2009

Replica dell'autore

Alessandro Ferrara

Comincio con l'esprimere la mia gratitudine alla direzione e alla redazione di Jura Gentium per questa discussione sul mio libro The Force of the Example. Si capisce veramente quello che si è riusciti a dire - rispetto a quello che si aveva intenzione di dire - solo quando si leggono i commenti e le reazioni altrui. E dalle osservazioni qui proposte dai tanti colleghi che hanno investito il loro tempo nel leggere questo libro ho tratto tantissimi stimoli e motivi di ulteriore riflessione, che spero daranno dei frutti più in là nel tempo. Ringrazio anche loro per la cura e la passione che hanno messo in questa discussione e spero di rendere loro almeno parzialmente giustizia in questa replica. L'ordine delle risposte è praticamente casuale, dipende dall'ordine in cui mi sono arrivati i testi, dal modo in cui sono rimasti disposti sulla mia scrivania, in qualche caso dalla curiosità suscitatami da determinate obiezioni, da tante altre cose. Ho scelto di rispondere singolarmente e non di aggregare per temi il materiale, anche a costo di qualche parziale ripetizione, spero minimizzata, perché questo mi consente un dialogo più personale che entra nel vivo di quella che intuisco essere la preoccupazione avvertita con maggiore urgenza da ciascun intervenuto.

Inizierò con l'intervento di Tonino Griffero, che vorrei qui ringraziare per lo stile di discussione limpido e puntuale: un critico così costruttivo ed equilibrato è il migliore aiuto per qualsiasi autore. Griffero solleva obiezioni e critiche che ricadono in tre ambiti. In primo luogo, da studioso di estetica, mette in questione lo sfondo di nozioni estetiche sotteso al paradigma esemplarista-giudizialista come uno sfondo datato. In secondo luogo, Griffero rimette in discussione il potenziale del paradigma di fornire un modello di universalismo che sia veramente al riparo dalla contingenza. In terzo luogo, lo sguardo critico si concentra sulla ambizione, articolata nella ricostruzione del sensus communis di cui al Capitolo 1 de La forza dell'esempio, di evitare le secche filosofiche di un naturalismo pre-svolta-linguistica.

Nel primo punto ricadono quattro domande più specifiche. Primo, non c'è il rischio di stabilire un rapporto circolare fra esistenza ed arte? Se l'opera ben riuscita dispiega il suo effetto estetico perché evoca la riuscitezza di una vita umana, ciò appare possibile in quanto sappiamo già cosa sia una vita riuscita: ma come e da dove lo sappiamo? La risposta è che il rischio di circolarità sussiste soltanto se mettiamo l'accento, mentalmente, sul verbo "sapere". Allora in effetti è l'esperienza estetica a dipendere da un sapere intorno alla vita riuscita, né si vede come l'esposizione all'opera d'arte possa nutrire il nostro discernimento in merito. Ma accanto a questa interpretazione estrema ve ne è almeno un'altra, che favorirei e a mio avviso non si rende vulnerabile a questa obiezione. In base a questa seconda interpretazione, a proposito della vita umana ben riuscita possediamo non tanto un sapere, ma un insieme di intuizioni riguardo ai suoi ingredienti, intuizioni che bilanciamo in un quadro più o meno coerente grazie a una phronesis che non può lasciarsi ridurre alla applicazione di una sophia, ma può essere intesa come la capacità di cogliere come un elemento va ad inserirsi ed eventualmente a influenzare un insieme simbolico - si tratti di un'identità, un testo, un'opera d'arte, una tradizione e così via. Da questo punto di vista, la posizione che vado sviluppando si richiama piuttosto alle virtù dianoetiche aristoteliche del Libro VI dell'Etica Nicomachea, innestandole però su un quadro che è divenuto moderno nei due assunti a) dell'autonomia del soggetto e b) della irriducibile differenziazione delle sfere di valore. Dentro questo quadro, diverso da quello originario entro cui Aristotele pensò il nesso tra phronesis e vita buona, permane tuttavia una disposizione strutturale degli elementi filosofici che è simile. La vita buona non è il risultato dell'applicazione di un sapere ma è piuttosto la vita che viene condotta, a partire da intuizioni, alcune delle quali sono in qualche modo pre-culturali, dalla persona dotata di una phronesis sviluppata. E l'esperienza estetica del piacere collegato all'opera d'arte costituisce sia una simbolizzazione di questa capacità fronetica, trasposta sul piano della congruenza e integrazione dei materiali estetici, sia un nutrimento di essa che conduce a un suo affinamento (come nella teoria schilleriana dell'educazione estetica).

La seconda domanda di Griffero inerente allo sfondo estetico del paradigma esemplarista-giudizialista riguarda la capacità di uno stile e, trasponendo lo schema in ambiti non-estetici, di una visione politica o religiosa, di "orientare" il nostro agire. L'esemplarità più pronunciata ha come effetto di cambiare uno stile divenuto maniera, e qui la forza dell'esempio "con uno e un solo gesto" ci apre nuovi modi di vedere ciò che esiste e nuove dimensioni del dover essere. Allora, argomenta Griffero, "se esemplare è uno stile, esso è riconoscibile come tale a rigore solo quando cessa di essere davvero per tutti esemplare", quando "lo si può guardare 'da fuori'", a partire da un punto di vista che non è più il suo, ma che è quello poniamo di uno stile ancora successivo. In altri termini, c'è un punto T1 in cui abbiamo di fronte quadri di Monet, Degas, Manet ed altri e questi dispiegano il massimo di esemplarità rispetto al quadro della pittura ad essi contemporanea; c'è un punto T2 in cui qualcuno raggruppa la forza esemplare dispiegata da queste opere sotto il denominatore comune di impressionismo; e c'è un punto T3 a partire dal quale l'impressionismo diventa uno stile accanto ad altri e con il suo posto nella storia dell'arte, nonché con una sua successiva fortuna storica. Applicando questo ragionamento, Griffero si domanda se l'esemplarità di ciò che è rawlsianamente "più ragionevole" per noi non ci diventi accessibile solo "a cose fatte", ex-post, e dunque non si riveli "tragicamente fuori gioco proprio là dove dovrebbe servire, e cioè nell'urgenza del momento deliberativo". A rafforzamento di questo ragionamento, cita come questa distanziazione temporale sia da me invocata nel caso del male radicale, laddove sostengo che nessuno compie il male deliberatamente (e persino i nazisti sostenevano di perseguire una idea del bene) e che le comunità morali, quando designano qualche momento della loro storia come un esempio di male radicale, già ne hanno implicitamente preso le distanze.

Proprio questa constatazione, a mio avviso, ci segnala una importante asimmetria fra il caso del male radicale e quello dell'esemplarità positiva. Solo nel caso del male radicale c' è necessariamente bisogno di un momento intermedio in cui ciò che pensavamo fosse un bene - la purezza razziale, ad esempio - ci si rivela essere la fonte di qualcosa che non possiamo non riconoscere come radicalmente malvagio, la Shoa. Invece nel caso dell'esemplarità positiva - l'elezione del Presidente Obama come esemplare realizzazione del principio di eguaglianza - noi possiamo valutare questa esemplarità in contemporanea, e in alcuni casi anticiparne il significato: se Barack Obama fosse eletto... In questo caso si tratta di una esemplificazione abbastanza lineare di un principio già noto ed accettato, quindi non è difficile cogliere la portata dell'evento in questione, in altri casi può essere assai meno semplice, soprattutto quando il principio non si è ancora affermato. Ad esempio, quando Warren e Brandeis argomentano, per la prima volta nel 1896, che la persona possiede una sfera della "privacy" che non è dato agli altri penetrare senza autorizzazione, colgono l'esemplarità di qualcosa (nel loro caso attraverso l'esperienza negativa di una cerimonia nuziale del 1896 disturbata da flash fotografici troppo frequenti e insistenti) che ci metterà qualche decennio ad essere oggetto di riconoscimento. Nulla vieta di costruire - accanto all'idea kantiana di "genio" come istanza produttrice di esperienze estetiche - una parallela idea di "genio interpretativo", come capace di assottigliare fin quasi alla coincidenza quegli ideali momenti T1 e T2 in cui abbiamo l'esposizione all'oggetto esemplare e il suo riconoscimento come tale, ovvero una competenza "geniale" in quanto come capace cogliere l'esemplarità prima che divenga maniera. Infine, ricordando che abbiamo operato una distinzione fra esemplarità come "legge a se stessa" ovvero creazione di normatività originale ed esemplarità come incarnazione di una normatività già riconosciuta, si può rispondere che solo in questo secondo caso registriamo una necessaria antecedenza e consolidamento della normatività, mentre nel primo caso non si va oltre l'ovvio requisito che - come con ogni processo di riflessione - la cosa, l'evento, l'azione abbia avuto luogo affinché lo si possa valutare esemplare o meno.

La terza domanda di Griffero, in questo primo ambito problematico, mi sembra trascurare una differenza di piani che forse non ho messo sufficientemente in luce. Se affermo che "qualsiasi nozione di riuscitezza estetica dell'opera d'arte ovviamente deve restare indipendente da specifiche poetiche", ciò non significa che io dia per scontato "un modello di 'perfezione' acquisito (chissà come) al di fuori di qualsiasi dogmatica locale e situata" né che io finisca per escludere il carattere "concreto" e "singolare" dell'universalità. La distinzione che spiega come l'una cosa non implichi l'altra è la distinzione fra il piano dell'oggetto, in questo caso dell'opera d'arte, e il piano della riflessione filosofica su ciò che il giudizio intorno alla sua riuscitezza presuppone. L'opera non può non essere collocata dentro un tessuto stilistico, così come noi non possiamo parlare tout court senza parlare una lingua. Ma l'idea di grammaticalità di una frase entro una lingua non necessariamente deve essere formulata in quella stessa lingua, ad esempio posso affermare in italiano che la frase "He go home " in inglese non è grammaticale. Così per parlare della riuscitezza di un'opera d'arte non necessariamente dobbiamo assumere i parametri di uno stile. Sarebbe come pensare che il concetto di grammaticalità vada espresso in una lingua particolare e solo in quella abbia rilevanza. Né più né meno che questo è il senso della esortazione a formulare una nozione di riuscitezza estetica indipendente da specifiche poetiche - anche se non sono mancate in passato estetiche, come quella di Lukács, che cercavano di ancorare la riuscita estetica di un romanzo ad una poetica realista.

Le ultime due domande di questa prima sezione dell'intervento di Griffero sono particolarmente importanti perché riguardano la qualità delle "fonti estetiche" di una concezione esemplarista e giudizialista della validità. Se l'estetica - come più volte sottolineato ne La forza dell'esempio - fornisce un modello della validità buono anche per campi non estetici, è importante chiedersi "quale estetica" vada presa a riferimento. L'obiezione è che sottesa al paradigma giudizialista sarebbe una "filosofia dell'arte passata, risalente a due secoli fa, e comunque non certamente all'altezza dell'arte contemporanea, caratterizzata dalla 'morte dell'arte' o quanto meno da un'arte 'non più bella'". Insomma, quello che si concedeva ancora mezzo secolo fa, ad esempio da parte di Pareyson, ossia che "l'esemplarità (artistica) consista nell'universalità di una irripetibile forma singola che fornisce gli stessi criteri con cui deve essere giudicata, che l'opera esemplare vada considerata inimitabile come risultato ma perfettamente imitabile nella sua efficacia dinamico-operativa da epigoni congeniali, e così via, appare difficilmente accettabile al cospetto di opere ormai tanto 'aperte' da sfidare paradigmi che appaiono in tutto e per tutto sintonizzati su un ideale classicistico-organicistico quasi-winckelmanniano".

