendicazione
di sfere protette di autonomia e controllo á la Herbert Hart[14], ora come strumenti di tutela della
libera capacità di agire degli individui in vista del raggiungimento di
scopi razionali [15].
A questo proposito e a mo’ di conclusione, mi
limiterò ad accennare a due nodi problematici che, a mio parere,
l’applicazione del linguaggio dei diritti umani ai bambini contribuisce
a porre in evidenza.
Il primo problema, spesso e ingannevolmente
presentato come problema di carattere concettuale, ma che in realtà
riguarda più la “ragione” dei diritti che non la definizione del
relativo termine, concerne la stessa plausibilità di considerare il/la
bambino/a, in quanto essere privo delle caratteristiche tipiche
dell’agente morale, come soggetto titolare di diritti.
Il problema, così formulato, può destare un certo
stupore, almeno alla luce dei sempre più numerosi documenti normativi
che attribuiscono diritti ai bambini. In realtà, la questione messa in
discussione riguarda se tali diritti (e mi riferisco, in particolare, a
diritti a contenuto positivo del bambino, come il diritto a un’adeguata
protezione sociale o il diritto all’educazione), siano da intendersi,
al di là della terminologia impiegata da legislatori e giudici, come
“veri” diritti.
In effetti, stando a una certa concezione dei
diritti e, in particolare, a quella più fedele alla tradizione
giuridica liberale, altrimenti nota come concezione volontaristica dei
diritti o, nei contesti anglosassoni, come will o choice
theory, l’elemento che definisce un diritto soggettivo è il potere:
la volontà o discrezionalità del titolare in relazione al contenuto del
diritto. Nell’opinione di uno dei più insigni sostenitori di questa
concezione, Herbert Hart, ciò che rende certa l’affermazione che un
soggetto abbia un diritto è che questi si trovi nella condizione morale
o giuridica, a seconda dei casi, di poter determinare, mediante un atto
di scelta individuale, il comportamento di un altro soggetto,
interferendo in tal modo nella sua sfera di libertà. Per usare
l’efficace metafora hartiana, il titolare di un diritto soggettivo gode
tipicamente di una “posizione speciale”, paragonabile a quella di un
“sovrano su scala ridotta”, in quanto libero di scegliere «as to wether
the corresponding duty shall be performed or not»[16].
È chiaro che, in base a tale concezione, dalla
cerchia ristretta dei “veri” diritti, o presunti tali, rimangono fuori
i diritti che è più plausibile riconoscere ai/alle bambini/e (come i
già citati diritti a un’adeguata protezione sociale e all’educazione),
ma, in generale, tutte quelle aspettative, anche degli adulti, il cui
soddisfacimento non dipende da un atto volontaristico o potestativo del
titolare ma è rimessa all’iniziativa altrui: è il caso appunto di
diritti a contenuto positivo o diritti a una certa prestazione come i
diritti sociali. Proprio per questo motivo,il filosofo del diritto
scozzese Neil MacCormick, in un famoso saggio pubblicato nel 1976,
indicò i diritti dei bambini come un “banco di prova” per le teorie dei
diritti, criticando la concezione volontaristica proprio in quanto
incapace di dar conto della sensatezza dell’attribuzione di diritti ai
bambini[17]. La concezione
alternativa difesa da MacCormick, e con lui da molti altri autori, è la
c.d. interest theory (o teoria degli interessi), secondo cui
l’elemento caratterizzante dei diritti non è un elemento di carattere
soggettivo (come il potere o la volontà), bensì un elemento di
carattere oggettivo (“oggettivo” almeno in relazione ai fini perseguiti
dal sistema normativo di riferimento) ravvisabile nella tutela di
interessi o necessità umane (come l’alimentazione, la salute,
l’educazione, e così via) considerati di tale importanza per il
soggetto da giustificare l’imposizione di doveri in capo a terzi.
Al di lá della polemica tra sostenitori della will
theory e sostenitori della interest theory, ci interesse
notare come il caso dei bambini consenta, a una più attenta analisi, di
porre in luce un malinteso essenzialismo che vizia buona parte
dell’attuale dibattito contemporaneo sui diritti: dibattito in cui si
tendono a fornire le stesse indistinte risposte tanto a problemi di
definizione concettuale, quanto a problemi etico-normativi. Così,
considerazioni legate a precise opzioni di carattere etico-normativo
(ad esempio l’idea che i diritti possano essere attribuiti solo a
soggetti capaci di agire, ossia ad agenti morali capaci di far valere
le proprie posizioni soggettive favorevoli), vengono presentante come
constatazioni circa la “vera” natura dei diritti o il “vero” concetto
di diritto soggettivo.
