2005

Il fondamentalismo pragmatico: Michael Ignatieff e i diritti umani

Luca Baccelli

Gli Stati Uniti sono un impero. Si tratta di un impero di tipo nuovo, di una "nuova scoperta negli annali della scienza politica", che si ispira ai principi del libero mercato, dei diritti umani e della democrazia. Ma, per quanto significative siano le novità e le specificità dell'egemonia globale degli Stati Uniti, essi, come tutti gli imperi del passato, hanno il loro 'fardello' di impegni e responsabilità. Fra questi rientra la garanzia "della pace, della stabilità, della democratizzazione e dell'approvvigionamento di petrolio" nel Medio Oriente, dall'Egitto all'Afghanistan. Gli Stati Uniti, insomma, si trovano a svolgere quel ruolo che un tempo era garantito dall'Impero ottomano e poi dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Ciò spiega perché devono intervenire militarmente in Iraq, per scongiurare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, prevenire l'azione dei network terroristici e rovesciare un regime tirannico e terrorista.

Queste tesi, contenute in un articolo dal significativo titolo "The Burden" (1), non sono state espresse da uno di quegli intellettuali - cristiani fondamentalisti o neoconservatori - che affollano i think tank dell'amministrazione Bush. Il loro autore è un intellettuale 'progressista' molto noto, già militante contro la guerra del Vietnam e oggi critico della politica sociale repubblicana, il direttore del Carr Center of Human Rights Policy di Harvard: Michael Ignatieff. Con la sua adesione convinta all'intervento angloamericano in Iraq, Ignatieff si differenzia anche da una figura come Michael Walzer, il teorico della supreme emergency come condizione per la guerra 'giusta', favorevole agli interventi guidati dagli Stati Uniti contro l'Iraq, nel 1991, e contro la Repubblica Jugoslava, nel 1999. Walzer, che pure aveva sottoscritto all'indomani dell'11 settembre il documento in favore dei 'valori americani' e della guerra globale al terrorismo (2), non ha potuto non prendere le distanze, pur con molte ambivalenze, dalla aggressione voluta dall'amministrazione Bush (3).

Ignatieff ricorda che gli Stati Uniti sono una repubblica nata dalla rivolta contro un impero. E accenna ai rischi per la libertà e il rule of law connessi alla politica imperiale, pur mostrando una certa tendenza all'eufemismo, come quando definisce la condizione dei detenuti nell'inferno di Guantanamo un legal limbo. Tuttavia afferma con forza che, per quanto riluttante, la repubblica deve impegnarsi nell'operazione imperiale irachena: l'11 settembre ha dimostrato che la repubblica non può garantire la pace interna in assenza di una politica estera imperiale. Su questa linea, Ignatieff si riferisce senza prenderne in alcun modo le distanze, al documento The National Security Strategy of the United States (4), pubblicato dalla Casa Bianca all'indomani dell'11 settembre, nel quale è teorizzata la supremazia sovrana degli Stati Uniti e la dottrina della 'controproliferazione' e non esita a far suo l'argomento relativo al rischio che l'Iraq possieda armi di distruzione di massa. Ma questo argomento scivola verso quello della liberalizzazione e democratizzazione dell'Iraq e della garanzia dei diritti umani: di fronte ai rogue states le politiche di containment e le minacce di rappresaglia sono insufficienti. Nel caso dell'Iraq per scongiurare la minaccia è necessario un cambiamento di regime. E d'altra parte gli Stati hanno il 'diritto' di usare la forza per difendere i diritti umani: per quanto "spiacevole per quelli che credono nei diritti umani", in determinate situazioni "la guerra è l'unica medicina per i regimi che vivono di terrore" (5).

Dato il suo ruolo imperiale, dunque, l'America non può non assumersi rischi enormi, imperiali. Ma l'assunzione di questo 'fardello' comporta anche il potere di ripartire i compiti ("L'America conduce il combattimento, i francesi, i britannici e i tedeschi forniscono le pattuglie di polizia per le zone di confine, gli olandesi, gli svizzeri e gli scandinavi provvedono gli aiuti umanitari") e l'esenzione da ulteriori 'fardelli' come quelli rappresentati dalla Corte penale internazionale o dal Protocollo di Kyoto: "gli alleati dell'America vogliono un ordine multilaterale" che ne bilanci il potere, ma "l'impero non può essere legato a terra come Gulliver da mille fili giuridici" (6).

