2005

L'inalienabilità dei diritti minimi

Francesco Viola

Una delle questioni poste dalla "ragionevole" difesa dei diritti umani, sviluppata da Michael Ignatieff nel libro oggetto della presente discussione, è quella di una teoria minima dei diritti. I diritti umani sono compatibili con le più diverse culture e con le più diverse concezioni della vita buona solo se si fondano su una concezione "leggera" del giusto (1). Quest'esigenza è ben comprensibile specie se si guarda allo sviluppo vertiginoso dei diritti e alla conseguente paralisi provocata dall'aumento dei conflitti fra pretese contrapposte in modo spesso incomponibile. È, pertanto, necessaria una procedura deflazionistica, che d'altronde è già all'opera nel momento in cui si cercano d'individuare i diritti veramente "fondamentali" oppure si tenta di fissare una qualche gerarchia di priorità. La via battuta da Ignatieff è insieme pragmatica e radicale, atteggiamenti questi difficilmente compatibili: da una parte, egli si rifiuta di legare i diritti ad una determinata "dottrina comprensiva", sia essa laica o religiosa, ma, dall'altra, afferma perentoriamente che l'individualismo etico è l'unica base accettabile dei diritti, perché non contrasta con la diversità culturale (2). Questo mi sembra doppiamente contraddittorio, sia perché l'individualismo etico è a tutti gli effetti una dottrina comprensiva tra le altre, sia perché non è affatto compatibile con la diversità culturale, come d'altronde Danilo Zolo non manca di sottolineare molto opportunamente nella postfazione della traduzione italiana (3). Ed allora, ferma restando l'esigenza deflazionistica, il problema cruciale è quello dell'individuazione di questo nucleo minimo di diritti. Se non possiamo che essere d'accordo su una teoria minima, dobbiamo però chiederci cosa è veramente indispensabile salvare fra tutti i diritti che si affollano nel panorama internazionale. Diritti minimi sì, ma sino a che punto? È anche evidente che la risposta a tale domanda condiziona a sua volta la questione dell'universalità dei diritti, perché, se non è possibile fissare nemmeno un nucleo minimo ed essenziale di diritti di tutti e per tutti, allora dovremmo optare per il particolarismo, cioè nella sostanza per l'abbandono del senso stesso della problematica dei diritti, così com'essa s'è configurata dalla modernità ai nostri giorni.

Quali sono i diritti che è assolutamente necessario riconoscere alle persone? Non posso qui certamente rispondere a tale domanda, ma posso soltanto cercare d'indicare alcune condizioni da rispettare per arrivare ad una risposta corretta. Dico subito che la condizione vetero-liberale, per cui il diritto fondamentale è quello di non essere danneggiati in qualche modo dall'azione altrui o ingiustificatamente limitati nell'esercizio della propria libertà di scelta, è necessaria, ma non è sufficiente. E non lo è non solo e non tanto perché esclude drasticamente dai diritti minimi le libertà positive e alcuni beni elementari che devono essere assicurati ad ogni essere umano, come il diritto al cibo, al vestiario, all'abitazione, che vengono chiamati subsistence rights (4), ma soprattutto perché di per sé non dà conto di una caratteristica che i diritti debbono avere (anche) quando sono veramente "minimi", cioè la loro inalienabilità. Perché mai la libertà negativa è senza dubbio un diritto minimo necessario? Se diciamo che la sua giustificazione riposa nell'individualismo etico, si sottolinea il valore dell'autonomia e della sovranità su noi stessi e sui nostri progetti di vita. Ma questa giustificazione è palesemente autodistruttiva, poiché potremmo legittimamente voler esercitare la nostra libertà di scelta rinunciando ad essa. Potremmo preferire la schiavitù, l'essere torturati o, più modestamente, essere rassicurati da un regime paternalistico. Cosa c'è di male nell'essere masochisti? Quindi, per sostenere coerentemente che la libertà negativa è un diritto necessario (o addirittura l'unico diritto necessario) bisogna ritenerlo "inalienabile", cioè fornito di una qualità che non può essere spiegata dalla stessa libertà negativa, ma che anzi rappresenta un limite positivo ad essa.