Almeno se ci riferiamo a uno dei più noti e
collaudati impianti analitici sui diritti – quello elaborato da Wesley
N. Hohfeld nei primi decenni del secolo scorso[18] – e alla tesi della correlazione logica
tra diritti e doveri che caratterizza tale impianto, non ci sono
ragioni (concettuali) per negare che anche i bambini piccolisiano
titolari dei diritti (diritti-pretesa) correlativi ai doveri (degli
adulti), il cui esercizio, e i connessi diritti-poteri, sono attribuiti
a rappresentanti capaci di agire.
Altro tipo di ragioni, non concettuali, bensì
normative, sottostanno invece alle questioni relative a quali diritti
siano ascrivibili ai/alle bambini/e e agli/alle adolescenti, alla loro
portata e ai loro limiti, specie in relazione ai correlativi doveri, di
protezione e tutela, degli adulti.
E proprio su questo terreno sicuramente più fecondo
che si radica il secondo ordine di problemi, squisitamente
etico-normativo, ma con importanti risvolti sul piano concettuale e su
quello tecnico-giuridico. Un ulteriore nodo problematico per la teoria
liberale, che concerne però, questa volta, i “nuovi” diritti del/della
bambino/a menzionati alla fine della prima sezione.
Con l’espressione ‘nuovi diritti del bambino’ ci si
riferisce in genere a due diverse categorie di diritti: da un lato, i
già citati diritti di libertà enunciati dagli articoli 13, 14, 15 e 16
della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989 (libertà di
opinione, di informazione, di coscienza e di religione, diritto alla
privacy) e, dall’altro, gli specifici diritti procedurali previsti
dalla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori
adottata a Strasburgo nel 1996, dei quali il c.d. diritto all’ascolto
rappresenta il fulcro portante.
Proprio il – timido, come vedremo tra poco –
riconoscimento giuridico di alcuni spazi di libertà al/alla bambino/a
ha contribuito a portare alla ribalta il problema del paternalismo e
delle misure di tutela nei confronti del minore, considerato però da un
punto di vista del tutto inedito nella tradizione liberale: ossia
quello dei limiti e della giustificazione di tali misure. Il problema
che ci si pone è: fino a che punto gli adulti, intesi sia come singoli,
sia come istituzioni, possano legittimamente interferire nelle scelte
personale operate dai/dalle minorenni (soprattutto se non più bambini),
sostituendo la propria volontà alla loro, specie se dal punto di vista
dell’adulto tale interferenza risponde alla necessità di evitare un
danno futuro?
Si tratta, dicevo, di un problema in genere
trascurato. Come sappiamo, la tradizione liberale è proverbialmente
restia ad ammettere limitazioni della libertà del singolo, ivi comprese
quelle sortite da norme o condotte di tipo paternalistico, che non
risultino giustificate dal principio del danno ad altri. Ma ciò solo
quando il singolo in questione sia un soggetto adulto. Nel caso dei
bambini, invece, quest’atteggiamento di riluttanza viene generalmente
meno.
Già Locke, vale a dire il riconosciuto fondatore
dell’antipaternalismo liberale aveva messo in guardia contro qualsiasi
forma di assimilazione tra potere politico e potere paterno (e dunque,
può inferirsi, anche tra paternalismo politico e paternalismo in ambito
familiare) e, nella stessa ottica, per Kant, se rientra nell’ordine
naturale delle cose trattare i bambini siano come soggetti incapaci di
distinguere tra il bene e il male, lo stesso trattamento nei confronti
dei sudditi adulti convertirebbe i governanti nei peggiori despoti che
si possano immaginare[19]. Ma
soprattutto, il classico argomento della c.d. distanza paternalistica,
secondo cui ognuno va considerato come il miglior giudice dei propri
interessi, non risulta applicabile, a detta dello stesso John Stuart
Mill, autore dell’argomento, ai minorenni (come del resto agli incapaci
in generale, oltre che alle società «in cui la razza stessa può essere
considerata minorenne»[20]).
Questo ovviamente non significa che gli ordinamenti
giuridici liberali non ammettano norme e misure paternaliste rivolte a
soggetti adulti[21].