A questa sfida si può rispondere che una concezione esemplarista e giudizialista della normatività non è necessariamente vincolata a una specifica dottrina estetica o famiglia di dottrine estetiche, più di quanto l'impianto della Critica della ragion pura e l'intuizione filosofica del "giudizio sintetico a priori" siano condannate a perire per mano di Einstein e del suo rimettere in questione la fisica newtoniana. Più in specifico, non a caso utilizzo l'espressione "opera d'arte riuscita" e l'innegabilmente brutto sostantivo "riuscitezza" (con il quale intendo tradurre il tedesco Gelungenheit) e non l'aggettivo "bello". In questo senso, la riflessione filosofica qui condotta sul tema della validità e delle sue fonti esemplariste si pone come una radicalizzazione riflessiva del paradigma dell'estetica: non assume in alcun modo "il bello" come categoria di riferimento, anche se alcuni passi di esegesi kantiana possono forse essersi prestati a questo equivoco, ma intende il bello come una particolare declinazione che il valore estetico o la "riuscitezza" di un'opera assume all'interno di talune dottrine estetiche. L'arte "post-classicista" o "non più bella" non costituisce quindi una difficoltà, ma solo un indicatore del fatto che l'idea di opera "riuscita" ha storicamente mutato in qualche modo di segno. Il vero punto che riaffermerei, e che mi sembra non toccato dall'obiezione, è che qualunque dottrina estetica non può non fare perno su due distinzioni cruciali ai fini del paradigma del giudizio. La prima è la distinzione fra arte e non-arte: non si può dare dottrina estetica che non concettualizzi in qualche modo il confine fra ciò che conta come "arte" e ciò che è esteticamente "inerte". Persino un'esposizione di Fontana di Duchamp, e qualunque teorizzazione critica su questa opera, non può non partire dal presupposto che qualcosa differenzia l'opera a forma di orinatoio da un oggetto che funzionalmente è un orinatoio. Che si tratti di markers contestuali, quali la presenza in un allestimento museale, di riferimenti all'intentio autoriale o altro, qualcosa deve distinguere l'oggetto artistico da ciò che non è arte - per esempio da un manufatto con destinazione puramente funzionale, quale un cacciavite o una spillatrice. In secondo luogo, qualsiasi estetica deve elaborare al proprio interno una concettualizzazione di ciò che costituisce un oggetto artisticamente riuscito da un fallimento. Altrimenti non ci troveremmo in presenza di un'estetica senza nozione di "bello", ci troveremmo di fronte a un'impresa meramente descrittiva. Dunque l'arte "non più bella" non per questo è meno "riuscita" di quella neoclassica. E all'idea di riuscitezza soltanto, non già a una in particolare delle sue declinazioni storiche, fa appello il paradigma del giudizio.

Il secondo ordine di problemi sollevati da Griffero riguarda una tensione, a suo avviso presente, tra il "voler difendere un valore atemporale del modello esemplarista (irricevibile infatti quando vigono principi indiscussi e intuizioni monistiche)" e il fatto che esso "vale soprattutto nell'epoca della svolta linguistica". Il risultato è che "la forza dell'esempio diviene ... un modello solo contingente, che vige non indipendentemente da ciò che siamo storicamente divenuti". E se e quando cesseremo di essere quello che siamo? Non c'è il rischio che l'esemplarità sia un modello di validità limitata, il quale "cessi di valere non appena intervengano fatti storici nuovi"? In tal caso non finiremmo con l'interrogarci più sulla persistenza delle condizioni storiche che rendono il paradigma esemplarista-giudizialista adeguato, o sul fatto che noi continuiamo a essere "noi", che non sui suoi intrinseci meriti?

Credo che in questo caso la risposta non possa non rilevare il carattere estrinseco dell'idea di validità presupposta implicitamente dalla domanda - una validità che viga "indipendentemente da chi noi siamo" - rispetto al paradigma del giudizio. La storia della filosofia è piena di cesure fra mondi filosofici che non consentono più di realizzare quelle "prestazioni del pensiero" che in mondi antecedenti erano viste come possibili e auspicabili. La filosofia trascendentale di Kant non consente più di porre come impresa sensata la conoscenza delle cose in sé, ma restringe la validità cognitiva al dominio delle cose oggetto di esperienza, ai fenomeni in quanto cose che "appaiono a noi", e la sua filosofia morale non consente più, rispetto a quella del mondo classico, di affrontare come sensata la domanda "Perché agire moralmente?" se non nella chiave di una esplicazione della natura di un soggetto già moralmente orientato. Anche la filosofia di Hegel, che pure mira a ristabilire l'identità di soggetto e oggetto e a riguadagnare un senso possibile per la conoscenza di ciò che è in sé, paga questa riacquisizione al prezzo di un distacco dalla intemporalità del modello trascendentale: l'Assoluto emerge nella e dalla storia, l'infinito si afferma nella processualità del finito. Non vedo quindi tensione fra la constatazione di natura genealogica, da un lato, che il porre l'esemplarità come una fonte della normatività è una mossa filosofica divenuta pensabile e auspicabile soltanto a un certo punto di una certa narrazione filosofica sul nostro modo di concepire la validità, ossia quando la svolta linguistica ha messo a nudo i limiti della filosofia del soggetto, e dall'altro la rivendicazione che l'esemplarità è il modo in cui noi possiamo liberarci dalla tirannia del contesto e rivendicare una cogenza "ultra-locale". Vedo qui piuttosto un bootstrappingo un "afferrarsi per il codino" in qualche modo "virtuosi", che evitano al paradigma giudizialista di avvilupparsi in una mortale contraddizione performativa: il sostenere che l'esemplarità singolare è fonte di normatività non solo estetica, e poi giustificare questa proposizione in una chiave vetero-universalista ed antiesemplare, come valida in tutti i tempi e tutti i luoghi. Il poter valere, da parte di questa concezione esemplarista della validità, anche in un futuro o in luoghi culturali che non condividono il nostro percorso, non può essere dissimile dal modo in cui si dispiega la forza dell'esempio. Se altri saranno ispirati da questa visione della validità, non potrà essere in virtù di altro - coerentemente con la teoria - se non della eccezionale congruenza che si può storicamente mostrare fra esemplarismo e filosofia occidentale post-svolta-linguistica.

C'è un punto della domanda di Griffero che richiede una riflessione supplementare: e se noi cambiamo, se noi cessiamo di essere quelli che siamo adesso? Non verrà con ciò meno anche il valore esemplare di una certa concezione della validità? Sicuramente si, nel senso che non ci sarà più una soggettività la eccezionale congruenza con la quale può riverberare l'esemplarità di una concezione esemplarista della validità. Parafrasando il famoso detto di Ernest Renan, l'adesione a un paradigma generale per pensare la validità è un "plebiscito filosofico di tutti i giorni", non esiste una garanzia esterna che continui a valere e certamente questa garanzia non può essere pensata coerentemente con un quadro esemplarista. Altre forme di soggettività possono entrare nel medesimo rapporto con altre concezioni della validità: per esempio, una forma di vita ancorata a un tradizionalismo religioso potrà esemplarmente riflettersi in una concezione profetica o rivelatoria della validità, piuttosto che in una concezione riflessivamente esemplarista. Ma noi, noi occidentali del 21° secolo, dubito che potremo disfare ciò che siamo e ritornare a riconoscerci in qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle. In ciò sta il momento di verità della filosofia di Hegel. I modelli di normatività che ci siamo lasciati alle spalle possono ritornare, ma non nella stessa modalità in cui si davano quando non nutrivamo alcun dubbio su di essi. Ciò non esclude ovviamente che il paradigma entro il quale pensiamo oggi la validità normativa possa cambiare e che noi, che certamente non possiamo intenderlo come un pezzo dell'arredo immutabile dell'universo, possiamo immaginare che cambi. Ma la possibilità di una verità diversa è un concetto vuoto, mera virtualità senza contenuto. E, ciò che è più importante, rimane filosoficamente inerte.

Rispondo infine alla terza serie di osservazioni addotte da Griffero, incentrate sulla mia ricostruzione del concetto di sensus communis, la quale ambisce a tenersi egualmente distante tanto dal minimalismo naturalistico kantiano quanto dall'ispessimento sostanzialistico del sensus communis operata dalle tradizioni fenomenologica (in versione soprattutto schutziana) ed ermeneutica. Se rigettiamo ogni forma di naturalismo, come è possibile "che sia 'intuitivamente' comune a tutti l'esperienza di ciò che per un essere umano significa affermazione o frustrazione della vita?" E ancora: "si ha un bel dire che l'area identitaria, formata dall' 'intersezione fra le identità delle parti in conflitto' (p. 61), ed evidentemente ottenuta per sottrazione di specificità e originalità storico-culturali, andrebbe ipoteticamente 'collocata topograficamente prima della biforcazione che separa le parti in contesa' (p. 62). Ma come si può escludere la valenza naturalistica di tale intersezione?" Questa obiezione fornisce l'occasione per chiarire meglio ciò che forse è rimasto implicito ne La forza dell'esempio.

In nessun modo intendevo affermare che si possa cogliere, via intuizione o con altri mezzi, un nucleo sostantivo sotteso a ogni idea di affermazione o frustrazione della vita, il quale poi si arricchirebbe di determinazioni storiche e culturali per assumere le sembianze che sono riconosciute come familiari da ogni membro di una cultura data. E ancor meno sostenibile mi pare la tesi per cui questo nucleo, se pure esistesse, avrebbe un ancoramento in qualcosa chiamato "natura". Ciò che intendo sostenere è piuttosto che comune a ogni essere umano è l'esperienza del sentire che la propria vita sta fiorendo o stagnando, secondo le coordinate sue proprie, così come comuni sono l'esperienza della paura della morte, dell'avversione alla sofferenza, dell'avere o essere un corpo, del ritrovarsi entro trame di significato non create da noi, dell'appartenere a uno dei due generi sessuati, dell'interrogarsi sul perché della finitezza, della sofferenza e della discrepanza fra merito e fortuna. Queste esperienze sono ovviamente codificate in modi altamente differenti nella pluralità delle culture e queste codificazioni a loro volta mutano nel tempo, ma nondimeno sono riconoscibili come variazioni di qualcosa che è "equi-accessibile" da una pluralità di angolature di provenienza. Non è facile neppure nominare queste esperienze senza inserirle immediatamente in un codice culturale, però l'obiettivo a cui una ricostruzione filosofica del sensus communis può e deve mirare è quello di articolare un qualche senso dell'espressione "fiorire o stagnare di una vita umana" il quale possa godere di questa qualità di "equi-accessibilità" e possa essere incorporato come un modulo all'interno delle ben più corpose concezioni, culturalmente condivise, di cosa voglia dire affermazione o mortificazione della vita, realizzazione o frustrazione, felicità o disperazione.

