2005

Diritti umani e diritto a sbagliare
(La cultura occidentale è compatibile con i diritti umani?)

Bruno Celano

"I diritti imprescrittibili del lettore.
1) Il diritto di non leggere.
2) Il diritto di saltare le pagine.
3) Il diritto di non finire un libro.
4) Il diritto di rileggere.
5) Il diritto di leggere qualsiasi cosa.
6) Il diritto al bovarismo.
7) Il diritto di leggere ovunque.
8) Il diritto di spizzicare.
9) Il diritto di leggere a voce alta.
10) Il diritto di tacere.
Mi fermerò arbitrariamente al numero 10, in primo luogo perché fa cifra tonda e poi perché è il numero sacro dei famosi Comandamenti ed è bello, per una volta, vederlo servire a una lista di autorizzazioni."

(D. Pennac, Come un romanzo, 1992.)

L'insieme dei discorsi, degli argomenti, delle perorazioni in termini di diritti umani - la 'retorica' dei diritti umani - non è espressione di un'ideologia unitaria, tutta d'un pezzo. In essa, piuttosto, si intrecciano una pluralità di fili, espressione di valori, fini, ideali diversi. Questi valori, fini, ideali - e, dunque, i diversi fili di questo intreccio - sono (come rilevano Ignatieff e Zolo (1); e come rilevato, in precedenza, da N. Bobbio) in tensione, spesso in conflitto, fra loro, e spingono sovente verso conclusioni normative diverse e confliggenti (2). La retorica dei diritti umani è più un linguaggio, che l'espressione di una teoria: un modo di concettualizzare e formulare rivendicazioni, alternative e disaccordi, e di argomentare circa le diverse ipotesi di risoluzione (come rilevato, nuovamente, da Ignatieff e dai suoi commentatori) (3).

Da ciò segue che il problema della compatibilità o meno fra retorica dei diritti umani e culture non occidentali si configuri in modo diverso relativamente a ciascuna di queste diverse componenti. E che un problema analogo si ponga riguardo alla compatibilità o meno fra (componenti diverse della) retorica dei diritti e componenti diverse della cosiddetta 'cultura occidentale'. La 'cultura occidentale' non è un blocco unitario. Anch'essa è, al proprio interno, conflittuale. Ritenere che il problema capitale sia quello del rapporto, o della compatibilità, fra retorica dei diritti, espressione di una presunta 'cultura occidentale' in sé unitaria, da un lato, e culture non occidentali, d'altro lato, tende a occultare, ingannevolmente, questo punto. Occorre chiedersi se, in quale misura, sotto quali aspetti, limitatamente a quali segmenti, e così via, una cultura dei diritti umani, nelle sue diverse (e confliggenti) componenti, sia o no compatibile con la (con componenti particolari della) cultura occidentale. La risposta non è sempre affermativa. E' segno di miopia ritenere che esista una 'cultura occidentale' che, a differenza delle altre, sarebbe integralmente compatibile con i diritti umani.

Mi soffermerò qui su un aspetto particolare di questo conflitto. Non v'è dubbio, naturalmente, che la componente dell'individualismo liberale svolga, nella retorica dei diritti umani, un ruolo centrale, e sia uno degli elementi che più facilmente entrano in conflitto con alcune (o con alcuni aspetti di) culture non occidentali. Ma si tratta, mi pare, di un elemento che entra in conflitto anche con importanti (storicamente radicate, e socialmente diffuse) componenti della cultura occidentale. In particolare, c'è un aspetto dell'idea individualistico-liberale - uno dei nuclei normativi costitutivi del filone individualistico della retorica dei diritti umani - che risulta decisamente ostico sia a (componenti diverse di) culture non occidentali, sia a componenti significative della 'cultura occidentale'.

Si tratta del diritto a commettere errori, e in generale del diritto a sbagliare, a fare ciò che è sbagliato, ciò che non è lecito, o buono (con un'icastica espressione inglese, intraducibile, 'a right to do wrong'). La componente individualistico-liberale della retorica dei diritti umani si sostanzia nella rivendicazione della libertà negativa (nella quale Ignatieff vede il senso ultimo, il fondamento unitario, il point and purpose dei diritti umani nel loro complesso; tesi, questa, indubbiamente criticabile) (4), e nell'enfasi posta sul perseguimento di interessi e benessere individuali. Ma non si tratta soltanto di questo - o meglio, questa formulazione dell'idea individualistico-liberale lascia in ombra un elemento essenziale (strettamente connesso, ovviamente, ai due precedenti: la rivendicazione della libertà negativa, e l'enfasi sul perseguimento di interessi e benessere individuali). Questo elemento - che, ripeto, non può che riuscire ostico, indigeribile, snervante alle culture non individualistiche (occidentali e non) - è l'idea che, in molti casi, avere un diritto (uno fra i diritti fondamentali, quei diritti che si assume appartengano a ciascun essere umano, come tale) implichi avere il diritto a commettere errori, o a fare ciò che è sbagliato.