L’aspetto che intendo evidenziare è piuttosto che, in un’ottica
liberale, la legittimità di tali norme e misure necessita di ulteriori
giustificazioni e non può basarsi sulla mera presunzione d’incapacità,
da parte dei soggetti destinatari, di proteggersi da soli, come succede
invece nel caso dei bambini.
E il motivo di quest’eccezione è facilmente
intuibile. In relazione ai bambini – caratterizzati, lo si è visto,
come agenti soltanto potenziali, soggetti legalmente incapaci e di
fatto incompetenti a decidere razionalmente della propria vita – non si
pone alcun problema di salvaguardare spazi di libertà o di autonomia.
Stando almeno a questa versione “classica” del paternalismo liberale –
che nei confronti dei minori non suona più come un ossimoro – questi
vanno piuttosto «protetti da loro stessi», come raccomandava il già
citato John Stuart Mill. Di conseguenza, gli interventi paternalistici
nei loro confronti, in quanto diretti a realizzare loro interessi e/o
evitare danni che i bambini non sarebbero in grado di evitare, sono da
considerarsi doverosi, o comunque non richiedono alcuna ulteriore
giustificazione.
Tale modello ha avuto peraltro una notevole
influenza nella configurazione dello stato giuridico del minore
nell’ambito degli ordinamenti liberali, dove a lungo la categoria
dogmatica dell’incapacità d’agire (nata in realtà per soddisfare
esigenze di natura patrimoniale) ha costituito l’esclusiva chiave di
lettura della condizione di chi non ha ancora raggiunto la c.d.
maggiore età legale.
Ebbene, prendere sul serio i diritti di libertà di
bambine e bambini obbliga a un ripensamento dell’influente modello
milliano/liberale, costruito sull’idea che l’acquisto della maggiore
età segni un momento di decisiva rottura nella storia personale di
ciascun individuo, per cui da una fase di costruzione del soggetto
autonomo alla quale il minorenne, in quanto tale, non partecipa
attivamente, si passerebbe, senza soluzione di continuità, a una
successiva in cui il maggiorenne, oltreché cittadino, diverrebbe anche
l’unico artefice del proprio piano di vita.
In questa direzione di ripensamento si muovono, del
resto, le teorie o dottrine sui diritti dei bambini elaborate dopo
l’approvazione della Convenzione ONU del 1989: si tratta di
orientamenti che, pur con significative differenze, non solo si
esprimono criticamente nei confronti della caratterizzazione della
minore età in termini di incapacità e irrazionalità (senza distinguere,
ad esempio, tra bambini piccoli e adolescenti), ma dimostrano una certa
attenzione al problema della giustificazione di quelle misure di tutela
che comportano una limitazione dei diritti di libertà del minorenne,
ora richiamandosi ad argomenti tipicamente utilizzati in ambito
deontologico per giustificare le condotte paternalistiche nei confronti
degli adulti (come quello del consenso ipotetico, dell’autonomia
individuale o della irrazionalità), ora basandosi, in un’ottica
consequenzialista, sulla convenienza dell’interesse prodotto in capo al
minore destinatario dell’intervento paternalistico (e destinato
talvolta a prevalere sull’interesse dell’adolescente a godere di alcuni
spazi di libertà)[22].
Sotto altro profilo, prendere sul serio i nuovi
diritti dei/delle bambini/e impone di prendere le distanze
dall’atteggiamento di acritico entusiasmo con cui tali diritti sono
stati salutati nell’ambito dell’eterogenea comunità scientifica di
“esperti” dei bambini.
Stando almeno alla configurazione giuridica di
questi diritti, ci sono buoni motivi per ridimensionare gli entusiasmi.