Il senso di questa operazione può essere meglio illustrato accostandola a quella compiuta da Rawls quando in Liberalismo politico suggerisce che un ordinamento liberal-democratico legittimo non deve poggiare affatto su una concezione comprensiva del bene condivisa fra tutti, ma può reggersi sul "consenso per intersezione" dato dai suoi cittadini, liberi ed eguali, ad una "concezione politica della giustizia", incarnata in pochi elementi costituzionali essenziali, la quale possa essere modularmente compatibile con la pluralità di concezioni comprensive ragionevoli che sono sottoscritte dai cittadini stessi. La "giustizia come equità", con i suoi due principi di "eguali libertà" e di "differenza", è soltanto l'ipotesi che Rawls avanza per ricostruire filosoficamente il contenuto di una tale concezione politica della giustizia. Interessante è in questo caso l'esportabilità inversa, dalla filosofia politica all'estetica, di questo modello. La riflessione filosofica può anticipare e costruire ipotesi sul nucleo normativo di una concezione politica della giustizia o di un sensus communis e in ciò illuminare le ragioni per le quali possiamo attenderci consenso intorno ai nostri giudizi. A loro volta queste ipotesi possono essere suffragate o superate da altre che risultano migliori in quanto meglio in grado di rendere conto dell'allinearsi - fino ad equilibrio riflessivo - dei giudizi singoli con le attese generate dal modello di "concezione politica della giustizia" o di sensus communis ricostruito, per dirla con Rawls, in modo freestanding. In nessun caso possiamo equiparare questa operazione filosofica alla ricostruzione - via intuizione, metodo trascendentale o fenomenologico - di un'essenza dell'umano che successivamente "si realizza" nella molteplicità delle manifestazioni storiche e culturali. Non c'è, in questa esportazione del "costruttivismo politico" rawlsiano a modello di un più generale paradigma del giudizio, alcun momento in cui venga invocata una "naturalità" di ciò che viene ricostruito, ad esempio una naturalità delle dimensioni della realizzazione di un'identità. C'è solo un costruire ipotesi su aree di intersezione, su momenti normativi trasversalmente accessibili ed integrabili in una pluralità di prospettive, e il verificare che queste tengano davvero.

Questo modo di intendere il procedimento vale ovviamente anche per le dimensioni della realizzazione di un'identità, sia individuale sia collettiva. Coerenza (intesa come coesione, continuità e demarcazione da ciò che è altro), vitalità (intesa come percezione del meritare amore, di pienezza e riconciliazione, adesione alla vita, immediata presenza e genuinità del Sé), profondità (intesa come autoconoscenza, autonomia e autosufficienza) e maturità (intesa come senso della realtà, flessibilità, commensuratezza nella scelta dei propri fini, tolleranza dell'ambivalenza e saggezza) (vedi Autenticità riflessiva, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 124-91) sono dei nomi, scelti all'interno di un lessico filosofico costruito a partire dalla teoria psicoanalitica, per designare delle dimensioni che avvertiamo salienti in quanto "possessori di identità", ovvero potenziali respondentsalla domanda "chi sono?" o anche "chi siamo?". Non si vede come potremmo nominare alcunché fuori da un lessico, eppure ciò che nominiamo aspira in questo caso solo ad essere un campo di rilevanza, che poi le culture organizzano secondo opposizioni, gerarchie, tensioni, affinità, ecc. Le dimensioni, come costrutti concettuali, sono dei segnaposto consapevoli della loro origine locale - dobbiamo essere consapevoli della loro fungibilità, così come Rawls ha sempre evitato di suggerire che la giustizia come equità sia l'unica concezione politica della giustizia possibile, senza che ciò possa inficiare la tesi che sia almeno una delle concezioni politiche equicompatibile con le concezioni del bene presenti nelle società liberal-democratiche moderne. Questi segnaposto tuttavia stanno ad indicare un campo esperienziale che può fare da ponte, senza ricadere nell'essenzialismo naturalista, fra la pluralità delle culture e delle epoche storiche. E la riflessione filosofica può assumersi il compito di fornircene una sempre più accurata ricostruzione senza con ciò mutare i presupposti di fondo dell'impianto giudizialista.

Diverso è lo status dell' "eguale rispetto" come ideale normativo sotteso agli ordinamenti liberali moderni. Qui ha ragione Griffero a notare che il suo essere un ideale "irricusabile per noi" lo pone come nozione sicuramente "non extra-locale". Ma l'idea di eguale rispetto ambisce a porsi come l'intuizione normativa che guida i nostri giudizi in materia di giustizia - ciò a cui la giustizia in qualche modo risponde per noi occidentali moderni. Si tratta di un'idea che ci permette di mettere a fuoco altre nozioni fondamentali della filosofia politica, ad esempio quella di legittimità, di obbligo politico, di giustificazione politica, e di cogliere che cosa intendiamo con "senso di giustizia". E' però collegata così intimamente, per il momento, solo all'identità morale e politica occidentale - tanto che ne Il diritto dei popoli (Torino, Edizioni di Comunità, 2001) John Rawls esclude l'ipotesi di elaborare un'unica strategia giustificativa, centrata su un'unica istanza della posizione originaria, per argomentare a favore degli otto principi che sarebbero alla base di una Società dei Popoli. Ciò non significa che l'idea di eguale rispetto non possa candidarsi ad essere un'idea normativa stricto sensu universale in quanto sottesa a tutte le culture umane, e non possa un giorno effettivamente esserlo. Significa soltanto che quel momento non è ancora venuto.

Queste riflessioni ci permettono di apprezzare un altro vantaggio dell'approccio esemplarista. Lungi dal presupporre che l'ideale dell'eguale rispetto sia già da ora vincolante per tutti alla maniera in cui i principi fondazionalisti lo erano, ed egualmente lungi dal ridurre l'eguale rispetto a una "usanza locale" affermatasi e per adesso vigente in una parte per quanto ampia del globo, possiamo cogliere la cogenza potenzialmente ultra-locale del principio dell'eguale rispetto proprio sulla scia della forza dell'esempio. E' la sua assoluta congruenza con chi noi siamo che muove l'immaginazione e ispira altri, diversamente situati, ad interrogarsi sul suo valore e sul suo meritare emulazione. Non è forse l'esemplare realizzazione del principio che è racchiusa nell'elezione del Presidente Obama ad avere suscitato attrazione, meraviglia, e desiderio di emulazione in molti angoli del mondo, molto più di qualsiasi argomentazione normativa a partire da principi?

Ringrazio Elisabetta Galeotti per le sue osservazioni e il riconoscimento che esplicitamente e generosamente offre al mio sforzo di articolare una posizione che, nel novero di quelle che cercano di coniugare insieme universalismo e pluralismo, cerca di aprire una strada, non ancora battuta, lungo un sentiero non-procedurale. Con piacere cerco quindi di sciogliere le sue perplessità circa il fatto che il modello da me proposto possa in effetti ad assolvere i compiti che si propone di risolvere.

Inizio dall'obiezione secondo cui il giudizio riflettente, in quanto mira a riconoscere l'esemplarità di accadimenti e la loro capacità di mettere in moto l'immaginazione, non costituirebbe "un'alternativa alla conoscenza causale dei fatti" e dunque non fornirebbe "risposte alle questioni epistemologiche del relativismo e del realismo", né ci aiuterebbe "ad affrontare il problema della verità". Dal che segue che il giudizio riflettente "è una modalità conoscitiva a sé che si aggiunge e illumina un aspetto della realtà e del nostro rapporto ad essa, ma non porta acqua, né la toglie, a una posizione post-metafisica (...)". Sarebbe dunque "ridondante, e indirettamente fonte di confusioni, il riferimento alla svolta linguistica, al realismo contemporaneo e alla opzione post-metafisica".

In questa domanda si fondono due cose diverse. E' certamente assodato che il giudizio riflettente non intende soppiantare la conoscenza causale dei fatti. Il punto è che sopperisce alla incapacità dei modelli nomologici di conoscenza di rendere conto della sensatezza del loro modo di ritagliare l'oggetto della conoscenza dal continuum del mondo e del loro scelgono scegliere determinati concetti e non altri per identificare le variabili in gioco, e del loro porre un certo rapporto fra gli indicatori osservabili e le variabili a cui essi putativamente, ma spesso contestabilmente, rimandano. Ovvero: i modelli nomologico-causali operano solo dopo che il lavoro ermeneutico è stato fatto, ma tendono a dimenticarsene e a proporsi come uno "specchio della natura" (o dei processi sociali) in cui si riflettono i fatti. Il riferimento alla svolta linguistica è invece pertinente perché ha esattamente rimesso in questione, a partire dall'opera di Wittgenstein, di Heidegger, di Quine, e prima ancora nella riflessione metodologica di Weber, l'inconsistenza della pretesa di "rispecchiare i fatti", ivi inclusi i processi causali fra i fatti, come programma filosofico che rimane silente riguardo alle operazioni selettive presupposte dai concetti con cui categorizziamo i fatti. Allora la rilevanza del paradigma esemplarista-giudizialista sta nel rendere possibile un approccio nuovo alla domanda intorno a cosa rende uno schema concettuale, un frame, paradigma più promettente di un altro - posto che la svolta linguistica ci ha insegnato che il ricorso ai fatti come discriminante può avvenire solo dopo che abbiamo uno schema attraverso cui guardarli e dunque non può concorrere, se non in maniera molto parziale e indiretta, alla selezione dello schema stesso. Il punto centrale di questo approccio nuovo sta nel mettere in risalto quello che le posizioni ermeneutiche, fenomenologiche, proceduraliste e pragmatiste - pur ciascuna a loro modo scettiche nei confronti della metafora dello "specchio" - tendono a trascurare: il rapporto di congruità esemplare fra schema e soggettività che lo utilizza, congruità esemplare che si traduce in una "irrecusabilità per ragioni interne" (diventerei altro da me/noi se non adottassi questo schema).

Elisabetta Galeotti condivide con me l'interesse per la filosofia politica di John Rawls e quindi la sua lettura critica della mia ricostruzione della "normatività del ragionevole" e della ragione pubblica mi è preziosa per puntualizzare alcuni aspetti del rapporto fra esemplarità e norma. Non è esatto affermare che io mi discosto dalla soluzione "politica" proposta da Rawls al problema di quale base normativa possa essere sottesa a un ordinamento politico caratterizzato dal pluralismo ragionevole. Al contrario, io trovo quella soluzione un vero colpo d'ala filosofico che rompe uno schema di gioco durato 25 secoli: il filosofo in solitario si avventura fuori dalla caverna, contempla un'Idea e ritorna indietro (per motivi che rimangono da determinare) nella caverna affrontando ogni sorta di ostracismo prima di potere affermare il suo giusto titolo a organizzare la convivenza intra-cavernicola sulla base dell'Idea normativa contemplata all'esterno. La "giustizia come equità" - nella versione offertane in Liberalismo politico, non certo in quella offertane da Teoria della giustizia, che rimane in parte ancora entro il vecchio schema - rompe con questo schema proponendosi come qualcosa di diverso. Assumendo che non soltanto uno ma più di un cavernicolo si sia avventurato fuori, e che i resoconti che esseri finiti e limitati forniscono dell'Idea normativa contemplata all'esterno sono resoconti in parte convergenti in parte divergenti, la soluzione "politica" rawlsiana con al suo centro la "giustizia come equità" si propone come un legittimare il potere coercitivo solo sulla base dei contenuti condivisi trasversalmente ai resoconti dell'esterno, lasciando il dibattito intorno a quale dei resoconti sia più "vero", nel senso di "rispecchi più fedelmente quanto vi è all'esterno della caverna", all'aula di filosofia.