La legittimazione della politica imperiale degli Stati Uniti da parte di Ignatieff rimanda dunque direttamente alle sue tesi teoriche sui diritti umani, e in particolare alle Tanner Lectures on Human Rights del 2000, recentemente tradotte in italiano. Come è noto, negli ultimi decenni il linguaggio dei diritti, e in particolare dei diritti umani, è diventato sempre più diffuso e pervasivo. Viene considerato da molti come l'unico codice normativo di carattere universale nell'epoca del pluralismo delle morali, delle culture, delle religioni e degli ordinamenti giuridici. Ignatieff cita Elie Wiesel, che nel cinquantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani la ha definita la "religione secolare planetaria", e Kofi Annan che ha parlato di "unità di misura del progresso umano" (p. 55). Ignatieff colloca la diffusione del linguaggio dei diritti nel contesto di quelle che definisce "la rivoluzione del diritto" (il riconoscimento degli individui, con i loro diritti, come soggetti dell'ordinamento giuridico internazionale), "la rivoluzione del patrocinio" (la formazione e la diffusione di organizzazioni non governative che denunciano la violazione dei diritti umani), "la rivoluzione dell'azione coercitiva" (la creazione di strumenti giuridici per punire i violatori delle convenzioni internazionali sui diritti umani, a cominciare dai tribunali dell'Aja e di Arusha).

Dopo il 1991 - dopo la 'prima' Guerra del Golfo per il Kuwait e dopo il successivo intervento angloamericano in Iraq presentato come 'azione umanitaria' in favore dei curdi e degli sciiti - il dibattito sul fondamento dei diritti umani, sulla loro 'universalità' e sulle possibilità di tutelarli e garantirli, si è intrecciato con quello relativo alle trasformazioni dei rapporti internazionali conseguenti alla fine della guerra fredda e con quello sulle conseguenze politiche, culturali e giuridiche della globalizzazione economica. Alcuni autorevoli intellettuali - come lo stesso Bobbio e Jürgen Habermas - hanno visto in questi interventi una prima, incompleta dimostrazione di come la comunità internazionale possa mobilitarsi per punire le violazioni del diritto internazionale e per tutelare i diritti umani, superando il principio del non intervento negli affari interni di una paese pur previsto dalla Carta delle Nazioni Unite. Habermas, in particolare, ha sostenuto che solo attraverso un superamento dello 'stato di natura' pregiuriudico fra gli Stati sovrani e la realizzazione di un ordinamento cosmopolitico sarà possibile conferire ai diritti umani uno status analogo a quello che diritti fondamentali godono negli ordinamenti giuridici interni e perseguire chi li viola con le garanzie tipiche dello Stato di diritto. I diritti umani, secondo Habermas, sono universali in quanto fanno riferimento ad una fondazione morale sulla quale convergono le grandi religioni. Ma considerarli in modo immediato come diritti morali aprirebbe la via ad un 'fondamentalismo dei diritti umani' (7).

Argomentazioni dei questo tipo, che rimandano alla fondazione teorica dei diritti e della democrazia elaborata in Faktizität und Geltung, non hanno impedito ad Habermas di schierarsi in favore dell'intervento della Nato contro la Repubblica Jugoslava nel 1999. L'evidente violazione del diritto internazionale - sia sul piano dello ius ad bellum che su quello dello ius in bello è stata giustificata attraverso un diretto riferimento all'esigenza di impedire la violazione dei diritti umani degli albanesi kosovari. Nello stesso periodo, Antonio Cassese aveva preferito fare riferimento ad un processo di modificazione consuetudinaria del diritto internazionale che sarebbe stato in corso ("ex iniuria oritur ius"), mentre Norberto Bobbio era arrivato ad attribuire agli Stati Uniti il ruolo hegeliano di 'portatore' dello spirito del mondo (8). Se le migliori intelligenze teorico-giuridiche dell'occidente assumevano queste posizioni, non c'è da stupirsi che i riferimenti ai diritti umani ed alla loro tutela siano sempre più diffusi nei documenti ufficiali dei diversi governi degli Stati Uniti. Nel (tristemente) noto e già citato The National Security Strategy of the United States la "difesa delle aspirazioni alla dignità umana" è definito come il primo obiettivo della politica estera, mentre i principi del rule of law, della libertà di parola, dell'eguaglianza giuridica, della tolleranza etnico-religiosa e del rispetto per la proprietà privata sono dichiarati "giusti e veri per ogni persona, in ogni società" (9).