Basta dare uno sguardo alla storia dei diritti umani per rendersi conto che essi vengono, in senso stretto, alla luce solo quando la libertà, o altri beni umani, è ritenuta inalienabile. Proprio questa caratteristica fa la differenza fra i diritti soggettivi di tipo patrimoniale e quelli legati al rispetto della persona in quanto tale.

Grozio, che era fortemente condizionato da una concezione patrimonialistica dei diritti, coerentemente arrivava alla conclusione che tutti i diritti sono in linea di principio rinunciabili. Infatti disporre della proprietà di una cosa vuol dire spogliarsi della propria libertà di usarla (alienatio particulae nostrae libertatis) (5). Se questo è il modello di ogni diritto, allora tutti i diritti sono alienabili. Di conseguenza non v'è niente che spetti ad un uomo a cui egli stesso non possa rinunciarvi, o essere costretto a farlo in nome di esigenze superiori di ordine pubblico. Ciò conduceva Grozio ad affermare che lo stesso diritto di resistenza deve essere limitato, aprendo la strada verso l'assorbimento (parziale o totale) della libertà individuale nel potere pubblico.

Con maggiore sensibilità per i diritti, Hobbes ha invece sostenuto che ve n'è uno a cui non si può mai essere costretti a rinunciare. Questo diritto non è quello di libertà, ma quello della vita, che però non si può in senso proprio considerare un diritto, ma una necessità naturale. È noto che il diritto naturale per Hobbes è strumentale, perché è inteso come la libertà (o il potere) di fare qualunque cosa si reputi necessaria per l'autoconservazione. Si può, dunque, essere costretti a rinunciare a questa libertà di scelta, trasferendola ad un sovrano e sottomettendosi a questi, per raggiungere il fine della conservazione. Anche qui, pertanto, la libertà è alienabile.

C'è da chiedersi se sia più liberale chi non pone alcun limite, se non quello del danno ad altri, all'esercizio della libertà fino al punto da ammettere la libera rinuncia alla libertà, oppure chi pone dei confini interni al suo uso. Tuttavia per percorrere questa seconda via occorre avere una concezione minima del bene umano più ampia di quella rappresentata dalla logica interna della libertà negativa. D'altronde, se non possiamo spogliarci della stessa libertà, non è perché siamo liberi, ma perché la libertà stessa è un bene della persona umana. Non siamo liberi nei confronti della stessa libertà negativa, cioè non possiamo spogliarci di essa in modo irreversibile senza violare la dignità della persona umana in noi stessi. Questo intendo dire quando affermo che anche la libertà negativa è un bene come la vita e il corpo. Nell'ottica del bene dobbiamo ammettere che il paniere dei beni umani essenziali è ben più ricco di quello abitato soltanto dalla libertà negativa.

Di conseguenza la ricerca dei diritti minimi conduce inevitabilmente ad optare per una qualche concezione del bene. Ciò rende inaccettabile la pur suggestiva tesi che Veca difende nell'altra postfazione al testo di Ignatieff, cioè quella della "priorità del male" (6), tesi questa che consiste in un ulteriore indebolimento del giusto rawlsiano. La formula tradizionale del principio del bene era così espressa: "si deve fare il bene ed evitare il male". Evitare il male appartiene al principio generale del bene in modo inseparabile e ciò è ben comprensibile, perché non potremmo evitare il male se non sapessimo quali sono i beni propri della persona umana. Se riducessimo la formula al "malum est vitandum", dovremmo astenerci dal fare solo ciò che gli altri credono sia per loro un danno o uno svantaggio. Se la libertà negativa è un bene per noi, potrebbe non esserlo per loro. Ancora una volta, cosa c'è di male nel masochismo? Ma, se la libertà negativa è un bene universale (per noi e per loro), allora si deve riaffermare la priorità del bene.

