2009

Commenti a Alessandro Ferrara, La forza dell'esempio. Il paradigma del giudizio

Anna Elisabetta Galeotti (*)

La forza dell'esempio di Alessandro Ferrara è un libro importante e ambizioso che attraversa molte aree della filosofia, dall'estetica all'epistemologia, dalla metaetica alla filosofia politica. In esso, l'autore propone, attraverso una rilettura della Terza Critica kantiana, sulla scia di Arendt e di precedenti lavori dello stesso Ferrara, una specifica modalità conoscitiva che sarebbe in linea con la svolta linguistica (con il suo anti-fondazionalismo e anti-realismo) e consentirebbe di evitarne l'esito relativistico. In aggiunta, questa modalità permetterebbe di formulare dei giudizi con valore universale a partire dal concreto e dal particolare e, in questo modo, di aggirare il dilemma fra universalismo e particolarismo che tanto preoccupa la filosofia pratica nel suo complesso e quella politica nello specifico. Lo strumento che rende possibile superare queste dicotomie è il giudizio riflettente che si raccomanda in quanto diverso dal giudizio determinante, riferito a una conoscenza nomologica, e dal giudizio pratico, derivato da principi deontologici. La forza dell'esempio è dunque un serio e complesso studio che propone e si espone con una tesi originale, affrontata con passione e competenza e che cerca di dare una risposta a interrogativi urgenti della filosofia contemporanea attraversando i classici e il dibattito odierno con incalzante rispetto. Tanti sono gli argomenti che condivido e altrettante le cose che ho imparato, ma per alimentare la discussione, mi concentrerò invece sugli aspetti che mi suscitano problemi. Non vorrei però entrare nel merito se la proposta di Ferrara sia una rilettura fedele o meno di Kant; su questo punto rinvio alla puntuale recensione di Mauro Piras su Iride che mostra una sostanziale fuoriuscita dalla, nonché forzatura della, filosofia kantiana nella Forza dell'esempio. (1) Vorrei invece dirigere l'attenzione sulla sua tesi principale per vedere se, anche al di là di Kant, essa tiene e riesce ad assolvere tutti i compiti che le sono assegnati da Ferrara.

Cominciamo a vedere il campo a cui il giudizio riflettente si applica. Questo è spiegato all'inizio dello studio dove Ferrara suggestivamente divide il nostro mondo in tre aree: il mondo dei fatti e degli eventi che esercita la ben nota "forza delle cose", una forza spesso priva di ragioni sottostanti, ma nondimeno potente e con cui dobbiamo costantemente fare i conti. Poi c'è, sul lato opposto, per così dire, il mondo ideale, il mondo come dovrebbe essere se, appunto, alle "cose" venisse fatta un'iniezione di ragioni e principi che potrebbero raddrizzarle e che esercita su di noi la forza degli ideali, dei principi, della critica. In mezzo fra questi antipodi sta l'esemplarità: l'azione, la condotta, l'opera, la situazione esemplare appartengono al mondo dei fatti, ma si impongono non già con la forza delle cose, ma in virtù del loro essere esemplari, della forza con cui colpiscono l'immaginazione e suggeriscono il cambiamento. Il giudizio riflettente è propriamente quello che ci consente di cogliere in un atto, un gesto, un'opera particolare e situata l'esemplarità che eleva l'oggetto al di là del suo contesto come universalmente ammirabile grazie alla sua "riuscitezza", alla sua "autocongruenza", sia essa estetica, etica o politica. Dunque il giudizio riflettente si applica al mondo dei fatti, con una particolare predilezione per gli artefatti, per azioni, condotte e loro esiti, anche se certamente si può applicare a uno scorcio naturale esemplarmente armonico. Accostandosi ai fatti tuttavia il giudizio riflettente non procede a conoscere causalmente e nomologicamente il fatto in questione, bensì a riconoscere l'esemplarità dello stesso, la sua particolare riuscitezza che mette in moto l'immaginazione e suscita piacere e ammirazione. Se così è, il giudizio riflettente non costituisce un'alternativa alla conoscenza causale dei fatti e non fornisce risposte alle questioni epistemologiche del relativismo e del realismo, né aiuta ad affrontare il problema della verità. E' una modalità conoscitiva a sé che si aggiunge e illumina un aspetto della realtà e del nostro rapporto ad essa, ma non porta acqua, né la toglie, a una posizione post-metafisica come quella sottoscritta da Ferrara. In questo senso, mi sembra ridondante, e indirettamente fonte di confusioni, il riferimento alla svolta linguistica, al realismo contemporaneo e alla opzione post-metafisica.