Ignatieff critica decisamente 'l'idolatria' dei diritti umani e si pronuncia contro la pretesa di 'fondarli' teoricamente: le pretese fondative rimandano ad assunzioni metafisiche non incontrovertibili e finiscono per dividere. Si tratta piuttosto di interrogarsi su ciò che i diritti umani 'fanno'. La storia ci insegna "che gli esseri umani sono a rischio della propria vita se sono privi di un minimo di libera capacità di azione; che la stessa capacità di azione necessita di protezione mediante norme condivise internazionalmente; che queste norme devono autorizzare gli individui a opporsi e a resistere a leggi e disposizioni ingiuste all'interno del loro stato; e, infine, che quando tutti gli altri rimedi sono stati esauriti, gli individui hanno il diritto di appellarsi ad altri popoli, nazioni ed organizzazioni internazionali per trovare appoggio nella difesa dei loro diritti" (p. 57).

Una giustificazione storica e prudenziale non ha bisogno di appellarsi ad un'idea della natura umana o del bene ed è dunque compatibile col pluralismo morale. In altri termini, per convergere sui diritti umani non si deve essere d'accordo su ciò che è bene, ma su ciò che è indiscutibilmente sbagliato: Ignatieff propugna un universalismo consapevolmente minimalista, che rimanda ad una teoria 'leggera' di ciò che è giusto. È assumendo questo minimalismo che è possibile, nella sua ottica, fronteggiare le critiche che contrastano il linguaggio dei diritti su più fronti: quelli 'esterni' del fondamentalismo islamico - fin dalla posizione dell'Arabia Saudita nel corso della redazione della Dichiarazione del 1948 - e dei 'valori asiatici', come quello 'interno' del relativismo postmodernista. Per Ignatieff non si deve eccedere nel connotare negativamente la caratterizzazione occidentale della Dichiarazione: Essa è stata redatta all'indomani della Seconda guerra mondiale e della Shoà, nell'imminenza della Guerra fredda. In quel contesto "gli strumenti di promozione dei diritti umani [...]non esprimevano il trionfalismo e la sicurezza di un'Europa imperiale, ma la riflessione di una generazione stanca di guerra sul nichilismo europeo e sulle sue conseguenze" (pp. 8-9). Per Ignatieff, d'altronde, è proprio l'individualismo dei diritti "la ragione per cui essi hanno dato prova della loro capacità di attrazione su milioni di persone cresciute in tradizioni non occidentali. I diritti sono significativi solo se conferiscono autorità e immunità agli individui" (p. 69).

Nel criticare l''idolatria' dei diritti umani, Ignatieff mette efficacemente in questione molte delle caratteristiche che si attribuiscono ai diritti fondamentali nel dibattito teorico contemporaneo. In particolare, contro le note tesi di Ronald Dworkin, nega che ai diritti umani si possa attribuire il carattere di trumps, di 'carte vincenti' che prevalgono su qualsiasi scopo sociale e su qualsiasi programma politico, perché esprimono valori e principi che collidono fra loro (10). Né i diritti umani possono essere considerati come una espressione normativa della natura umana. In un certo senso, anzi, sono contro natura:

la moralità umana in generale e i diritti umani in particolare rappresentano un tentativo sistematico di correggere e contrastare le tendenze naturali che abbiamo scoperto in quanto esseri umani. [...] Storicamente, le dottrine dei diritti umani sono emerse per contrastare questa tendenza ad avere cerchie di coinvolgimento e di cura che da un punto di vista etico sono particolaristiche ed escludenti. (p. 81)

Contro la retorica giusnaturalistica, Ignatieff afferma che non c'è "niente di sacro negli esseri umani, niente a cui spetti di diritto venerazione o rispetto incondizionato" (p. 85). Egli insiste sul carattere politico dei diritti umani, invitando le stesse ONG a farsene carico (pp. 14-15). Occorre "smettere di pensare che i diritti umani siano delle specie di briscole", al di sopra della politica, oppure "il credo universale di una società globalizzata, o una religione secolare", e considerarli come "le basi per la deliberazione", "il vocabolario comune dal quale possono cominciare le nostre argomentazioni" (ivi, pp. 96-97).

