2009

Laddove libertà e necessità si incontrano
Immaginazione e forza dell'esempio

Massimo Rosati (*)

Se non fosse che il campo è da subito circoscritto al mondo sociale e politico, La forza dell'esempio sembrerebbe inizialmente avere quasi un respiro "cosmologico", voler introdurre il lettore in un mondo dilaniato dal conflitto tra la forza di ciò che resiste alla nostra volontà, ci piega con la brutalità della coercitività, e la forza invece capace di trasformare l'ambiente in cui viviamo, di sottrarci alla necessità con un esercizio di libertà. Eppure, il senso delle pagine di Ferrara sta proprio nell'invitarci a rifiutare una simile visione manichea, e nel considerare che esiste un "posto", anzi molti "posti", in cui la tensione tra necessità e libertà, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, seppure non si acquieta trova il modo di incarnarsi e trasformarsi in forza produttrice di una normatività che parla la nostra stessa lingua, ha il nostro stesso volto, eppure ci spinge ad arricchire il nostro vocabolario e a ingentilire il nostro profilo. Questi "posti" sono come "i giusti" tra noi e le nostre istituzioni, quelli a cui riconosciamo una forza esemplare, la capacità di mostrarci come dovremmo essere, di mettere in moto la nostra immaginazione morale e politica, per spingerci un passo in là, un passo in avanti.

Esportare una forma di universalismo senza principi al di là dell'ambito estetico tramite la categoria del giudizio riflettente: questo il temporaneo punto d'approdo del programma filosofico di Alessandro Ferrara, sedimentato nei capitoli de La forza dell'esempio. Si tratta di un programma le cui fondamenta sono state gettate qualche anno fa (cfr. Modernità e autenticità), a partire da una lettura della modernità che sottolineava il prendere forma di una nozione di soggettività diversa e da quella eterodiretta propria delle società tradizionali, e da quella autonoma primo-moderna, centrata piuttosto su una relazione con se stessa che se presuppone l'autonomia pure ad essa non si ferma, in nome di una ricerca di autenticità capace di esercitare una forza normativa. Dal piano dell'analisi delle basi socio-culturali della nozione di autenticità (cfr. L'eudaimonia postmoderna), il lavoro di Ferrara si è andato poi sviluppando in direzione di un approfondimento della forza di quest'ultima intesa come "criterio" di validità, strumento metodologico tramite il quale tracciare una terza via tra forme di universalismo pre-svolta linguistica - insensibili all'inaggirabilità dei contesti, delle culture, delle forme di vita -, da una parte, e post-moderne forme di sgretolamento della ragione, dall'altra (cfr. soprattutto Autentiticità riflessiva). A chi abbia seguito il percorso di Ferrara negli anni, e ne abbia fatti propri gli intenti di fondo dell'agenda, La forza dell'esempio può apparire come un capitolo di una storia di cui ad oggi risulta difficile indovinare gli sviluppi successivi. La forza dell'esempio traghetta il paradigma giudizialista al di fuori dell'ambito estetico da cui pure la nozione di autenticità ricavava originariamente la sua grammatica normativa; prende le distanze dal suo stesso vocabolario sfumando la centralità della nozione di autenticità; si arricchisce di nuovi tasselli - come l'enfasi sull'immaginazione quale facoltà capace di "rendere presente ciò che è assente", riunendo insieme "sotto le differenti modalità del giudizio determinante e riflessivo, elementi particolari e nozioni generali" (p. 71); prosegue, dopo Giustizia e giudizio, nel suo esercizio di analisi del pensiero politico normativo contemporaneo e della forza normativa propria di istituti politici delle società liberal-democratiche (la ragion pubblica, i diritti umani); sonda la portata del paradigma giudizialista in aree più ampie della sola filosofia politica misurandosi con temi quali il male radicale e il rapporto tra religione e politica. Nel far tutto ciò, mentre dà prova di indubbia originalità e capacità di esercitare piena cittadinanza in una pluralità di sotto-mondi teorici, La forza dell'esempio lascia tuttavia la sensazione di essere in un equilibrio precario tra la piena fedeltà a se stesso e alle sue linee teoriche, e il riscivolare al di qua di esse, in un mondo filosofico - e anche in uno stile argomentativo - poco sensibile alla forza dell'esempio, alla capacità di esplorare ciò che potrebbe o dovrebbe essere a partire da ciò che è, assumendo tinte e tratti di quella che Chiara Bottici nel suo commento pubblicato su questa stessa rivista ha felicemente chiamato una "esemplarità tutta razionale, in cui l'immaginazione è scomparsa". Ad oggi, non mi sembra dato poter scommettere su come questo equilibrio precario troverà assestamento nei capitoli ancora da scrivere.