D'altra parte, la forza dell'esempio sta proprio nel mettere in luce un ideale che benché incarnato ha valore universale. Dunque un chiarimento della relazione dell'esempio con il mondo degli ideali sarebbe opportuna. Nel testo di Ferrara il mondo degli ideali e la relazione dell'esempio con esso rimane invece in ombra. Si tratta certamente di un mondo normativo, ma non è chiaro quale sia la fonte della normatività degli ideali: la ragione kantiana o la saggezza relativa a tradizioni culturali e contesti particolari? Oppure è composto da etiche comprensive anche ragionevoli, ma necessariamente plurali? La risposta a questa domanda, se c'è, è indiretta e si trova nel capitolo sull'esemplarità dello spazio pubblico, dove Ferrara svolge una rilettura, molto apprezzabile e tesa, della ragione pubblica di Rawls di Liberalismo politico. Qui Ferrara sembra accogliere l'idea rawlsiana del pluralismo ragionevole delle concezioni comprensive dovuto agli oneri della ragione. Tuttavia poi egli si discosta dalla soluzione "politica" rawlsiana e dalla sua complessa architettura della triplice giustificazione che in ogni caso "parte" dalla premessa degli individui come liberi e eguali, premessa che Rawls "trova" entro la tradizione liberale. Rispetto a Rawls, Ferrara vuole sottrarre la ragione pubblica alla contingenza del consenso e dei principi condivisi solo nei fatti per ancorarla all'universalità concreta e situata del giudizio (riflettente). Come ciò possa avvenire però rimane un po' misterioso.

Ritorniamo per ora al rapporto fra l'esemplarità e il mondo ideale, da cui ero partita. Nell'esempio noi riconosciamo l'universale incarnato in virtù della relazione di riuscitezza, di appropriatezza, di autoconguenza che è ciò che ci fa dire di un'azione, opera, condotta che è esemplare. Il giudizio è reso possibile da "un'universalità basata sul sentimento del piacere" (p. 50) che mettendoci in contatto con l'oggetto del giudizio attinge al senso, comune a tutti gli umani, che individua la promozione e agevolazione della vita in termini di realizzazione autentica del sé. Se capisco bene, l'universalità del giudizio non dipenderebbe né da un orizzonte comune di conoscenza condivisa (soluzione fenomenologia-ermeneutica), né da una comune facoltà percettiva assimilabile agli schemi conoscitivi (soluzione riduzionistica, vuoi trascendentale vuoi naturalistica), ma da una (pur sempre comune) capacità di lasciarci trasportare dal sentimento di piacere suscitato da un oggetto alla considerazione dello stesso come rappresentazione esemplare di sé. Si tratta di un'universalità che scaturisce da due fonti che lavorano insieme: da una parte il comune sentimento del piacere per la vita che fiorisce, non riconducibile allo schematismo, ma pur sempre costitutivo di un hardware della mente umana, anche se sul lato passivo del sentire anziché sul lato attivo del dare forma; dall'altro la speciale relazione dell'oggetto con sé stesso, che sta nell'oggetto, e che quel comune sentire consente di cogliere, e di elevare a rappresentazione esemplare, ossia esemplificativa dell'ideale, di se medesimo. Non è però a questo punto ovvia la normatività dell'esempio: esso suscita ammirazione, al di là del suo contesto, ma da ciò non segue che ne sia raccomandata l'imitazione. Certo non segue nel mondo dell'arte, dove l'universalità è connessa alla sua unicità. Forse è diverso in etica e in politica dove l'azione esemplare è da sempre additata come fonte di ispirazione per disciplinare le condotte verso la virtù. E tuttavia qui io vedo un problema con la definizione della normatività esemplare descritta da Ferrara.