Ignatieff, inoltre, non collega la difesa dei diritti umani con la prospettiva cosmopolitica. Sostiene anzi che la sovranità degli Stati, e la loro stabilità, sono la migliore garanzia dei diritti umani. Lo stesso diritto dei popoli all'autodeterminazione non va assolutizzato, perché in certi casi non si rivela un vantaggio per i diritti umani degli individui: più specificamente, non è opportuno che tutte le richieste di autodeterminazione siano soddisfatte fino al punto di garantire la secessione e l'indipendenza nazionale. Va comunque riconosciuta una tensione fra i diritti umani e la democrazia. Il costituzionalismo è lo strumento fondamentale per allentare questa tensione ed impedire che la democrazia si trasformi in tirannia della maggioranza etica. E d'altra parte, nell'epoca della globalizzazione la sovranità statale tende ad indebolirsi. Opportunamente, Ignatieff evita di stabilire - come viceversa ha fatto Habermas (11) - dirette relazioni fra globalizzazione e affermazione del linguaggio dei diritti, per sostenere "la natura ribelle del rapporto tra attivismo dei diritti umani e impresa globale" (p. 73). Non si deve sostenere, semplicisticamente, un''affinità elettiva' fra "l'individualismo morale che si esprime nei diritti umani" e "l'individualismo economico del mercato globale".

In verità, tra i diritti umani e il denaro, tra la globalizzazione economica e quella morale, il rapporto è piuttosto di antagonismo, come si può constatate, per esempio, nelle campagne condotte dagli attivisti dei diritti umani contro le politiche dell'ambiente e della manodopera delle grandi imprese multinazionali. I diritti umani sono diventati globali non perché sono al servizio degli interessi dei potenti, ma in primo luogo perché hanno promosso gli interessi di chi è senza potere. I diritti umani sono diventati globali divenendo locali, mettendo radici nel terreno di culture e visioni del mondo indipendenti dall'Occidente, per sostenere le battaglie della gente comune contro stati ingiusti e pratiche sociali oppressive. (pp. 11-12)

Altrettanto opportunamente, Ignatieff auspica un esercizio di sobrietà nella definizione dei cataloghi dei diritti, alla luce dell'idea che "l'inflazione dei diritti - la tendenza a definire come un diritto tutto ciò che può essere desiderabile - finisce per erodere la legittimità di un nucleo difendibile di diritti" (p. 92).

Ciò non significa che Ignatieff abbandoni la prospettiva universalistica o non si impegni in una definizione sostantiva del fondamento normativo dei diritti umani. Il contenuto dei diritti esprime per Ignatieff i conflitti tra gli individui e i gruppi. Quello dei diritti "è l'unico linguaggio che permette a persone in posizione di dipendenza di percepirsi come agenti morali e di agire contro pratiche [...] che sono ratificate dalla pressione e dall'autorità delle loro culture" (ivi, p.70), e questo ne spiega la forza di attrazione al di là dell'Occidente. La loro universalità non risiede in un consenso universale ma nel fatto che definiscono gli interessi universali di chi è deprivato di potere: "garantiscono che il potere può essere esercitato su di essi solo in modi che rispettino la loro autonomia come agenti" (ivi, p. 70). "I diritti umani sono universali non in quanto vernacolo della prescrizione culturale ma come linguaggio del conferimento di potere morale" (ivi, p. 75). Dunque: per quanto critichi le 'pretese fondative' e faccia riferimento ad argomenti storico-pragmatici, Ignatieff non rinuncia a definire precisamente la funzione, se non la natura, dei diritti. E da questa definizione derivano indicazioni prescrittive riguardo al contenuto ed all'estensione dei diritti. Come abbiamo visto Ignatieff insiste sull'opportunità di evitare un'inflazione del linguaggio dei diritti. La sua tesi a questo proposito è che dal carattere dei diritti come principi che attribuiscono poteri derivano i loro limiti, che non si estendono al di là della 'libertà negativa':

I diritti umani sono importanti perché aiutano la gente ad aiutarsi. Ne proteggono la capacità di azione. Con capacità di azione, intendo più o meno quello che Isaiah Berlin intende con 'libertà negativa: la capacità di ogni individuo di perseguire scopi razionali senza ostacolo o intralcio. [...] Quello dei diritti umani è un discorso che riguarda il conferimento di potere (empowerment) individuale [...] desiderabile perché quando gli individui hanno capacità di azione sono in grado di difendere se stessi dall'ingiustizia (ivi, p. 59)