La ragione pubblica è l'organon che trae conclusioni da questa area condivisa e il ragionevole è il suo standard di validità. Fin qui Rawls. Ciò che è veramente misterioso in questo quadro concettuale inaugurato da Liberalismo politico è il rapporto fra il ragionevole e il vero (o quella forma speciale del vero che è il moralmente giusto inteso in senso oggettivistico). Cosa significa "ragionevole"? Cosa significa per qualcosa - una norma, un elemento costituzionale essenziale, un disegno di legge, ecc. - essere più ragionevole di qualcos'altro? Rawls non può coerentemente intendere "ragionevole" e "più ragionevole" come sinonimi di "maggiormente in grado di rispecchiare l'Idea normativa esterna alla caverna" né può intenderli come sinonimi di "più vicini al dettato della ragione pratica", senza con ciò invalidare tutto il suo impianto e lasciar collassare la ragione pubblica a copia sbiadita della ragione pratica. Quindi questo è il vero mistero. Ciò che il paradigma esemplarista-giudizialista fa è piuttosto cercare di gettare luce su questo mistero, suggerendo che una possibile soluzione è pensare che la forza normativa del ragionevole poggia su quella dell'esemplare, di ciò che è "esemplare per noi" - una soluzione peraltro in linea con il famoso passo di "Kantian Constructivism in Moral Theory" (Journal of Philosophy, 77, 9, 1980, pp. 515-572), ripreso anche in Liberalismo politico (Torino, Edizioni di Comunità, 1999), in cui Rawls afferma che la giustificazione del nostro adottare la giustizia come equità poggia in ultima analisi non sul suo "rispecchiare un ordine antecedente e a noi dato", bensì sul riconoscimento che "data la nostra storia e le tradizioni proprie della nostra vita pubblica, essa è la dottrina più ragionevole per noi" (Kantian Constructivism, p. 519)?

Chiarito questo punto, vorrei soffermarmi sul terzo e più importante problema sollevato da Elisabetta Galeotti: non le è chiaro dove poggi la normatività dell'esempio, fra una capacità di lasciarsi trasportare dal comune "sentimento del piacere per la vita che fiorisce" e "la speciale relazione dell'oggetto con se stesso". In realtà diversi anni prima che Korsgaard pubblicasse The Sources of Normativity(Cambridge, Cambridge University Press, 1996), già nella mia ricostruzione dell'etica dell'autenticità implicita in Rousseau (vedi Modernità e autenticità. Saggio sul pensiero sociale ed etico di Jean-Jacques Rousseau, Roma, Armando, 1989) identificavo nella autocongruenza esemplare di un oggetto simbolico con se stesso (di cui l'autenticità in senso morale è il primo esempio storico su cui abbiamo, appunto in Rousseau, elaborazione filosofica) una delle fonti moderne della normatività. L'esemplarità come autocongruenza, essere legge a se stesso, suscita ammirazione - il "Qui io sto. Non posso fare altrimenti" di Lutero - e certamente sollecita emulazione, che è qualcosa di diverso dall'imitazione. Infatti, emulare vuol dire riprodurre il nocciolo di qualcosa, l'autocongruenza esemplare o autenticità nel campo morale, all'interno di coordinate altre. Non è vero che questo non ha posto "nel mondo dell'arte". Al contrario: gli scrittori leggono gli scrittori precedenti con avidità, Proust legge Flaubert, i pittori visitano le opere dei predecessori, e cosi i musicisti, per non parlare dei registi, che costantemente si ispirano e citano predecessori. Cosa cercano? Non certo "modelli da imitare", bensì cercano come si dice nel linguaggio ordinario "ispirazione" per il proprio lavoro artistico, ossia cercano di capire in che modo i grandi che li hanno preceduti hanno generato esemplarità entro le loro coordinate, al fine di trarne insegnamento su come poter generare soluzioni artistiche esemplari all'interno di coordinate diverse che sono le proprie. I principi, in questo quadro di riferimento, sono ricostruzioni ex-post che sintetizzano il nocciolo normativo di esperienze esemplari, nel tentativo di renderle "riproducibili". Quando scriviamo un regolamento per un corso di studi o per un condominio, facciamo una costituzione bonsai. Cerchiamo di fissare principi di condotta che traducono e rendono riproducibile "da chiunque" ciò che immaginiamo lo studente esemplare o il condomino esemplare farebbe. Ciò è possibile perché la condotta in questione è sufficientemente semplice nella sua struttura e anche immaginabile in astratto. Non si può fare la stessa operazione e scrivere regole prescrittive per un buon romanziere o per un buon politico. Sembra che Il principe faccia proprio questo: fornire regole di comportamento politico a principi che si vogliano mantenere al potere. In realtà è un'apparenza ingannevole: nessuno può imparare a fare il principe leggendo Il principe. A un primo livello di lettura Il principe è una ricostruzione delle regole implicite seguite da principi eccellenti, però ad un secondo livello Il principe addita al principe-lettore esempi a cui rifarsi, ma che andranno studiati come uno scrittore legge un altro scrittore, assorbendolo avidamente dall'interno della logica della sua operazione artistica, capendo cosa avrebbe fatto lui ad un certo punto, per poterlo riprodurre nel proprio contesto diverso.

Richiamando gli esempi addotti da Elisabetta Galeotti, le assemblee cittadine delle comunità del New England sono esemplari ed inesportabili in senso stretto, però noi ne ricostruiamo un certo spirito e cerchiamo di impiantarlo su coordinate del tutto diverse, per esempio attraverso il deliberative polling di James Fishkin. Anche la democrazia ateniese è inesportabile nel contesto del moderno Stato-nazione, dove non c'è modo di riunire i cittadini in un'agorà ma bisogna ricorrere agli istituti della rappresentanza. Però l'esemplarità di quel momento della polis rivive, ed è costantemente rivisitata, da democratici che in condizioni diverse tentano di farne rivivere il nucleo esemplare. Oggi siamo testimoni di un altro passaggio, dalla democrazia entro lo Stato-nazione alla democrazia in un contesto post-nazionale quale è l'Unione Europea. Molti si stracciano le vesti perché leggono la non-riproducibilità di quella esemplare fusione di una nazione, una cultura ancorata a una lingua con una grande letteratura, un mercato integrato, una memoria storica comune, una sfera pubblica unificata e un sistema di partiti che fu la democrazia su scala nazionale come un deficit democratico e in ciò non cercano di cogliere l'esemplarità del nuovo, una forma di democrazia non più collegata a quelle circostanze, come la democrazia moderna è pur sempre democrazia ma non più collegata alla consultabilità del popolo nell'agorà. Lo sforzo anche qui non va indirizzato a individuare regole e principi: questi verranno, in fase ricostruttiva, quando avremo identificato esperienze esemplari per noi di democrazia post-nazionale.

Infine, la seconda parte de La forza dell'esempio è altrettanto esemplarista quanto la prima. L'idea di eguale rispetto appare come un principio, ma il suo non esserlo - e il suo essere invece il condensato di un "Qui noi stiamo" collettivo di noi occidentali moderni - si mostra dal fatto che un liberale antiperfezionista come Rawls rifugge dal porlo come vincolante urbi et orbi, ne Il diritto dei popoli, e costruisce il suo schema normativo per una Società dei Popoli proprio sul presupposto di una non universale condivisione di tale principio. È un "principio irrinunciabile" solo per noi che facciamo parte dei popoli liberali (altrimenti non vi sarebbe motivo di avere due istanze della posizione originaria per giustificare gli otto principi della convivenza fra i popoli), ma questo è come dire che collettivamente "qui noi stiamo", non possiamo pensarci come noi stessi se ricusiamo quel principio, e dunque il nesso che ci lega a quel principio possiede una esemplare congruenza con chi noi siamo. Quod erat demonstrandum. Però in questa congruenza esemplare è contenuto qualcosa che può germogliare altrove: a differenza dell'esperienza estetica, dove l'unicità è "irriproducibile" - come giustamente sottolinea Elisabetta Galeotti, se riproduciamo la Gioconda, questa perde il suo valore - in politica possiamo trapiantare un germoglio e vederlo crescere simile ma diverso. L'ethos democratico sopravvive anche senza un'agorà dove riunire fisicamente il popolo, il capitalismo può svilupparsi anche senza etica protestante, la vie verso la modernità possono essere multiple, la forma Stato si è radicata in ogni angolo del mondo. Ciò che è esemplare nel suo momento aurorale in un luogo può attecchire altrove.

Il contributo di Daniele Santoro rimette in questione il nucleo metodologico del paradigma del giudizio, l'idea stessa di un universalismo senza principi, a partire da un'angolatura molto originale. Tale universalismo senza principi sarebbe a suo avviso già contenuto nella Critica della ragion pratica. Inoltre Santoro solleva una serie di obiezioni in merito alla mia ricostruzione della ragione pubblica in chiave di giudizio riflettente e in chiusura mi sollecita a chiarire il rapporto fra i concetti, normativamente pregnanti, di autenticità e di autonomia.

Inizio con qualche precisazione sulla prima parte del suo intervento. Non è accurato sostenere, a mio avviso, che "while the ascending path from the particular to the universal is what we do when we look for a general principle (both of conduct or theoretical) under which to subsume our judgments, this is not possible within reflective judgment". Poiché il pensare il particolare come incluso in un universale è proprio (come si legge nella Sez. I dell'Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio) di ogni forma di giudizio, non solo di quello determinante, anche il giudizio riflettente comporta un'ascesa dal particolare all'universale, solo che questa è assai più faticosa, non avendo a disposizione un type già confezionato per il tokenche abbiamo davanti agli occhi. E inoltre va al di là delle mie ambizioni il sostenere che il paradigma del giudizio costituisca un modello per la ragione pratica. La ragione pratica in quanto tale può benissimo non poter fare a meno di principi, per altro controversi tanto quanto possono esserlo l'imperativo categorico di Kant e il principio benthamiano della maggior felicità per il maggior numero di persone, mentre i "giudizi pratici" sono qualcosa di più ampio, e possono essere formulati anche all'interno di una modalità "deliberativa" (pubblica o semplicemente comunicativa) della ragione per la quale il giudizio rappresenta un riferimento più importante dei principi.