Vorrei provare a sondare meglio questo punto attraverso una sintetica comparazione di alcuni capitoli del libro di Ferrara, che mi appaiono singolarmente diversi per stile e sostanza (I); successivamente, vorrei dedicare qualche breve annotazione a singoli aspetti e "punti locali" del volume (II); da ultimo, vorrei invece tornare alla questione di fondo, ossia alla forza dell'esempio come terza forza che plasma il mondo in cui viviamo, provando a suggerire l'esemplarità di un diverso terreno sul quale indagare la grammatica della forza normativa dell'esempio (III).

I. L'esemplarità tra immaginifica fedeltà alla terra e razionalità disincarnata

Le mie osservazioni vanno grosso modo nella stessa direzione di quelle di Chiara Bottici, e in direzione contraria rispetto a quelle di Elisabetta Galeotti, anche se diversamente da Bottici non credo che esista una "faglia" tra la prima parte del volume e la seconda, in cui il ruolo dell'immaginazione verrebbe quasi a scomparire. Si potrebbe forse provare a ricostruire la differenza che separa alcuni capitoli da altri mettendola in relazione ai rispettivi periodi di scrittura, e avanzare l'ipotesi che quelli in cui immaginazione ed esemplarità sono più fortemente legate tra loro delineando un modello di normatività incarnato, nonché quelli in cui lo stesso stile di scrittura è più fedele all'esempio, più storico-ricostruttivo, siano quelli di più recente composizione, e viceversa quelli in cui l'esemplarità si fa "per così dire tutta razionale", l'immaginazione si eclissa, e lo stile argomentativo si inaridisce fino a farsi quasi analitico, siano quelli di meno recente scrittura; se ci fosse qualcosa di vero in questa ipotesi, potremmo forse anche azzardare qualche previsione sui capitoli ancora da scrivere.

Per due terzi La forza dell'esempio mi sembra coerente con se stesso. Per usare Ferrara "contro Ferrara", direi che La forza dell'esempio è coerente quando il suo autore assume le sembianze del teorico "repubblicano", secondo la brillante e perspicua definizione che Ferrara dà della "differenza repubblicana", ossia quando non viene attratto da "schemi astratti, principi universali o dimostrazioni more geometrico", ma quando fa prevalere il "momento retorico", la capacità di piegarsi sull'interpretazione dei fatti storici o delle azioni specifiche per trarne la forza esemplare e la capacità immaginifica di apertura di/a altri mondi. A differenza di quel che ritiene Bottici, il capitolo su "L'Europa come spazio privilegiato della speranza umana" mi sembra perfettamente coerente con il programma filosofico propostoci. Lì, con grande coerenza l'autore rifiuta di impostare un ragionamento sull'integrazione europea e l'identità del vecchio continente innestandola "su un qualche concetto filosofico o religioso" (p. 203), un esercizio "futile e arrogante" che attraversa invece una larga parte del dibattito sull'"idea di Europa". La "semantica della speranza" viene al contrario indagata a partire dall'analisi del Preambolo del Trattato costituzionale, muovendo cioè da quel documento che avrebbe dovuto riflettere e articolare i motivi di ordine già storico e culturale che fondano la particolarità dell'Europa rispetto al resto dell'Occidente. Nella strategia conseguentemente immanente di quel capitolo - per Ferrara propria di un pensiero politico repubblicano più che classicamente liberale - c'è un vantaggio in termini di portata sociologica, che mentre rifiuta di calare sulla fatticità della realtà storica il wishful thinking di astratti principi filosofici pure non si piega al realismo rinunciatario di una politica intesa come mero luogo dei conflitti, degli interessi e della lotta per il potere, ma la considera anche come luogo delle idee e della passioni capaci di mobilitare le persone. Qui, la forza dell'esempio si pone davvero come terza via tra la necessità e una libertà fantasmagorica. La stessa coerenza, sostanziale e stilistica, rispetto ai primi due capitoli programmatici la mostrano - oltre che il capitolo meta-politico dedicato al repubblicanesimo - i capitoli sul male radicale e quello finale sui rapporti tra religione e politica. Viceversa, un passo indietro è rappresentato da quelli dedicati ai diritti umani, la cui giustificazione - come osserva però con apprezzamento Galeotti - sembra non poter fare a meno del rimando a principi indipendenti dai contesti, e che funzionano come "vincolo collaterale a progetti, disegni e azioni" (Galeotti). Non a caso, si tratta appunto di quei capitoli in cui il ruolo dell'immaginazione si eclissa, lo stile filosofico si inaridisce e la vitalità (una delle categorie richiamate da Ferrara come linee guida lungo le quali giudicare l'autenticità di un'identità) della forma di vita occidentale sembra bloccarsi sull'auto-celebrazione di se stessa, perdendo capacità di apertura. Con ciò, senza voler dire che non ci sia tanto su cui concordare nei secondi o punti di dissenso rispetto ai primi.