Una volta che i diritti siano ricondotti a questa idea-chiave ed a questa sorta di nucleo duro (che, curiosamente, coincide con il più tradizionale catalogo dei diritti civili individuali tipici della tradizione liberale) è possibile la loro universalizzazione. L''universalismo consapevolmente minimalista' e la 'teoria leggera del giusto' di Ignatieff sono presentati come il fondamento solido per la tutela globale dei diritti umani. È come se attraverso questa riduzione ad un comune denominatore sia possibile individuare la chiave di volta su cui possa reggersi l'intero progetto di universalizzazione.

L'universalismo, per quanto minimalista, si assume la funzione di legittimare l'intervento militare per la tutela dei diritti umani. Nelle Tanner Lectures Ignatieff spende qualche pagina per ricordare che la decisione di intervenire militarmente è ammissibile solo laddove gli abusi dei diritti umani siano "gravi, sistematici e dilaganti" e costituiscano una minaccia alla pace, sul piano locale e su quello internazionale. Ricorda inoltre che "l'intervento militare deve avere una reale probabilità di mettere fine agli abusi" (p. 45) e raccomanda cautela. Intervenire militarmente significa rischiare di appoggiare parti in conflitto tutt'altro che innocenti e di finire per delegittimare i diritti umani. Ignatieff ammette anche che 'lo status giuridico del diritto di intervento è estremamente oscuro': sostiene che vi è una sorta di antinomia nella Carta delle Nazioni unite, che invita alla tutela dei diritti umani ma vieta le intromissioni negli affari interni dei singoli Stati sovrani, ed auspica una formalizzazione del diritto di interferenza umanitaria. Comunque, nel caso in cui avvenga la disintegrazione di uno Stato o viceversa quando uno Stato eserciti una violenza molto grave contro i propi cittadini o cittadini di altri paesi, l'intervento militare è per Ignatieff l'unico mezzo efficace per proteggere i diritti umani. Da questo punto di vista,

I diritti umani non sono altro che una forma di politica, che deve ricondurre i fini morali alle situazioni concrete e deve essere pronta a sottoscrivere compromessi spiacevoli non solo fra fini e mezzi, ma anche fra un fine e l'altro.

La politica, tuttavia, non è fatta solo di dibattiti. Il linguaggio dei diritti umani serve anche a ricordarci che ci sono abusi decisamente intollerabili e giustificazioni di questi abusi che sono inaccettabili. [...] Di conseguenza, questo linguaggio è usato, a volte, per raccogliere le ragioni e i consensi necessari all'uso della forza" (ivi, pp. 26-27)

Come abbiamo visto, questa selettiva apologia dell'interventismo umanitario si 'evolve' sino all'appoggio incondizionato alla 'guerra globale contro il terrorismo' e agli interventi di 'legittima difesa preventiva' dell'attuale amministrazione statunitense, con argomenti nei quali i riferimenti al diritto internazionale finiscono per perdersi completamente.

La 'ragionevole apologia dei diritti umani' cui allude il titolo italiano del testo di Ignatieff consiste insomma nell'individuazione di un nucleo minimo - ma proprio per questo molto solido - di diritti e nella successiva universalizzazione, che rimanda alla tutela dei diritti anche attraverso il ricorso alla forza militare. La 'ragionevolezza' di questa proposta teorica è stata contestata da molti punti di vista. Ci si può chiedere, ad esempio, se davvero l'empowerment degli individui coincida con, e si limiti a, i diritti di libertà 'negativa' o se non richieda piuttosto l'effettivo godimento di una serie di garanzie politiche e sociali. E d'altra parte ci si può chiedere - come ha fatto Danilo Zolo nell'intervento posto in appendice all'edizione italiana delle Tanner Lectures - se l'aver "filtrato la quintessenza occidentale della teoria dei diritti dell'uomo" (p. 154) sia il passo opportuno in direzione della sua universalizzazione e del confronto interculturale. Ignatieff sostiene, come abbiamo visto, che l'individualismo della tradizione liberale occidentale, lungi dall'ostacolare il confronto interculturale, è esattamente ciò che i partner non occidentali del confronto ricercano, apprezzano e valorizzano nella linguaggio dei diritti.