Ma il punto centrale dell'intervento di Daniele Santoro ruota intorno alla tesi per cui "both the Groundwork of the Metaphysics of Morals and the Critique of Practical Reason provide insightful suggestions on how to make sense of a model of 'normativity without principles'". I principi pratici, per Kant, diventano leggi morali, solo quando "esseri razionali" li pensano come "principi tali che contengano il motivo determinante della volontà, non secondo la materia, ma semplicemente secondo la forma" (§ 4, Critica della ragion pratica). E affinché la forma possa operare come un vincolo sulla volontà, indipendentemente dal contenuto del principio o massima, questa deve avere come caratteristica la "generalizzabilità" (altrimenti il principio o massima rimarrebbe "soggettivo"). Qui si innesta la riflessione di Santoro. Se la normatività della morale per Kant è questione della forma e non del contenuto del principio cui la volontà si assoggetta, allora la legge morale non equivale alla "general formulation of a principle of conduct: it is not the action of the maxim which is universalized, but the 'capacity of willing' the maxim as being universally valid".

Questa "capacity of willing" risalta a contrario, quando cioè non si verifica nessuna fra due forme di impossibilità di volere: la prima è quando l'ipotetica trasformazione della massima o principio in legge morale universale si scontra con una "impossibilità semantica" (il caso della promessa che già dall'inizio si sa di non poter mantenere, e che dunque se generalizzato svuoterebbe di senso l'istituto del promettere), la seconda si dà quando l'impossibilità riguarda una "concepibilità" che in ultima analisi è una "desiderabilità" di un mondo plasmato dall'osservanza universale della norma sotto esame. L'esempio in questo caso è quello della persona molto benestante che desidera non devolvere neanche una parte infinitesimale dei suoi averi ai bisognosi, ritenendo di non doversi trovare mai nella condizione di aver bisogno dell'aiuto altrui e quindi essendo disposta a dichiarare di rinunciarvi, pur di non dovere prestare tale aiuto adesso.

Ora qui non vi è niente di illogico, di contraddittorio o di semanticamente auto-decostruentesi. Ci troviamo di fronte, sostiene Santoro, a una "pragmatic contradiction", la quale "makes it impossible to will the maxim as a universal law". Non è possibile affrontare qui il nodo qui sotteso, che è poi il punto centrale della critica hegeliana al falso formalismo dell'etica kantiana. Basterà notare come questa "impossibilità pragmatica" che tutti possano veramente volere una forma di vita in cui nessuno aiuta nessuno che si trovi in stato di necessità non ha nulla di formale: dipende da una certa concezione sostanziale della vita umana e del bene che gli attori possono condividere o meno. Attori immersi in una cultura darwiniana possono essere più inclini ad accettarla che attori immersi in un orizzonte cattolico. Non c'è nulla, in questa seconda versione del test, che possa colmare il fossato valoriale che divide queste visioni del bene: il nostro giudizio sulla universalizzabilità della massima ne rimane ostaggio. Ovvero, richiamando Hegel, l'impressione di "impossibilità pragmatica" dipende da una sostanza etica che rende vacuo e superfluo il test di universalizzabilità. Le due massime di promettere quando si sa che non si potrà mantenere la promessa e di dare l'elemosina ai poveri porterebbero entrambe, se universalizzate, alla fine della promessa e della povertà come realtà umane: in entrambi i casi si evidenzia una incompatibilità fra la universalizzazione della massima e il concetto (promessa o povertà) chiamato in causa dall'azione stessa. Dunque, sostiene Hegel, se in un caso respingiamo la massima di azione e nell'altro no, ciò non deriva dall'operare di un test di universalizzazione "formale", ma da una valutazione sostanziale intorno a cosa è bene mantenere (l'istituto della promessa) e cosa non è bene mantenere (la povertà).

Ho ripreso questi spunti, sia pure in modo telegrafico, perché mettono in luce quanto sia dubbia l'affermazione per cui i Fondamenti della metafisica dei costumi e la Critica della ragion pratica suggerirebbero la possibilità di una "normatività senza principi". Trovo difficile sottrarsi alla conclusione per cui nel secondo tipo di impossibilità sono all'opera dei "principi" sostantivi intorno a ciò che è bene o desiderabile. Trovo egualmente difficile sottrarsi alla conclusione per cui anche a volere caritatevolmente accettare la pura "formalità" del procedimento di vaglio delle massime morali, all'opera è qui un "principio di universalizzazione", che divide l'universo delle massime in morali e non a seconda del loro soddisfare tale principio ad esse esterno e antecedente.

Concordo tuttavia con la tesi di Santoro secondo cui gli esempi e l'esemplarità potrebbero avere nell'etica kantiana un posto più rilevante di quello pedagogico che Kant sembra assegnare loro. Proprio partendo dalla appropriata distinzione fra "generalità" e "universalità", nulla vieta che alla congruenza interna degli esempi "esemplari" venga attribuita "universalità" (sia pure non in forma di "legge", ma non tutta l'universalità deve esprimersi in forma di legge) e quindi, continuerei, venga riconosciuta loro una forma di cogenza (naturalmente ben al di là di quanto Kant ammetterebbe) nel suggerirci plasticamente che cosa possa essere "pragmaticamente impossibile" volere. Da questo punto di vista ci offrono qualcosa di più che una "prudential expertise", anche se su questo termine bisognerebbe intendersi. Non è infatti per nulla chiaro in che senso la non desiderabilità di un mondo in cui ognuno fa parte per se stesso e rimane indifferente agli altri - un mondo che Kant vede come una cosa "impossibile da volere" - sarebbe altro da una saggezza o prudenza intorno a ciò che gli esseri umani possono volere.

La seconda parte dell'intervento di Santoro verte sulla mia ricostruzione del ragionevole e della ragione pubblica in termini di esemplarità e giudizio riflettente. Correttamente Santoro identifica il punto principale nella natura dell'inferenza che nella ragione pubblica lega gli esiti deliberativi con le "premesse condivise", ma obietta che il mio ricondurla a un giudizio riflettente intorno alla qualità esemplare del rapporto che tali esiti intrattengono con le premesse condivise non coglie la normatività qui in opera ma semplicemente delinea una "fenomenologia dello spazio delle ragioni". Più in generale Santoro solleva dubbi circa l'analogia fra giudizio estetico e deliberazione su ciò che è ragionevole, rilevando tre asimmetrie. Ma qui c'è qualcosa che non funziona. In primo luogo, Santoro obietta che "the recognition of a work of art does not impose on the subject the agreement of its fellows, whereas public reason has a deliberative function under constraints of general acceptability". Sembra a me che nemmeno la ragione pubblica sia in grado di imporre argomenti sotto pena di etichettare il dissenziente come "irrazionale" o anche "irragionevole". Se lo fosse, sarebbe la ragione pratica. In realtà Rawls è esplicito nell'avvertirci che dalla ragione pubblica non possiamo attenderci il miracolo dell'azzeramento degli oneri del giudizio: se il consenso non si coagula, non c'è verso di applicare ai dissenzienti nessuna etichetta negativa. Dunque, si torna al parallelo con l'estetico, dove non si può costringere argomentativamente nessuno a dare giudizi di riuscitezza, ma al massimo si può "anticipare un consenso che dovrebbe materializzarsi". Non sembra questo sufficiente? Allora per un modello più "forte" non bisogna rivolgersi alla ragione pubblica, ma ritornare a quella pratica, con tanti saluti al liberalismo politico.

In secondo luogo, Santoro obietta che i "practical judgments", di cui tratta la ragione pubblica, "have a prospective validity", diversamente da quelli estetici, che presumibilmente operano in chiave retrospettiva, avendo di fronte l'opera già compiuta. Ma non è questo un paragone calzante. Anche nel giudizio estetico abbiamo un momento "prospective", quanto l'artista nella fase produttiva da un giudizio su quanto fin qui compiuto e valuta quale migliore soluzione vi sia per il completamento dell'opera. È rispetto a questo tipo di giudizio estetico che sussiste un'analogia con i cittadini che devono deliberare se ad esempio il principio della laicità consente l'esposizione di simboli religiosi negli edifici pubblici o se la pena di morte possa considerarsi punizione "crudele" - sempre che non vogliamo far collassare la ragione pubblica in una ragione pratica che conosce le risposte prima ancora che i cittadini si pronuncino.

In terzo luogo, Santoro mi attribuisce l'idea che la base epistemica del giudizio riflettente, anche nel caso della ragione pubblica, consiste in uno strato di intuizioni profonde, collocate topograficamente prima della differenziazione delle culture, intorno alle dimensioni costitutive del fiorire della vita umana - e obietta che "intuitions cannot be reasons for the space of reasons" perché non posseggono "the form of arguments which can claim universal significance or reasonable acceptance". La ragione pubblica, conclude Santoro, tratta di concetti, non di intuizioni. Non potrei essere maggiormente d'accordo. Qui è all'opera una confusione di livelli. Ovviamente la ragione pubblica tratta con concetti, ma come scegliamo le nostre configurazioni di concetti ed anche i nostri concetti più generali - libertà, eguaglianza, giustizia, legittimità, obbligo, diritti, ecc.? Se non vogliamo una versione epistemica della scelta concettuale, che ancora una volta consegnerebbe la ragione pubblica a un platonismo incompatibile con essa, e se non vogliamo un convenzionalismo dei concetti, come dobbiamo rendere conto della nostra scelta di una configurazione di concetti di sfondo piuttosto che un'altra, se non attraverso un richiamo a quel sensus communis a cui possiamo ancorare la fiducia nella condivisibilità della nostra scelta? Dunque sono vere entrambe le cose: la ragione pubblica opera sulla base di concetti e non di intuizioni, ma lo sfondo concettuale che essa adotta non può che essere giustificato sulla base di intuizioni riguardo al suo "promuovere la vita", per usare l'espressione di Kant.

Infine, Santoro mi sollecita a chiarire i rapporti che sussistono fra le due nozioni normative di autonomia ed autenticità, e soprattutto se la seconda non debba necessariamente presupporre la prima. Per esteso ho trattato dei rapporti fra questi due concetti morali in Modernità e autenticità (pp. 97-102, 111-17) e in Autenticità riflessiva (pp. 22-30), e ribadisco qui che il concetto di autenticità presuppone una qualche versione di quello di autonomia: si tratta di una versione dell'autonomia morale che incorpora una consapevolezza della configurazione del Sé o identità e della sua valenza non solo empirica ma anche normativa. Dunque, la nozione di autenticità è iscritta ed opera nello spazio delle ragioni: se prendiamo l'autenticità nella sua versione di "ideale morale", allora essa incorpora e risponde a una serie di ragioni più ampia di quella a cui risponde un idea di moralità centrata attorno al solo concetto di autonomia. Si è spesso pensato che la nozione di autenticità presupponga in qualche modo un essenzialismo del "vero Sé", a cui impone fedeltà, ma si tratta di un'associazione senza alcuna consistenza o necessità, come ho cercato di mostrare in "Authenticity without a True Self" (in Ph. Vannini e J.P. Williams (a cura di), Authenticity in Culture, Self, and Society, Farnham, Ashgate, 2009, pp. 21-36) - testo che Santoro cita, insieme a Reflective Authenticity. Non ho difficoltà, con riferimento a questa nozione di autenticità senza un Sé "essenziale", ad ammettere che la dimensione pratica della auto-costituzione - noi ci rendiamo quelli che siamo principalmente tramite gli impegni che assumiamo - è una "social dimension in which potential partners of communication are involved in relations of recognition and mutual commitment". I miei impegni per esempio devono essere riconosciuti tali da altri che "mi prendono sul serio", ma dall'altro lato sono solo io a potere prendere impegni per me stesso. In questo la riflessione su "Chi io sono" gioca un ruolo, ma essenziale continua ad essere il momento pratico dell'impegno. Quindi i due corni del dilemma - "on one horn, authenticity cannot be purely self-referential; on the other horn, we cannot reduce claims of authenticity to normative attitudes, because normative attitudes depend on social norms, which often clash with authentic stances" - trovano composizione in un equilibrio riflessivo non dissimile da quello che abita nell'opera d'arte ben riuscita o nella deliberazione appropriata. Anche l'opera d'arte non può essere totalmente autoreferenziale, senza entrare in dialogo, fosse anche opposizione, con uno sfondo stilistico e per altro non può derivare il proprio valore dalla rispondenza a canoni stilistici. Nel caso del Sé noi chiamiamo "autenticità", ma qualunque altro nome andrebbe bene, la capacità di trovare quel punto di equilibrio fra normatività esterna e normatività interna che si sintetizza nel "Qui io sto. Non posso fare altrimenti" di Lutero.