II. Contrappunti locali

Oltre al capitolo sull'Europa, gli altri due capitoli particolarmente coerenti con il programma generale sono quelli dedicati rispettivamente all'analisi del male radicale e alle caratteristiche del pensiero repubblicano. Qualche nota su di essi, pur condividendone larga parte.

Il primo, "Esemplificare il peggio: la sfida del male radicale", si inscrive idealmente in un tipo di analisi "culturalista" del male coerente con il recente lavoro, su un terreno sociologico, di Jeffry C. Alexander (1), il cui vantaggio principale consiste nel "prendere sul serio" il male quale potente forza sociale mai del tutto debellabile dall'orizzonte della vita sociale, in quanto sempre inscritto all'interno dell'orizzonte di una specifica comunità. Utilizzando non a caso categorie durkheimiane - le Forme elementari della vita religiosa sono anche l'Urtext di Alexander -, Ferrara concepisce il male ordinario come espressione del profilo profano di una comunità, e il male radicale come l'opposto speculare di quel sacro che incarna invece il profilo migliore della società reale idealizzata (pp. 125-126). La soglia che separa male ordinario e male radicale mi sembra ben tracciata, ma non altrettanto l'idea che il male radicale sia "l'opposto speculare" del sacro. Se vogliamo stare all'uso delle categorie durkheimiane, che trovo personalmente assai utili nell'analisi del tema del male (2), il male radicale va concepito come esso stesso espressione del sacro, ma l'opposto del sacro fasto o puro, quello che Durkheim chiamava il sacro nefasto o impuro, e che nella tradizione dei durkheimiani - da Mauss a Hertz - diventerà il sacro sinistro, opposto al sacro destro. Pensando il male radicale come espressione del sacro sinistro se ne rafforza il carattere costitutivamente sociale e identitario, e in questo senso almeno non credo, come sostiene Ferrara, che il male radicale non possa mai essere "autentico" (p. 122). Può implicare autoinganno, ma non per questo essere meno radicato in un'identità di quanto lo sia il bene o il giusto. Per finire, il ricorso alle categorie durkheimiane consente anche di cogliere l'importanza di un punto che Ferrara in verità tocca solo tangenzialmente, senza su di esso soffermarsi. Se il male è in relazione alla nozione di sacro, il partner concettuale del sacro, ossia il rito, diventa via maestra all'espiazione del male stesso, alla ricostruzione di una solidarietà anamnestica con le vittime del male radicale, aprendo la strada ad un'analisi dei meccanismi rituali di ricomposizione della memoria propri anche delle società democratiche. Le osservazioni di Ferrara (p. 129) intorno al significato che avrebbe avuto la dedica della nostra Costituzione alle vittime del fascismo e a chi pagò con la vita la resistenza ad esso qualora essa fosse stata scritta dai costituenti, sono un ottimo esempio non solo di quella che avrebbe potuto essere una solidarietà anamnestica laica, ma anche una ritualità civile spesso troppo velocemente derubricata a celebrazione ipocrita.

Il capitolo sul repubblicanesimo, "Il repubblicanesimo politico e la forza dell'esempio", che pure coglie con grande perspicacia la differenza metodologica che separa questa antica tradizione di pensiero politico dal più recente liberalismo, mi sembra invece impoverire la differenza repubblicana confinandola al solo aspetto metodologico, ossia al diverso modo di intendere la relazione tra normatività ed esemplarità (p. 149). Può anche essere vero, come sostiene Ferrara, che tra liberalismo liberal e repubblicanesimo vi sia una distanza minore di quella che separa liberali liberals e libertarians, ma trovo che accorciare troppo la distanza tra liberalismo liberal e repubblicanesimo impoverisca il panorama filosofico politico. Ferrara ha probabilmente ragione nel sostenere che nessuna singola caratteristica può funzionare da discrimine incontrovertibile tra le due famiglie teoriche - non la sola nozione di libertà dal dominio, non la sola enfasi partecipatoria (in quelle versioni di repubblicanesimo che la sottolineano), non la sola polemica anti-atomista, non il solo accento sul commitment che la democrazia richiede per non scivolare in mero proceduralismo, non la sola sottolineatura della dimensione comunitaria. Eppure, rimane il fatto che leggere Robert Bellah non è come leggere John Rawls o Ronald Dworkin, così come diverse sono le rispettive immagini della politica e della società, e non solo in virtù di un implicitamente diverso rapporto tra normatività ed esemplarità, e che una teoria liberale che avesse non una o qualcuna bensì tutte le caratteristiche di cui sopra, sarebbe probabilmente più opportunamente connotabile come repubblicana anziché come liberale. Ciò non significa, d'altro canto, che John Rawls e Robert Bellah non abbiano condiviso probabilmente molti giudizi sulla vita politica americana, ad esempio, ma solo che a sottostimare le sfumature e le differenze si impoverisce eccessivamente il quadro teorico.