Mi limito a due rilievi che mi sembrano, a questo proposito,
significativi. In primo luogo, il fatto che l’art. 14 della citata
Convenzione ONU del 1989 affidi ai genitori il ruolo di “guida”
nell’esercizio dei diritti di libertà (religiosa, di coscienza, di
opinione) ascritti ai bambini: agli stessi soggetti, cioè, che
presumibilmente sono anche i principali destinatari o soggetti passivi
dei diritti in questione. In secondo luogo, il richiamo va al tanto
celebrato “diritto all’ascolto” , capace, a detta dei più, di
restituire voce a coloro che, come suggerisce la stessa etimologia del
vocabolo infantes, per diverso tempo sono stati considerati
incapaci di esprimersi. Tale diritto, nella formulazione che riceve
all’art. 12 della stessa Convenzione ONU, risulta composto da un
diritto negativo (il diritto del bambino a formarsi una propria
opinione) e da un diritto positivo (a ottenere che le proprie opinioni
ricevano, da parte di coloro cui sono rivolte, il giusto peso
relativamente alla sua età e maturità). Nell’interpretazione più
diffusa, almeno tra i giudici italiani, le norme espresse dall’art. 12
non farebbero tuttavia riferimento alle “squisite” opinioni del
bambino, ma solo alle opinioni che sono ritenute sensate sulla scorta
di un giudizio di maturità da parte degli adulti: solo a quelle si
dovrebbe dare libertà di espressione, mentre sono l’ “età” e alla
“maturità” i parametri di identificazione del bambino cui è
riconosciuto il diritto di essere ascoltato.
Tali rilievi non devono stupire: essi mostrano solo
come i nuovi diritti del bambino non coincidano con i corrispondenti
diritti di libertà dell’adulto. Si tratta piuttosto di diritti specifici
rispetto al paradigma tradizionale dei diritti umani, la cui
specificità risiede, dal punto di vista strutturale, nel più
ingombrante regime di limiti che caratterizza il loro esercizio e,
quindi, il loro contenuto. In particolare, limiti previsti da norme di
competenza che attribuiscono poteri in capo a terzi. Così al giudice, a
cui spetta, in base al diritto interno e internazionale, il potere di
decidere quale sia il migliore interesse del minore, a dispetto delle
eventuali scelte e opinioni espresse da quest’ultimo. Oppure ai
genitori a cui, ad esempio, come si è appena visto, la Convenzione Onu
del 1989 riconosce, con esiti non poco paradossali, il potere di guida
nell’esercizio dei diritti di libertà religiosa e di opinione da parte
dei figli minorenni.
Sul piano etico-normativo, il carattere di
specificità dei nuovi diritti di bambine e bambine deriva dall’ovvia
necessità di contemperare l’esigenza di tutelare alcune manifestazioni
di autodeterminazione della persona minorenne (presumibilmente ormai
adolescente) con quella di evitare che dette manifestazioni
compromettano il suo sviluppo psico-fisico. In altre parole, anche i
nuovi diritti di libertà di bambini e bambine devono fare i conti con
l’intervento degli adulti; ciò anche nel caso in cui alla
rappresentazione del bambino come soggetto debole e agente solo
potenziale si preferisca quella del bambino come “attore sociale
competente”, dominante nella più recente sociologia dell’infanzia di
cui si è accennato alla fine della precedente sezione.
I diversi modi di concepire il/la bambino/a (dalla
concezione evolutiva alla teoria dell’attore sociale competente)
paiono, infatti, rivestire un ruolo, non tanto nella scelta fra la
logica della tutela e la logica della promozione dell'autonomia del
minore (dilemma insuperabile, se non in relazione al caso concreto, e
forse per questo mal posto), quanto piuttosto nel modo di esercitare la
tutela stessa. In altri termini, è l'ottica generale della tutela a
costituire la cornice etico-normativa entro cui gli specifici (“vecchi”
e “nuovi”) diritti umani del/della bambino/a trovano collocazione, ma
sul modo di intendere questa tutela inciderà non poco il modello
interpretativo della minore età che verrà accolto.
[1] N.
Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990.
[2] Mi
riferisco ovviamente alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino adottata nella Francia rivoluzionaria del1789 e, ancor
prima, alla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti
d’America del 1776.
[3] In
questo senso cfr. L. Bacelli, Il particolarismo dei diritti. Poteri
degli individui e paradossi dell’universalismo, Roma, Carocci,
1999; O. Höffe, ”Déterminer les droits de l’homme à travers une
discussion interculturelle”, Revue de métaphisique et de morale,
(1997), 4, pp. 461-495.
[4] Ad
esempio: O. O’Neill, “Children Rights and Children Lives”, in P.
Alston, S. Parker, J. Seymour (eds.), Children, Rights and the Law,
Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 24-42; C. Wellman, “The
Growth of Children’s Rights”, Archiv für Rechts und
Sozialphilosophie, (1984), pp. 441-453; E.H. Wolgast, The
Grammar of Justice, N.Y., London, Ithaca, 1987; trad. it. La
grammatica della giustizia, Roma, Ed. Riuniti, 1991.
[5] Ph.