L'intervento di Lucio Cortella mette a fuoco un solo problema ma assolutamente centrale. Cortella inizia con una impeccabile ricostruzione del mio tentativo di offrire un "universalismo non fondazionalista", il quale condivide con il proceduralismo habermasiano una certa lettura dell'orizzonte filosofico contemporaneo, condivide l'obiettivo di ricostruire una modalità "post-metafisica" di universalismo transcontestuale, e tuttavia ne diverge quanto alla scelta dei mezzi: il giudizio e la forza normativa dell'esemplarità al posto della forza normativa del "discorso", a motivo del fatto che nella pragmatica universale habermasiana e nell'a-priori della comunicazione apeliano permangono una residua ambizione a individuare un punto archimedico al di là di tutti i giochi linguistici. La normatività dell'esempio, invece, farebbe integralmente a meno di presupposti del genere, in quanto non è dalla "giustificazione argomentativa esplicita", con tutti i suoi problemi di imperfezione della traduzione da un paradigma all'altro, ma dall'autocongruenza eccezionale di un'identità o forma simbolica con se stessa che deriva quella forza ispiratrice, quella fonte della normatività, che travalica i limiti del proprio contesto di origine.

Ma non è tutto oro quel che luccica. In realtà, suggerisce Cortella, c'è nel mio impianto una "condizione sottostante che consente alle differenziate e plurali facoltà giudicatrici di trovare il consenso attorno ai casi esemplari" e questa condizione sottostante è il "sensus communis", inteso come "sapere condiviso, per lo più implicito, che attraverserebbe le differenti culture, attorno all'idea di che cosa significa una vita riuscita, autentica, realizzata. In altri termini: il caso esemplare sarebbe in grado di evocare in tutti gli uomini capaci di giudizio la normatività della vita realizzata, un'idea che sarebbe quindi presente all'interno di ogni essere umano". Da ciò deriva, continua Cortella, "che il fondamento di un possibile universalismo morale più che nel giudizio starebbe in questa comune intuizione di che cosa significa 'vita buona'. Questa comune intuizione sarebbe alla base di quei giudizi (morali, politici, estetici) capaci di superare le barriere contestuali".

Cortella giustamente richiede le credenziali del sensus communis - che cosa lo rende tale? Cosa ne fa parte e cosa ne è escluso? - e chiude alcune vie d'uscita: "non è possibile alcuna deduzione di quel sapere a partire da una supposta natura umana", né alcuna deduzione trascendentale, pena la ricaduta nel fondazionalismo; non è possibile identificare i contenuti via giudizio, altrimenti instaureremmo una circolarità, perché il sensus communis è ciò che permette al giudizio di funzionare e generare un'attesa di consenso universale. Dunque "resta scoperto il problema della giustificazione" del sensus communis, poiché non basta certo asserire che tutti possediamo un senso intuitivo di cosa significa arricchire e promuovere la nostra vita.

Qui Cortella mi attribuisce una via ricostruttiva: estrarre dalle intuizioni del sensus communis un'idea di vita buona, realizzata, la quale però capovolgerebbe l'assunto di una pluralità di visioni del bene a fronte di una unicità del giusto, e individuerebbe la base universalistica dei giudizi proprio a livello etico, in un ethos che hegelianamente si fa "mondo sussistente" e che i nostri giudizi rivelano.

Rispondo distinguendo due aspetti di questa domanda. Per un verso la giustificazione dei contenuti del sensus communis è ancora di là da venire. Uno spezzone di essa è dato dalla ricostruzione delle dimensioni di coerenza, vitalità, profondità e maturità - nominate in mille modi diversi dalle culture e dalle epoche storiche - quali assi di rilevanza trasversali alle concezioni del bene, che continuiamo ovviamente a supporre plurali. Un altro spezzone è dato dall'idea di eguale rispetto dovuto a tutti gli esseri umani, ma questa è un'intuizione che è costitutiva per la sola identità moderna occidentale, al momento. Altri assi di rilevanza potrebbero essere identificati nella mortalità (le culture e le religioni non possono non "codificare" questa dimensione), nella corporeità (non vi sono culture o epoche per cui gli esseri umani non "sono" anche un corpo), nel genere (ogni cultura dovrà strutturare simbolicamente l'inaggirabile polarità del maschile e del femminile), ed altri se ne potrebbero aggiungere.

Richiamando quanto già risposto a proposito della terza serie di osservazioni sollevate da Griffero, ribadisco che questa ricostruzione del sensus communis non è né la ricostruzione di un sapere, di una sophia, e neppure di un ethos che soggiace agli ethos e diventa esso stesso "mondo sussistente". Il lavoro filosofico è piuttosto quello di ricostruire una matrice di dimensioni di rilevanza, come Max Weber ha magistralmente mostrato essere possibile nei suoi Aufsätze für Religionssoziologie: lungi dal voler ricostruire un nucleo essenziale che si realizza o si manifesta nelle religioni storiche, e ridurre la loro pluralità ad unum, Weber ha ricostruito una matrice di alternative che ci permette di disporre quella pluralità lungo assi di rilevanza che accomunano e differenziano trasversalmente le religioni storiche. Tutte le religioni, infatti, quali che siano i loro contenuti, non possono che o porsi in un atteggiamento di negazione del mondo, a fronte della perfezione di una vita oltremondana (Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Buddismo, Induismo), o in un atteggiamento di affermazione del mondo (religiosità greca classica, Confucianesimo). E fra quelle che negano valore al mondo, queste non possono non disporsi lungo una polarità che lega la salvezza del credente o a un suo intervento nel mondo (ascetismo cristiano, ebraico, islamico) o a una sua fuga dal mondo (misticismo buddista, induista). Abbiamo una matrice non-essenzialista del fenomeno ubiquo della religiosità, che ci consente di cogliere la specificità di ciascuna forma senza perdere di vista ciò che tiene insieme la varietà. Perché non possiamo seguire questa traccia nel costruire una mappa del sensus communis?

Concordo però pienamente con Cortella sul fatto che questo lavoro di ricostruzione, che al tempo stesso vale come "giustificazione" di quel sensus communis sulla cui base possiamo capire come mai ci attendiamo che i nostri giudizi sull'esemplarità siano condivisi anche da altri che non sono i nostri vicini, non è neppure cominciato. In Force of the Example c'è solo una riflessione su "come andrebbe fatto il lavoro", non il lavoro stesso.

Massimo Rosati ricostruisce con grande accuratezza tutto il percorso che mi ha portato a scrivere Force of the Example, e vede in quest'ultimo un "equilibrio precario" tra una linea di ricerca centrata sull'autenticità e la sua "grammatica normativa" per un verso, e un'indagine filosofico-politica su temi quali i diritti umani dove ricomparirebbe il riferimento a "principi indipendenti dai contesti" e dove il "ruolo dell'immaginazione" si eclisserebbe e lo stile filosofico perderebbe vigore. A ben vedere però l'eclissi dell'immaginazione riguarda solo, secondo Rosati, i due capitoli sui diritti umani, sui cui ritornerò a proposito dell'intervento di Baccelli, che su questo tema è centrato. In questo caso difendo la precarietà dell'equilibrio. Una linea di ricerca alternativa al proceduralismo, quale è quella dell'universalismo esemplare deve entrare nell'agone e misurarsi con le questioni sul tappeto nella teoria politica e sociale, dunque diritti umani, costituzionalismo, unione europea, ecc. E quando si entra nel vivo di un dibattito, le distanze si accorciano, si parlano lingue che finiscono per assomigliarsi, perché il ragionamento è fatto per convincere gli altri, non i già convinti.

Ringrazio Rosati per le sue osservazioni intorno alla mia ricostruzione postmetafisica della nozione di "male radicale" sullo sfondo della teoria durkheimiana del sacro. Ho riguardato le pagine in questione e il mio modo di esprimermi ha sicuramente peccato di imprecisione: il male radicale, in quanto distinto dal male ordinario, è l'opposto speculare non già del sacro tout court, bensì di quel sacro positivo, propizio, puro in cui si proietta un'immagine della società "al suo meglio". Entrare a contatto con esso in qualunque altra forma che come sua vittima o testimone impotente significa contaminarsi, bandirsi dalla comunità umana, diventare sacrileghi: ne sperimentiamo la forza nell'interdetto che oggi colpisce chiunque neghi la Shoah e nella imprescrittibile imperdonabilità di qualunque azione che intrattenga una relazione positiva con essa. Questa insindacabilità dell'interdetto, unitamente alla ritualità che accompagna ogni commercio con il male radicale - riti di esorcizzazione, di purificazione, di espiazione, di commemorazione - testimonia di come il male radicale, proiezione di noi "al nostro peggio", partecipi della non-negoziabilità e del carattere olistico del sacro, ancorché di un sacro "sinistro", impuro, infausto (ben messo in luce da Caillois).

Continuo però a dubitare della possibilità di un male radicale "autentico" nella vita sociale. Nella sfera dell'agire religioso può forse esistere una "vocazione satanica autentica", di cui certe sette sataniche e i loro riti sarebbero espressione, ma nella vita sociale, nella sfera della "prassi" nel senso più ampio, non possono darsi fini ultimi - nel senso in cui ne parla Parsons nei Prolegomeni a una teoria delle istituzioni sociali - che equivalgano alla "vita cattiva", ma sempre a una forma di vita buona. Persino i nazisti perseguivano una loro idea del bene. Sarebbe interessante scavare a fondo su questo nesso del legame sociale con la vita buona e non con la vita cattiva. Dunque il male radicale assume sempre la forma della scoperta "ex post" che ciò che si riteneva a torto un bene in realtà era un male - era un male fare le Crociate, bruciare gli eretici, depredare gli indigeni, sterminare un popolo. In questo senso il male radicale comporta sempre un momento di autoinganno che ne preclude un perseguimento "autentico".