Ci si potrebbe chiedere se le cose stanno davvero così. Se ad essere apprezzato sia soprattutto l'individualismo, o non piuttosto un'altra caratteristica dei diritti: l'adeguatezza ad esprimere l'attività delle rivendicazione, la difesa delle libertà contro i poteri oppressivi ed in questo modo l'assunzione della prospettiva 'dal basso', ex parte populi. Da questo punto di vista, se è vero che i diritti hanno per oggetto in primo luogo la difesa dei singoli individui, è altrettanto vero che essi sono in genere affermati da soggetti collettivi che richiedono riconoscimento. E ciò che le culture 'altre' rispetto alla tradizione giuridica occidentale - o meglio: gli individui ed i gruppi subordinati ed oppressi all'interno delle culture 'altre' - trovano attraente nel linguaggio dei diritti è probabilmente, più che la difesa dell'individuo contro la collettività come tale, la possibilità di dare voce sul piano normativo ai processi sociali e politici di rivendicazione e di mobilitazione di fronte alle differenti forme di oppressione e di dominio. E insieme, verosimilmente, riconoscono nel linguaggio dei diritti uno strumento duttile per 'trasformare' valori, istanze e rivendicazioni in principi e norme giuridiche, che a loro volta rimandano a tecniche giuridiche di tutela e di sanzione. Da questo punto di vista smarrire la connotazione giuridica del linguaggio dei diritti significa, come ha notato Habermas, aprire la strada al fondamentalismo dei diritti.

Nell'affrontare il problema del confronto interculturale del linguaggio dei diritti occorrerebbe, insomma, essere più radicali di Ignatieff nel rinunciare alle pretese fondative e nel criticare l'universalismo. Occorrerebbe riconoscere la connotazione storica e culturale dei diritti umani fino ad ammettere che anche un fondamento minimo, un 'nucleo duro' ridotto ai minimi termini non è disponibile. In questo modo il congedo dall'idea dei diritti umani come trump cards, come principi primi assolutamente indisponibili sarebbe assai più netto e coerente di quanto non avvenga nella prospettiva di Ignatieff. Se l'universalizzazione dei diritti umani è ciò che è in questione, si richiede un'opera, paziente e responsabile, di traduzione interculturale ed è insostenibile una posizione del tipo fiant iura, pereat mundus. Il riconoscimento del legame, genetico e concettuale, dei diritti con l'attività del rivendicarli esclude anche che sia possibile imporre i diritti. L'esportazione del socialismo sui carri armati dell'Armata Rossa si è risolta in un colossale fallimento. Per quanto è dato di vedere in questi giorni, la 'liberazione' dalla tirannia e l'esportazione dei diritti umani in Iraq dentro le ogive dei missili Tomahawk non sembra produrre risultati incoraggianti.


Note

1. Cfr. M. Ignatieff, "The Burden", The New York Times Magazine, 5 gennaio 2003

2. Cfr. Aa. Vv., "What We Are Fighting For", The Washington Post, 12 febbraio 2002

3. Cfr. M. Walzer, "So, is this a Just War?", Dissent Magazine, Spring 2003.

4. Cfr. The National Security Strategy of the United States of America.

5. M. Ignatieff, "The Burden", cit.

6. Ibidem.

7. Cfr. J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1996, trad. it. L'inclusione dell'altro, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 177-215.

8. Cfr. G. Bosetti (a cura di), L'ultima crociata, Reset, Roma, 1999.

9. The National Security Strategy, cit.

10. "I diritti umani potrebbero assumere un carattere meno imperiale se diventassero più politici, ovvero se non fossero percepiti come un linguaggio per emanare e proclamare verità eterne, ma come un discorso per la soluzione dei conflitti. Tuttavia, pensare ai diritti umani in questi termini significa accettare che i principi stessi dei diritti umani sono in conflitto. [...] Se i diritti configgono e le richieste non possono essere ordinate in modo indiscutibile secondo una priorità morale, non è possibile considerare i diritti delle briscole. [...] Nella migliore delle ipotesi, i diritti creano una cornice comune, in insieme condiviso di punti di riferimento che può essere d'aiuto alle parti in conflitto per dialogare. Un linguaggio condiviso, però, non rende necessariamente più facile il raggiungimento di un accordo" (Ignatieff 200, pp. 24-25).

11. Cfr. J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, trad. it. cit., pp. 216-32.