III. Fatti sociali religiosi e grammatica dell'esemplarità

Ma torniamo adesso al punto generale, all'incipit del volume e alla sua proposta di esportare il modello giudizialista al di là dell'ambito estetico, sul quale ne è stata indagata originariamente la grammatica.

La tensione tra libertà e necessità, con cui si apre il libro, ha un corrispettivo in quella tra peso coercitivo delle strutture sociali e libertà dell'individuo moderno che attraversa da cima a fondo l'intera tradizione sociologica, a seconda dei suoi interpreti ora incline a sottolineare il peso della necessità, ora i margini della libertà. Il richiamo, ancora una volta, al pensiero di David Émile Durkheim può essere forse istruttivo. Durkheim, infatti, tendenzialmente incline a sottolineare il peso esterno e coercitivo dei fatti sociali, ma non meno attento a studiare "l'accrescimento di individuazione" dell'uomo moderno (3), individuava una classe speciale di fatti sociali, aventi la caratteristica di risultare non solo qualcosa contro cui urta la volontà del singolo, qualcosa che vincola, regolamenta, stabilisce doveri e obblighi, ma risulta al contrario anche desiderabile, attraente. La classe di fatti sociali in questione è quella dei fenomeni religiosi, che proprio per la loro desiderabilità si distinguono da altri tipi di fatti sociali, morali etc. Quel che distingue il sacro durkheimiano dall'imperativo categorico kantiano è essenzialmente questa capacità del sacro di riconciliare o almeno tenere in sé la forza delle cose e la forza di ciò che deve essere, per stare al quadro dipinto da Ferrera. Simmel definiva gli ideali religiosi come espressione di forme di convivenza senza concorrenza, quell'unità sociologica in cui le tensioni si sciolgono, e in cui, per dirla con Ferrara, ci si anticipa, prospetta e prefigura una possibile riconciliazione tra libertà e necessità (pp. 19-20), autonomia e creatività individuale ed esigenze della vita associata. E dove, più che nei fenomeni religiosi, andare a cercare la forza dell'esempio, la normatività dell'esemplare? Non è forse l'imitatio dei una caratteristica di pressoché tutte le principali tradizioni religiose? Non esistono forse in ogni tradizione religiosa figure - santi, profeti, Buddha storici etc. - celebrate proprio in virtù del loro carattere esemplare? Se il sacro è l'espressione del profilo idealizzato della società reale, noi al nostro meglio, il rito non è forse quello strumento che mentre riattualizza il sacro lo riproduce nel presente, aprendo - come l'immaginazione - al qui ed ora ma anche al futuro di una specifica comunità di credenti qualcosa che affonda le sue radici in una tradizione? Per questo Durkheim guardava ai fenomeni religiosi come alla chiave della vita sociale, perché in essi si svelava il segreto della riconciliazione tra libertà e necessità, essi si ponevano come terreno a sua volta esemplare di studio della grammatica di quel tipo di normatività che riconcilia la forza di ciò che dovrebbe essere e la forza delle cose. Un terreno in più, e forse un terreno particolarmente promettente, non solo di applicazione ma anche di scavo della logica della normatività dell'esemplare.


Note

*. Professore di Sociologia, Università di Roma Tor Vergata.

1. Cfr. J. C. Alexander, La costruzione del male, Bologna, il Mulino, 2006.

2. Cfr. W.S.F.Pickering, M. Rosati (eds), Suffering and Evil. The Durkheimian Legacy, Oxford-New York, Berghahn Books, 2008.

3. Cfr. A. Ferrara, M. Rosati, Affreschi della modernità, Roma, Carocci, 2005, cap. 2.