Questa idea - l'idea di a right to do wrong, per l'appunto - è, palesemente, problematica. Anzitutto, è anch'essa, al suo interno, polimorfa, come vedremo fra breve. E poi, solleva serie difficoltà concettuali e normative. L'idea di a right to do wrong appare, anzitutto, concettualmente mal formata ('Avere il diritto di fare A' sembra si possa argomentare, implica logicamente che fare A sia permesso, lecito) (5). Se intesa alla lettera, sembra presupporre, inevitabilmente, un criterio oggettivo di ciò che è giusto o sbagliato - il che, però, appare incompatibile con la possibilità di un diritto a fare ciò che è sbagliato. E se, nell'intento di sfuggire a questa difficoltà, si intende a right to do wrong come il diritto a fare ciò che è ritenuto (da alcuni, da molti, dai più) sbagliato, la coerenza viene recuperata indebolendo l'idea di partenza. E la nozione sembra presupporre, questa volta, una forma di scetticismo, o agnosticismo.

Non discuterò queste difficoltà. Mi limiterò a passare in rassegna i principali aspetti dell'idea di a right to do wrong - alcuni fra i diversi sensi, o i diversi punti di vista, dai quali può apparire sensato parlare di un diritto a commettere errori, o a fare ciò che è sbagliato. Ciascuno di questi nuclei concettuali suscita problemi concettuali e normativi particolari; e poggia su giustificazioni diverse. Il mio sarà, ripeto, soltanto un inventario.

(1) Libertà di coscienza, libertà di pensiero e di fede religiosa; libertà di manifestazione del pensiero, libertà di culto - ovvero, il diritto di formarsi le proprie credenze e opinioni, e di esprimerle senza essere soggetto a impedimenti. Dunque, il 'diritto a sbagliare' come diritto a commettere errori: il diritto di formarsi ed esprimere liberamente credenze e opinioni false, o erronee (6).

Il punto può essere formulato in termini rawlsiani. Ciascun cittadino ha, assumiamo, la capacità di formarsi, rivedere e perseguire razionalmente una determinata concezione del bene ("a capacity to form, to revise, and rationally to pursue a determinate conception of the good"). Questa capacità ha anzitutto, per ciascuno, il valore di un mezzo, in vista del proprio benessere (mediante il suo esercizio, diviene possibile perseguire efficacemente il proprio benessere). Ma "la libertà di coscienza, e dunque la libertà di cadere in errore e di sbagliare, è una delle condizioni sociali necessarie ai fini dello sviluppo e dell'esercizio di questo potere". Dunque, le parti nella posizione originaria (la situazione nella quale, assumiamo, vengono scelti i principi di giustizia) "hanno una ragione per accettare principi che garantiscano tale libertà" (7).

L'esercizio della capacità di formarsi, rivedere e perseguire razionalmente una determinata concezione del bene, in secondo luogo, può esso stesso fare parte di una particolare concezione del bene, imperniata sull'esigenza di fare delle convinzioni, credenze, opinioni che professiamo, dei desideri e degli impulsi che abbiamo, qualcosa di autenticamente nostro, mediante il libero esercizio dei nostri poteri di deliberazione: l'esigenza che un individuo affermi, faccia proprie, le sue opinioni e le sue preferenze, sulla base di ragioni, come frutto dell'esercizio della sua capacità di formarsi, rivedere e perseguire razionalmente una certa concezione del bene - sulla base, insomma, dell'esercizio della sua propria intelligenza (idea, questa, presente in Kant, per il quale costituisce il nucleo dell'Illuminismo, e in Mill) (8). Ebbene, argomenta Rawls, "affinché questa concezione del bene sia possibile deve esserci consentito (...) di cadere in errore e di sbagliare (entro i limiti stabiliti dalle libertà fondamentali)" (9).

(2) Il riconoscimento del diritto a sbagliare come condizione di possibilità di una democrazia pluralista, relativamente giusta e stabile.