Per questo il primo teorico dei diritti umani nel senso moderno è a rigore Locke, che infatti sostiene l'inalienabilità e l'irrinunciabilità dei diritti naturali in modo ben diverso di come aveva fatto Hobbes a proposito dell'autoconservazione. Locke può sostenere questa tesi, sfuggendo alla logica autodistruttiva della libertà, perché ha fondato i diritti naturali sulla legge naturale. Questa legge non cessa di essere obbligatoria nella società politica, anzi diventa in questa ancor più coattiva. Voglio dire che l'attribuzione all'essere umano di beni essenziali, per quanto minimi, richiede necessariamente un principio di ragione che li giustifica, rendendoli inalienabili. È possibile sostenere l'inalienabilità dei diritti naturali solo se essi derivano da una legge naturale, cioè da una qualche concezione dei beni che sono propri della persona in quanto tale (7). Solo in virtù di una legge morale indipendente i diritti naturali possono essere difesi dalle stesse debolezze e fragilità dell'individuo che li possiede, nonché dall'arbitrio del potere politico.

So bene quanto questo radicamento dei diritti nella legge naturale, ancora ben presente in Locke, sia stato abbandonato negli sviluppi successivi. Già Tom Paine, dovendo contrastare le tesi di Burke, non negherà che in linea di principio la libertà sia totalmente alienabile, ma userà l'argomento che non possiamo essere vincolati dagli atti dei nostri antenati e che ogni generazione deve prendere le proprie decisioni sulle sorti della propria libertà (8). E tuttavia affermare - come oggi è usuale - l'inalienabilità dei diritti senza far ricorso ad una legge naturale non è alla fin dei conti conducente al fine di sottrarre la libertà umana alla logica dell'autonegazione. D'altronde questo problema oggi riemerge sotto altre vesti a proposito della soluzione dei conflitti dei diritti, che abbisogna di criteri e di regole della ragione, a meno di non affidarla alla logica del potere o alla strategia dello svincolamento (avoidance), che alla fin dei conti favorisce ancor di più i forti e penalizza ancor di più i deboli.

L'obiezione più rilevante che è spesso sollevata nei confronti di queste considerazioni è - com'è noto - quella dell'attuale pluralismo delle dottrine e delle culture. Affermare la necessità della ricerca di una legge della ragione è visto come indizio d'intolleranza e di imperialismo culturale. Al contrario, credo che il pluralismo attuale postuli questa ricerca e che questo sia il solo modo di governarlo se non ci si vuole affidare alla volontà di potenza o al mero relativismo. Si può evitare l'obiezione semplicemente riconoscendo che questa supposta legge naturale non è qualcosa di prefabbricato o di imposto da una chiesa, da una dottrina o da un'ideologica, ma qualcosa da cercare insieme nel dialogo interculturale e nella pratica della deliberazione democratica. Sarebbe ben strano che l'invito ad una maggiore fiducia nella ragione venisse dall'antica tradizione della legge naturale e non già da coloro che riconoscono le loro radici nella cultura dell'Illuminismo.


Note

1. Cfr. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani [2001], trad.it. di S. D'Alessandro, Feltrinelli, Milano, 2003, p.58.

2. Ivi, p.70.

3. Cfr. D. Zolo, Fondamentalismo umanitario, in Ignatieff, op. cit., pp. 135-157.

4. Cfr., ad esempio, H. Shue, Basic Rights: Subsistence, Affluence, and U.S.Foreign Policy, Princeton U.P., Princeton, 1980, cap.I.

5. Cfr. F. Viola e G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 83 e ss.

6. Cfr. S. Veca, I diritti umani e la priorità del male, in Ignatieff, op.cit., pp. 101-134.

7. Per uno sviluppo di questa tesi rinvio al mio Dalla natura ai diritti. I luoghi dell'etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 276-284.

8. Cfr. T. Paine, Rights of Man [1791], Penguin, New York, 1984, p.41 e il commento di R.Tuck, The International Bill of Rights, in AA.VV., Philosophical Foundation of Human Rights, Unesco, Paris, 1986, p.76.