Infine, non posso che accogliere come un importante stimolo il suggerimento che Rosati avanza, alla fine del suo intervento, riguardo al fatto che nei fenomeni religiosi troviamo prefigurata una riconciliazione di ciò che è e ciò che deve essere, una riconciliazione della libertà e della necessità. Si apre qui un'area di investigazione, parallela a quella che collega l'esemplarità estetica alla forza dell'esempio nel campo morale, politico, giuridico. L'esemplarità in senso religioso - talvolta colta profeticamente, talvolta venerata nei simboli, talvolta perseguita nel rito, talvolta pubblicamente sancita nell'istituto della santificazione - riattualizza il sacro, per usare l'espressione di Rosati, e al tempo stesso collega il qui ed ora della nostra situatezza a un quadro di significati aperto ad futuro che "ci vede presenti". In questo gesto dell'aprire una forma di vita o un'identità al futuro mentre la rinsalda alle sue origini, le pratiche del sacro realizzano e trascendono la situatezza.

Ringrazio Chiara Bottici per l'onore, secondo me immeritato, che mi fa collocandomi fra i "portatori di istanze nuove" in senso filosofico. Quanto nuove siano, non lo so, ma certo un minimo di pazienza e tenacia c'è voluta, soprattutto a motivo della collocazione in un paese che è fondamentalmente un importatore di posizioni filosofiche e non ha molto apprezzamento per gli sforzi sistematici di costruzione. Dopo una accurata ricostruzione delle mie tesi, Chiara Bottici segnala la persistenza di quelle che definisce "zone grigie". La prima riguarda il tema, sollevato anche da Griffero, della scelta dell'estetica kantiana "come punto di partenza per la nozione di sensus communis". Bottici cita l'orinatoio (Fontaine) di Duchamp e le scatole di zuppa al pomodoro di Warhol, e si chiede: è ancora valida, di fronte a opere come queste, l'affermazione di Kant secondo cui l'opera d'arte ben riuscita può esercitare una richiesta di consenso universale e si collega a un senso di affermazione e promozione della vita? Anche qui vale la stessa risposta. Un approccio esemplarista alla normatività non sposa un'estetica del bello, ma un'estetica della riuscitezza estetica, ossia una ricostruzione filosofica di cosa è comune alle opere d'arte che riteniamo pienamente soddisfacenti e riuscite. Poi alcune poetiche hanno privilegiato una dimensione armonica della riuscitezza e l'hanno chiamata "bellezza", mentre altre poetiche concorrenti hanno privilegiato aspetti di riflessività, di provocatività, di spaesamento, ecc. Ma anche queste poetiche fiorite nel Novecento hanno di fronte il problema - proprio come Kant - di ricostruire in che senso l'orinatoio di Duchamp è un'opera, diversamente da quello che l'idraulico monta in un bagno pubblico, e in che senso "tutti dovrebbero convenire che sia un'opera". Anche l'estetica del Novecento, infatti, non dice per alcuni Fontaine è arte e per altri no: dice, esattamente con pretesa di validità da estetica "kantiana", che tutti dovrebbero riconoscere che è arte, pur consapevole magari che alcuni di fatto la rifiuteranno. Quindi, scusandomi per la ripetizione: come la teoria della relatività non seppellisce la Critica della ragion pura, nel momento in cui succede alla fisica newtoniana come paradigma di riferimento, così le avanguardie novecentesche non seppelliscono la Critica della facoltà di giudizio, nel momento in cui cessano di interpretare la riuscita delle opere in termini di "bellezza".

La seconda riserva avanzata da Bottici riguarda invece il ruolo dell'immaginazione nell'impianto del libro. Inizialmente, sulla scorta anche della ricostruzione della teoria arendtiana del giudizio, l'immaginazione sembra giocare un ruolo da comprimaria, ma nel prosieguo del libro, soprattutto nei capitoli dove si parla di male radicale, di repubblicanesimo, di diritti umani, di identità europea e, infine, di religione e politica, la centralità dell'immaginazione "si eclissa". La forza dell'esemplarità in questi capitoli è quasi soltanto una creatura della ragione. "In ultima istanza è la ragione che, ancora una volta, la fa da padrona".

Credo si tratti di un'impressione che proviene da una mia propensione espositiva per uno stile da "ragionamento", ma questo non vuol dire che nei capitoli in questione il ruolo dell'immaginazione non abbia rilevanza. Potrebbero essere interamente riscritti da quel punto di vista. Condensando oltre ogni limite, in riferimento al male radicale l'immaginazione è di fondamentale importanza in quel passaggio che è la presa di distanza da una concezione del bene che si rivela "perversa" e la presa d'atto della valenza morale delle azioni che in suo nome abbiamo compiuto. Non potrebbe esistere questo passaggio - o, in altri termini, la concezione "perversa" del bene si autoimmunizzerebbe ad libitum - se non intervenisse un momento in cui la nostra immaginazione, qui intesa come facoltà di rendere presente ciò che non lo è, non riuscisse a oltrepassare le barriere interne e a porre sotto i nostri occhi il punto di vista delle vittime. Senza il lavoro dell'immaginazione non si dà "enlarged mentality", ma solipsismo cognitivo, e senza "enlarged mentality" nulla può forare la corazza protettiva delle nostre rappresentazioni collettive.

Egualmente, nel caso del repubblicanesimo, l'affinità metodologica con l'universalismo esemplare rende l'immaginazione un momento importante: non si può lavorare sul significato degli esempi storici se l'immaginazione non lavora a colmare il divario che ce ne divide temporalmente e localmente e a renderci gli eventi accessibili. Nel caso dei diritti umani e della loro giustificazione esemplarista, è altrettanto evidente che non si può instanziare mentalmente in via ipotetica quale forma potrebbe essere assunta dalla realizzazione dell'identità dell'umanità nel suo complesso, se non esercitiamo l'immaginazione a partire dalla nostra cognizione storica del processo di costituzione di una società umana globalizzata, la "world society" di Shmuel Eisenstadt. Anche nel momento applicativo, di enforcement dei diritti umani, non c'è modo di accertare se le finalità politiche dei paesi che partecipano a un intervento umanitario rientrino fra quelle accettabili né se la condizione di una "ragionevole prospettiva di successo" sia rispettata se non attiviamo l'immaginazione al servizio del giudizio. Quando poi parliamo di identità politica europea, al di là dell'esercizio ricostruttivo della "semantica della speranza" nel Preambolo di un Trattato costituzionale che fu, il ruolo che l'immaginazione, in questo caso politica, può e deve giocare riguarda le forme nuove che l'autorialità delle leggi da parte dei cittadini - in quanto caposaldo irrinunciabile di una concezione deliberativa della democrazia - può venire ad assumere in un contesto post-nazionale, dopo che è stata disciolta l'unione di "una nazione, uno apparato statale, un'economia, una cultura, e una costituzione democratica. Infine, sul tema di religione e politica post-secolare, non sarebbe mai emerso il tema habermasiano dell' "onere asimmetrico" senza la capacità dell'immaginazione di aprire la ragione laica al modo in cui un credente guarda al mondo, per non parlare del vero sforzo di immaginazione, non interpretativa, ma creativa, per delineare forme istituzionali nuove - mai esistite nella storia - della compensazione di questo stesso onere. In conclusione, l'eclissi dell'immaginazione nella parte finale del libro è più a mio avviso di natura estemporanea e stilistica che non concettuale, come spero queste brevi riflessioni mostrino.

Anche a Franco Crespi va un ringraziamento per il riconoscimento di originalità che rivolge al mio lavoro, le cui linee essenziali riprende con precisione e cogliendone perfettamente lo spirito. Negli anni, dal dialogo con lui e dal confronto con gli sviluppi del suo pensiero, confronto che ha accompagnato la mia riflessione sull'autenticità, l'esemplarità e il giudizio, ho appreso tantissime cose. Il suo è il solo tentativo di un qualche rilievo, da parete di un teorico della società, di ripensare a fondo l'eredità heideggeriana nelle sue implicazioni sociologiche per quanto attiene ai concetti di soggetto, di azione, di potere e, all'interno di questo quadro, la sua nozione di mediazione simbolica, la sua idea di un "primato dell'ontologico" che si sostituisce, come cifra del nostro contesto filosofico, al "primato del cognitivo", la sua analisi della tensione fra indeterminatezza del senso e determinatezza delle mediazioni simboliche, nonché il concetto di potere intrinseco, hanno influenzato non poco la mia elaborazione.

Rispondendo alle perplessità sollevate da Crespi, la prima su cui vorrei soffermarmi riguarda le quattro dimensioni della realizzazione di un'identità - coerenza, vitalità, profondità e maturità - che ho cercato di ricostruire più estesamente in Autenticità riflessiva, e che in Forza dell'esempio ho ripreso come una delle componenti di quel sensus communis che ci incoraggia ad anticipare un consenso di tutti sui nostri giudizi. Per la prima volta registro obiezioni su singole dimensioni: Crespi osserva che coerenza e vitalità possono contraddistinguere anche identità con valenze distruttive riguardo alla persona e ai suoi rapporti con gli altri, mentre profondità e maturità sembrano potenzialmente in grado di aiutarci a distinguere identità. A ben vedere, però, anche queste ricadono secondo Crespi nell'ambiguità del poter sottendere anche un progetto distruttivo di vita. Quindi l'obiezione è di un "eccesso di indeterminazione", originantesi dalla "giusta esigenza di non definire i contenuti specifici dell'autenticità", ma avente come effetto indesiderato quello di "vanificare il criterio di giudizio". Più in generale Crespi lamenta che nel mio "intento di restare fedele a una posizione post-metafisica" darei per scontati certi tratti dell'umano - mortalità, temporalità, coscienza, presenza di forme di mediazione simbolica - "senza ricollegarli tra loro e senza spiegare a sufficienza come tali diversi aspetti facciano parte di una particolare condizione degli esseri umani" che Crespi definisce "esistenza".

Rispondo che è certamente un difficile equilibrio quello di spiegare dove poggi questa aspettativa di un convergere del consenso sui propri giudizi, senza trasformare contemporaneamente questo punto di appoggio in un "sapere" filosofico che ambisce a fissare vuoi "i tratti essenziali dell'esistenza umana", vuoi un'immagine della buona vita, vuoi un canone dell'autorealizzazione e che, nel momento stesso in cui li individua, e ancor più quando li collega fra loro organicamente, entra in tensione con il presupposto del pluralismo. La mia strategia è quella di individuare "assi di rilevanza" più che valori in positivo, e così vanno lette le dimensioni della realizzazione di un'identità. Come già dicevo in risposta ad altri interventi, le religioni e le culture hanno mille modi diversi codificare la mortalità, ma non possono esimersi dal fare i conti con essa, e questo non potersi esimere dal fare i conti con la mortalità, la differenza di genere, la riflessività o profondità della identità, ecc. è ciò che fornisce una base di interlocuzione pur nella estrema pluralità, e dunque l'aspettativa di una convergenza. Dunque ciò che è comune a tutti non è un'immagine della vita realizzata, che fiorisce, la quale immagine ha mille sfaccettature localmente diverse, ma è la rilevanza, la salienza ineludibile del fatto che "la vita vada bene o male", nel senso più pieno e non solo della gratificazione temporanea delle preferenze, il che forse questo è solo un modo diverso di designare il "riconoscimento dell'appartenenza originaria a una comune situazione esistenziale". Questa strategia ha il prezzo che Crespi giustamente indica: alcune di queste dimensioni universalmente rilevanti non bastano a escludere progetti identitari "distruttivi". Forse però a questa osservazione si può dare una risposta appresa da Crespi: nessun valore o istanza normativa è al riparo dal potere generare "esiti distruttivi" - la storia offre una casistica infinita in proposito - e dobbiamo abituarci a convivere con questa ambivalenza, appagandoci del fatto di avere individuato una base possibile del nostro attenderci un consenso sui nostri giudizi. L'unico vero limite, coerentemente con l'impianto, è da porsi nel male radicale, il quale appunto per la sua radicalità - così come ricostruita nel Cap. 4 - si preclude la possibilità di essere autentico.