Seguendo Korsgaard, (2) Ferrara ritiene che l'esempio sarebbe esempio di un'identità rappresentata al meglio e, dunque, che esplicherebbe una relazione di autenticità dell'oggetto con sé stesso. Questa tesi è importante per Ferrara perché gli consente di affermare che l'universalità dell'esempio è "senza principi". In altri termini, l'esempio non sarebbe l'incarnazione, magari innovativa, di principi che fanno parte degli ideali, creando così quel ponte fra "cose" e ideali da cui si era partiti. Se così fosse la forza dell'esempio sarebbe parassitaria sugli ideali e il paradigma del giudizio un utile ausilio al giudizio pratico. Invece Ferrara vuole sottolineare l'indipendenza, in linea teorica, dell'esempio da principi, e per questa via anche la sua forza innovatrice, la sua capacità di immettere il nuovo nel mondo dei fatti e di renderlo possibile indicando una strada. Se però l'esempio è esempio di se stesso, il suo valore è sì universale, e l'ammirazione che suscita va certo al di là del contesto in cui si è prodotto, ma non è chiaro che si raccomandi in altre circostanze, fuori e dentro il contesto. Facciamo qualche caso. Le assemblee cittadine delle comunità del New England sono spesso citate come modelli esemplari di democrazia partecipativa; sono state oggetto di studio per evidenziarne circostanze, condizioni e meccanismi di funzionamento; ma appunto, in quanto esemplari, sono anche state giudicate inesportabili se non, caso mai, nei principi e nelle virtù che le animano che tuttavia devono essere adeguatamente applicati altrove. Questo non significa che, oltre a essere oggetto di ammirazione, non ci insegnino niente, ma il loro insegnamento passa per così dire per i principi e il giudizio pratico. Un altro caso esemplare è l'Università di Harvard da tutti ritenuta e giustamente modello di eccellenza universitaria: di nuovo, tutti concordano nella sua irriproducibilità fuori dal suo contesto, mentre forse, auspicabilmente, potrebbero essere diversamente incarnati alcuni principi che quell'istituzione splendidamente rappresenta.

Insomma a me sembra che il paradigma del giudizio non può fare tutto quello che Ferrara vorrebbe che facesse. Tant'è vero che, nella seconda parte del volume, che io ho molto apprezzato e che condivido per la gran parte, Ferrara, secondo me, mette in campo un'esemplarità diversa da quella descritta nella prima. Intanto, per essere positiva, questa esemplarità deve essere orientata dall'idea di eguale rispetto che io non riesco a vedere diversa da un principio, un principio che funziona come vincolo collaterale a progetti, disegni e azioni. Secondo, l'esemplarità è certo legata a un caso concreto ma ha voce universale se mette in luce qualcosa che va oltre il caso concreto e che non è legato a quella identità, tanto da poter essere immaginato come riproducibile in un'altra incarnazione. Quello che va oltre può essere un principio già noto che assume particolare vividezza e salienza, o una sua estensione innovativa, o anche l'affermazione di un principio nuovo che l'esempio permette di riconoscere. In ogni caso, c'è sempre un qualcosa che viene visto come non dipendente necessariamente da quel contesto, da quella incarnazione. Altrimenti, come la Gioconda, diventa irriproducibile pena la perdita di ogni valore.


Note

*. Professore ordinario di Filosofia politica, Dipartimento di Studi Umanistici, Facoltà di Lettere e filosofia. Università del Piemonte Orientale.

1. Iride, 55 (2008).

2. Chr. Korsgaard, The Sources of Normativity; Cambridge, Cambridge University Press, 1996.