Si può plausibilmente argomentare che, affinché una democrazia pluralista relativamente giusta venga ad esistenza, e acquisisca una certa stabilità, è necessario che ciascuna delle ideologie (visioni del mondo, concezioni del bene, dottrine religiose, morali, filosofiche) in essa rappresentate, o comunque la maggior parte di esse, riconosca ai cittadini il diritto a sbagliare, a commettere errori, a fare ciò che (alla luce dell'ideologia in questione) è sbagliato (ovviamente, entro certi limiti, da determinare). Il punto può, ancora una volta, essere formulato in termini rawlsiani.

L'interrogativo di fondo al quale la teoria di Rawls intende rispondere è: "come possiamo affermare una dottrina comprensiva come vera, o ragionevole, e al tempo stesso ritenere che non sarebbe ragionevole utilizzare il potere dello stato per esigere che gli altri la accettino, o la loro ottemperanza alle leggi particolari che essa sancirebbe?" (10). Ovvero: possiamo coerentemente ammettere a right to do wrong? Dalla possibilità di una risposta affermativa a questa domanda dipende la possibilità di una democrazia pluralista, giusta e stabile.

Perché? Perché, sostiene Rawls, la cultura politica di una democrazia costituzionale è caratterizzata dal "fatto del pluralismo ragionevole". Lo sviluppo di una pluralità di visioni del mondo, di dottrine religiose, morali, filosofiche, di concezioni della vita buona, diverse e confliggenti, e tuttavia tutte ragionevoli (accanto, naturalmente, a quelle irragionevoli) costituisce il risultato naturale dell'esercizio della ragione umana in condizioni di libertà. Il riconoscimento di questo dato di fatto - il riconoscimento degli "oneri del giudizio" (burdens of judgment), che ne costituiscono la fonte (11) - è uno dei tratti che definiscono, nella teoria di Rawls, la nozione di ragionevolezza (12); e conduce, in persone ragionevoli (persone disponibili a proporre e seguire, purché anche gli altri lo facciano, termini equi di cooperazione sociale, dei quali ci si può ragionevolmente aspettare che anche gli altri ragionevolmente li accettino), alla tolleranza di dottrine comprensive (ragionevoli) diverse dalla propria (13). In breve: "persone ragionevoli si rendono conto del fatto che gli oneri del giudizio pongono dei limiti a ciò che può essere ragionevolmente giustificato agli occhi degli altri; perciò, accettano una qualche forma di libertà di coscienza e di pensiero. Sarebbe irragionevole da parte nostra utilizzare il potere politico (...) per reprimere dottrine comprensive che non sono irragionevoli" (14).

Il liberalismo politico, dunque, esige che si conceda la possibilità di un diritto a sbagliare. Dato un "consenso per intersezione" (overlapping consensus) su una concezione (politica) liberale della giustizia, ciascuna delle dottrine comprensive (ragionevoli) che ne fanno parte concede tale possibilità; ciò costituisce, per l'appunto, condizione necessaria della sua ragionevolezza. La replica del liberalismo politico, e di ciascuna delle dottrine che si trovano nel consenso, nei confronti dell'assunto extra ecclesiam nulla salus è: questo assunto è (non necessariamente falso, ma) irragionevole (15).

Insomma: "per l'idea di liberalismo politico è vitale che noi possiamo, in modo perfettamente coerente, ritenere che sarebbe irragionevole da parte nostra utilizzare il potere politico al fine di far valere la nostra dottrina comprensiva - dottrina che, naturalmente, dobbiamo affermare come vera, o come ragionevole" (16).

(3) Il diritto a non discutere più (a non fornire ulteriori ragioni per le proprie decisioni, scelte, atti); ovvero, il diritto a essere lasciato in pace.

Ciascuno di noi è spesso soggetto alla richiesta di fornire ragioni delle (giustificare le) proprie scelte, o le proprie azioni. L'idea di un 'diritto a sbagliare' come 'diritto a non fornire (più) ragioni' poggia sull'assunto che la pressione in tal senso possa diventare un onere iniquo, lesivo dell'autonomia, dell'integrità e della riservatezza dell'individuo. Le ragioni per le quali può accadere che, in certi contesti, relativamente a certe decisioni o azioni, non si sia disposti a fornire ragioni delle proprie decisioni, o azioni, sono di molti tipi. Questa versione dell'idea di a right to do wrong assume che, in certi casi, tali ragioni siano condivisibili. e siano eticamente significative (se non decisive). Oltre un certo limite, in certi contesti, ciascuno di noi ha diritto a non spiegare perché mai abbia deciso di agire in un certo modo - ha diritto a non subire la pressione di richieste di giustificazione.