Ariès, L’enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime,
Paris, Plon, 1960; trad. it. Padri e figli nell’Europa medievale e
moderna, Bari, Laterza, 1981.
[6] Cfr. G.
Tarello, “Ideologie settecentesche della codificazione e strutture dei
codici”,in S. Castignone, R. Guastini, G. Tarello (a cura di), Introduzione
teorica allo studio del diritto, Genova, E.C.I.G., 1984.
[7] J.
Piaget, La naissance de l’intelligence chez l’enfant, Paris,
Delachaux et Niestlé, 1936 ; trad. it. La nascita dell’intelligenza
nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1973.
[8] J.
Rawls, A Theory of Justice, Cambridge, MA., Harvard University
Press, 1971; trad. it. Una teoria della giustizia, Milano,
Feltrinelli, 1991.
[9] Sul
punto v. M.C. Pievatolo, La giustizia degli invisibili.
L’identificazione del soggetto morale a ripartire da Kant, Roma,
Carocci, 1999.
[10] A.
Baratta, “Infanzia e democrazia. Per una interpretazione dinamica della
Convenzione internazionale sui diritti del bambino”, Materiali per
una storia della cultura giuridica, 29 (1999), 2, pp. 495-525.
[11] Cfr.
tra gli altri, L. Alanen, “Rethinking Childhood”, Acta Sociologica,
31, (1988), 1, pp. 53-67; A. James, C. Jenks, A. Prout, Theorizing
Childhood, Oxford, Polity Press, 1998; J. Qvortrup, Childhood
in Europe: A New Field of Social Research, in L. Chisholm, P.
Buchner, H. Kruger, M. du Bois-Reymond (eds.), Growing Up in
Europe: Contemporary Horizons in Childhood and Youth Studies,
Berlin, DeGruyter, 1995.
[12] V. di
recente C. Baraldi, V. Iervese, “Observing children's capabilities as
agency”, in D. Stoecklin, J.-M. Bonvin (eds.), Children's Rights
and the Capability Approach. Challenges and Prospects,Dodrecht,
Springer, pp. 43-65 e sempre C. Baraldi, Le basi sociali dei
diritti dei bambini, in questo forum.
[13] P.
Ronfani, I diritti del minore. Cultura giuridica e rappresentazioni
sociali, Milano, Guerini, 1995.
[14]
H.L.A. Hart, “Are there any Natural Rights?”, Philosophical Review,
1955, pp. 175-191; trad. it. Esistono diritti naturali?, in V.
Frosini (a cura di), Contributi all’analisi del diritto,
Giuffrè, Milano 1964, pp. 81-104; Id., “Legal Rights” (1973), ora in
Id., Essays on Bentham. Studies in Jurisprudence and Political
Theory, Oxford, Clarendon Press, 1982, pp. 162-193.
[15] Così
M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton,
Princeton University Press,2001; trad. it., Una ragionevole
apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2003, a cui
peraltro è stato dedicato un forum di discussione, a cura di L.
Marchettoni, in questa rivista
(http://www.juragentium.org/forum/ignatief/index.htm).
[16]
H.L.A. Hart, “Definition and Theory in Jurisprudence”(1953), ora in
Id., Essays in Jurisprudence and Philosophy, Oxford, Clarendon
Press, 1983, pp. 21-48, p. 35.
[17] N.
MacCormick, “Children’s Rights: a Test-case for Theories of Rights”,
Archiv für Rechts and Sozialphilosophie, (1976), pp. 305-317.
[18] W.N.
Hohfeld, Fundamental Legal Conceptions as Applied in Judicial
Reasoning (1923), trad. it. a cura di M. G. Losano, Concetti
giuridici fondamentali, Torino, Einaudi, 1969.
[19] I.
Kant, Die Metaphysik der Sitten, Königsberg, Nicolovius, 1797;
trad. it. La metafisica dei costumi, Bari, Laterza, spec.
parte II, § 49, p. 146.
[20] J.S.
Mill, On Liberty, London, J.W. Parker & Son, 1859; trad.
it. Saggio sulla libertà, Milano, Il Saggiatore, 1983.
[21] Per
approfondimenti sul paternalismo giuridico, v. G. Maniaci, Contro
il paternalismo giuridico, Torino, Giappichelli, 2012.
[22] Per
approfondimenti rinvio a I. Fanlo Cortés, Bambini e diritti. Una
relazione problematica, Torino, Giappichelli, 2008.