(4) Il diritto a fare ciò che, pur essendo lecito, non è buono. Questo quarto modo di costruire l'idea del diritto a fare ciò che è sbagliato si fonda sulla possibilità di tracciare una distinzione fra ciò che è lecito, da un lato, e ciò che (entro l'ambito del lecito) è più o meno buono (o anche cattivo?), d'altro lato. Non tutto ciò che è lecito, si assume, è buono, anche se tutto ciò che è buono è lecito (17).

(5) Il diritto a fare ciò che non è permesso (ciò che non è lecito): ciò che è davvero sbagliato.

Questa volta l'espressione 'a right to do wrong' è intesa alla lettera. L'idea è che, in alcuni casi, avere un diritto morale (uno dei diritti abitualmente reputati fondamentali; ovviamente, la tesi si applica prevalentemente, se non esclusivamente, a diritti di libertà) implichi avere il diritto morale a fare qualcosa di non permesso - di wrong, in senso proprio (18).

Questo modo di costruire la nozione di a right to do wrong è, palesemente, quello che suscita le più spinose difficoltà concettuali. L'avere diritto a fare A non presuppone forse che A sia permesso? Ma, d'altro lato, ciò sembrerebbe implicare che non si possa avere un diritto se non a fare ciò che è indifferente (o, addirittura, ciò che è obbligatorio) - il che è controintuitivo (19). Lasciando da parte questa difficoltà di fondo, alcuni aspetti di questa nozione meritano di essere messi in luce.

  1. Anzitutto, l'analisi della nozione di a right to do wrong, così costruita, consente di portare alla luce un elemento di importanza cruciale: 'Vietato fare A (che fare A sia wrong) non implica, di per sé, 'Permesso impedire di fare A' (20). E' precisamente in questo scarto che si apre la possibilità di un diritto a fare ciò che è davvero sbagliato (21).
  2. Sussiste una stretta connessione fra l'ammissione della possibilità di a right to do wrong (nel senso in esame) e il riconoscimento del valore, dell'importanza, della scelta individuale (in certi ambiti, cruciali ai fini della "costituzione di sé", o della propria "integrità") (22).
  3. Il problema della possibilità di a right to do wrong è strettamente connesso alla questione della possibilità di conflitti fra diritti (diritti fondamentali, o diritti umani). Se i diritti confliggono, sembra inevitabile (se non ovvio) che in taluni casi vi sia (almeno prima facie) un diritto a compiere azioni che costituiscono violazione di diritti - e sono, in questo senso, dei wrongs (23).

In queste diverse versioni, l'idea di un diritto a commettere errori, a fare ciò che è sbagliato, confligge con una visione dei diritti umani imperniata sulla preservazione della natura (fisica e morale) dei titolari. Ma non v'è dubbio, ritengo, che l'idea di a right to do wrong sia una componente centrale della (componente individualistico-liberale della) variegata, in sé conflittuale e spesso indeterminata o incoerente, retorica dei diritti umani. Rinunciare a questa idea (per quanto possa restare latente, per quanto ci si possa sforzare di renderla marginale) significherebbe distorcere irrimediabilmente il tono, il registro - il sound, direi - della retorica dei diritti umani. E ciò spiega perché mai parlare, ad es., di un 'diritto a essere guidato, con mano amorevole ma ferma, sulla retta via', o del 'diritto a crescere, e vivere, in un ambiente che favorisca lo sviluppo di credenze e disposizioni eticamente e religiosamente sane, stroncando sul nascere ogni germe di errore, vizio o empietà', sarebbe, se non un vero e proprio errore concettuale, certamente un po' ridicolo (24).


Note

1. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 2001, pp. 20-2, 84, 94; D. Zolo, Fondamentalismo umanitario, in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 138-41, 145-6.

2. B. Celano, Come deve essere la disciplina costituzionale dei diritti?, in S. Pozzolo (a cura di), La legge e i diritti, Giappichelli, Torino 2002.

3. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., pp. 20-2, 73, 84, 94-5. Si vedano anche A. Gutmann Introduction a M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit.., p. xxiii; D. F. Orentlicher, Relativism and Religion, ivi, pp. 151-3; M. Ignatieff, Dignity and Agency, ivi, pp. 170-1.

4. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., pp. 4, 5, 18, 55, 57, 66-8, 69, 75; Id., Dignity and Agency, cit., pp. 164-6; fra i critici, Gutmann, Introduction, cit., pp. ix, xi-xii.

5. J. Mackie, Can There Be a Right-Based Moral Theory? (1978), in J. Waldron (ed.), Theories of Rights, Oxford University Press, Oxford 1984.

6. Il locus classicus è Mill, On Liberty (1859), cap. II, Of the Liberty of Thought and Discussion.

7. J. Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York 1993, 1996, pp. 312-3.

8. I Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? (1784); Mill, On Liberty (1859), cap. III, Of Individuality as One of the Elements of Well-Being.

9. Rawls, Political Liberalism, cit., pp. 313-4.

10. J. Rawls, Justice as Fairness. A Restatement, edited by Erin Kelly, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001, p. 189; cfr. anche Id., Political Liberalism, cit., p. 139.

11. Rawls, Political Liberalism, cit., pp. 55-8.

12. Rawls, Political Liberalism, cit., p. 54.

13. Rawls, Political Liberalism, cit., pp. 58-61.

14. Rawls, Political Liberalism, cit., p. 61. (Questa linea di argomentazione, puntualizza Rawls, non presuppone, né implica, alcuna forma di scetticismo; ivi pp. 62-3.) Sottolineo che l'argomentazione rawlsiana riassunta in questo capoverso, e ripresa nel capoverso successivo, fa leva su una specifica nozione di ragionevolezza, che non cercherò di definire esaurientemente in questa sede.

15. Rawls, Political Liberalism, cit., p. 138; Id. Justice as Fairness. A Restatement, cit., pp. 183-4.

16. "It is vital to the idea of political liberalism that we may with perfect consistency hold that it would be unreasonable to use political power to enforce our own comprehensive view, which we must, of course, affirm as either reasonable or true" (Rawls, Political Liberalism, cit., p. 138; cfr. anche Id. Justice as Fairness. A Restatement, cit., p. 184). L'idea potrebbe essere ulteriormente sviluppata nei termini della nozione, anch'essa rawlsiana, di ragione pubblica. (Questo sviluppo lega strettamente la nozione di a right to do wrong discussa nel testo al 'diritto a non discutere più', sul quale ci soffermeremo fra breve.)

17. Devo a Francesco Viola l'idea di costruire in questo modo la nozione di a right to do wrong.

18. Questa tesi è stata formulata, e difesa, da J. Waldron, A Right to Do Wrong (1981), in Waldron, Liberal Rights, Cambridge University Press, Cambridge 1993.

19. Waldron, op. cit., pp. 82-3.

20. Waldron, op. cit., pp. 73-4.

21. J. Waldron, Galston on Rights, "Ethics", 93 (1983), p. 325.

22. Nella ricostruzione di Waldron, il point dei diritti (di libertà) è la protezione della scelta individuale in certe sfere di attività, reputate di particolare importanza ai fini della self-constitution dell'individuo, e dunque della sua "integrità" (tali scelte riguardano, in ultima istanza, che genere di persona essere; Waldron, A Right to Do Wrong, cit., pp. 79, 80-1, 82, 84). (Il punto è chiarito estesamente in Waldron, Galston On Rights, cit., p. 326: la possibilità di un right to do wrong "is based on a concern, arising out of the value of autonomy in an individual's self-constitution, that moral values should affect people's lives in some ways and not in others [ossia, non per via di coercizione, o di inganno o condizionamento]".) Questa ricostruzione, puntualizza Waldron (A Right to Do Wrong, cit., p. 432, n. 13), non implica l'adesione alla (versione hartiana della) cosiddetta Choice Theory dei diritti. (Non implica, infatti, che il titolare del diritto possa scegliere se colui che è soggetto all'obbligo correlativo debba adempiere o no.). Si tratta, piuttosto, di una forma peculiare di Interest Theory: l'interesse protetto è, nel caso dei diritti in oggetto, l'interesse alla libertà di scegliere (in certe sfere, particolarmente significative, della propria vita). Sulla contrapposizione fra Choice Theory e Interest Theory dei diritti cfr. B. Celano I diritti nella jurisprudenceanglosassone contemporanea. Da Hart a Raz, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 2001. Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, Torino 2002.

23. Cfr. Waldron, A Right to Do Wrong, cit., p. 68.

24. Sono grato a F. Biondo per avermi suggerito la centralità dell'idea di un diritto a sbagliare.