La seconda perplessità riguarda il ruolo del riconoscimento e dell'intersoggettività dentro il paradigma del giudizio. Scrive Crespi: "Malgrado la sottolineatura del carattere condiviso del sensus communis e malgrado riconosca che l'identità è sempre legata al reciproco riconoscimento e che una piena realizzazione 'non può essere ottenuta a spese della realizzazione di una più ampia identità umana' (p. 121), Ferrara di fatto non sembra spiegare sufficientemente in cosa consista tale più ampia identità e l'analisi dell'autenticità viene da lui condotta prevalentemente come analisi dell'autocongruenza del rapporto autoreferenziale con il sé, senza tenere adeguato conto della rilevanza che assume anche per questo stesso rapporto la relazione costitutiva con l'altro e la richiesta reciproca di riconoscimento".

La prevalenza del momento dell'autocongruenza del rapporto autoreferenziale con l'identità, vuoi individuale vuoi collettiva, a mio avviso non ha un carattere teorico - va da sé che le relazioni di reciproco riconoscimento sono la condizione di possibilità del darsi di un'identità, autentica o meno che sia - ma semplicemente un carattere "prospettico", dovuto al tipo di domanda che sottende il mio testo e più in generale la mia ricerca. Come metteva bene in luce Cortella, continuo a muovermi entro un quadro segnato dalla domanda habermasiana intorno al senso della validità, soprattutto della validità normativa. Provo a rispondere a quella stessa domanda con mezzi diversi dal "discorso". Questa agenda filosofica spiega la diversità di accentuazione e di distribuzione di rilevanza rispetto a ricerche filosofiche che invece sono principalmente, anche se non esclusivamente, centrate sulla costitutività del riconoscimento per l'emergere e il dispiegarsi della soggettività. E' infatti l'eccezionale autocongruenza di un'identità che rende conto della forza dell'esemplarità, capace di emanciparsi nei suoi modi dai limiti del contesto in cui nasce, e non l'ubiquo fatto del riconoscimento o dell'intersoggettività, il quale non potrebbe non esserci. Non a caso le posizioni filosofiche centrate sul riconoscimento oscillano poi fra il ricostruire la trascendentalità di un certo tipo di riconoscimento da un lato, e l'illustrare la "facoltatività" di certi altri tipi di riconoscimento dall'altro, con qualche difficoltà a rendere conto di quando tale riconoscimento "è dovuto" oltre che dato o negato di fatto.

Infine, Crespi rimette in questione il nesso di male radicale e sacro. Ritengo che qui vi sia solo una sensibilità terminologica diversa, non una vera divergenza. La assolutizzazione di una forma di vita, che Crespi collega al sacro quanto meno come tentazione costante e difficilmente evitabile, è piuttosto nella mia ottica l'effetto di quelle oggettivazioni storiche del sacro, ossia le religioni, che lo codificano e lo rendono esprimibile, attingibile, riproducibile, rivivificabile attraverso i riti. Il senso del sacro è una fonte che queste oggettivazioni codificano sempre parzialmente. Questa diversa sensibilità terminologica ha due motivazioni. Una motivazione, se così posso dire, è di "politica concettuale". Ritengo che proprio la pregnanza culturale del termine "sacro" lo renda un "terreno di battaglia" che non può essere lasciato in mani avversarie, ma che va ritradotto, rielaborato in termini consoni a una filosofia postmetafisica, proprio come non si può lasciare la libertà nelle mani dei "liberisti". Altrimenti si rischia di avvalorare la tesi - portata avanti da ogni integralista, religioso o secolare che sia - che chi propende per valori "laici", per l'esistenza consapevole dei propri limiti, per l'autenticità come valore, si muove dentro una contro-metafisica immanentistica per cui il valore è "tutto qui", nell'ordinario, nel quotidiano, in ciò che è.

La seconda motivazione è che la forza dell'esempio va filosoficamente spiegata. Perché è una forza? Perché attrae e ispira? Alla fine, non si arriva in qualche modo al suo contenere una prefigurazione, un'anticipazione di qualcosa di inattingibile e insieme ineludibile? Al suo raffigurare tangibilmente un prodigioso avvicinarsi a ciò a cui umanamente non possiamo arrivare? Come il sacro si oppone al profano, non si oppone l'esemplare al quotidiano, all'ordinario, al normale, a forme di esistenza che "neanche ci provano" ad attingere a quella promessa di riconciliazione dell'essere e del dover essere? Negarsi il riferimento al sacro non finisce col privarci di una fonte di comprensione di come l'esemplarità dispiega la sua forza?

Luca Baccelli mi invita a un confronto sul tema dei diritti umani. Dopo avere egregiamente ripreso le linee essenziali della giustificazione giudizialista dei diritti umani, a partire dall'idea di una realizzazione dell'identità dell'umanità intera, Baccelli avanza il dubbio che in questa giustificazione siano contenute delle ambiguità e che il suo potenziale non sia pienamente messo a frutto. Penso di dover innanzitutto fugare il dubbio che l'enforcement dei diritti umani, anche attraverso l'intervento militare, possa entrare in tensione con il modello giudizialista, ove la forza dell'esempio ispira nel senso in cui un seduttore seduce e non nel senso in cui un conquistatore opprime. Il solo accennare alla ingerenza umanitaria potrebbe evocare l'immagine di un seduttore impaziente, che supplisce con la forza là dove non riesce altrimenti. Ma ritengo sia un'impressione errata, perché non si tratta mai di imporre con la forza i diritti umani a chi non li accetta, ma di ristabilirne il rispetto là dove siano stati previamente accettati (non importa se per motivi strumentali o altro) e poi sistematicamente violati. Ritengo invece che se esiste uno Stato che deliberatamente li ha sempre rifiutati e li calpesta, e nel farlo compie ad esempio un genocidio o una pulizia etnica su vasta scala, in questo caso non possiamo più pensare all'intervento sulla falsariga di un'operazione di polizia, ma dobbiamo ricorrere a un altro immaginario, quello della "guerra giusta".

In secondo luogo, Baccelli mi chiede se "il punto di vista dell'umanità", preso come punto d'appoggio di un giudizio sulla desiderabilità dei diritti umani, non sia "un concetto ambivalente, che si presta ad essere declinato in forme differenziate". Anche in questo caso, come nella risposta a Franco Crespi, credo che il problema vada rovesciato: quale grande concetto normativo non è ambivalente e non consente, se assolutizzato, di giustificare orrori? Neppure la libertà nelle mani dei giacobini, o l'eguaglianza nelle mani di Lenin e Stalin, si salvano - per non parlare di fede, speranza e carità nelle mani degli Inquisitori. Invece resisto a pensare a una selettività culturale dell'esemplarità. Certamente alcune forme di esemplarità riverberano di luce più intensa in taluni contesti piuttosto che in altri, ma il punto dell'additare l'esemplarità come una delle principali fonti della normatività sta proprio nella capacità di ciò che è esemplare di superare le barriere. "Cosa è esemplare, e per chi?" si chiede Baccelli, e aggiunge: "si pensi alla figura del 'martire' che compie un attentato suicida". Certo, quell'atto dispiega la sua piena valenza entro certe coordinate, più presenti a Baghdad che a Manhattan o a Roma. Ma il punto del discorso è che l'atto dell'attentatore suicida turba anche noi. Leggiamo "A Sociological Understanding of Suicide Attacks" (Theory, Culture & Society, 26, 4, 2009, pp. 67-96), di Domenico Tosini, uno studio documentato su centinaia di casi, e vediamo "fondersi gli orizzonti", le ragioni ci paiono meno estranee. Non c'è niente da fare, lo spessore morale appare. Poi rimane il nostro giudizio di condanna sul terrorismo suicida, ma intanto le parole della madre che ha visto tre suoi figli morire così, per un motivo, non "senza motivo", hanno forato tutte le corazze culturali, bucato tutti i muri ideologici.

Infine, Baccelli propone di considerare i diritti umani "nel senso che acquistano valore esemplare data la loro congruenza con il modo in cui esprimono (il meglio) dell'esperienza giuridica occidentale moderna. Più precisamente, esprimono una corrente dell'esperienza culturale occidentale, che affonda le sue radici nell'antichità classica, nel diritto romano, nel cristianesimo antico e medievale, nell'umanesimo e nell'illuminismo (ed ha dovuto superare enormi difficoltà per ottenere un'affermazione sempre rimessa in questione, da Guantánamo ai campi Rom)". E conclude: "In quanto esemplarmente radicati in una vicenda culturale, storica e sociale i diritti umani possono esercitare attrattiva (corteggiare e sedurre) entro altre esperienze culturali e d'altra parte aprirsi alla contaminazione di altri modelli esemplari". Non potrei essere maggiormente d'accordo su questa base giustificativa minima. Nei Capp. 6 e 7 di Force of the Example, tuttavia, avanzavo l'ipotesi che si possa fare di più. Ipotizzavo che, stante il fatto che Dichiarazione Universale nella sua struttura di elenco indifferenziato e ampio rispecchia un fine "pedagogico" che a 60 anni dal 1948 ha fatto il suo tempo, si possa pensare a un processo "iusgenerativo" fra i popoli del mondo il quale - sul modello del processo costituente domestico - metta capo a una carta vincolante di diritti umani fondamentali, "azionabili". Un regime di costituzione senza Stato su cui molto si va scrivendo e su cui non posso diffondermi ulteriormente qui. La base normativa della cogenza di questi diritti fondamentali sarebbe, né più né meno di quanto accade a livello domestico, il consenso dei consociati, Stato invece che individui in questo caso. La forza dell'esempio interviene qui a motivare perché tale consenso dovrebbe materializzarsi, come riflesso dell'esemplarità di un'idea di realizzazione ottimale dell'umanità - idea su cui ovviamente quell'esperienza richiamata da Baccelli avrebbe grande peso. Difendo ancora la "lista minimale" dei diritti umani, per questo fine di una rule of law mondiale in grado di esser fatta valere, in quanto il suo minimalismo mi sembra garantire un più ampio consenso. Ciò non esclude che accanto ad essa possa esistere una lista anche più ampia di quella rappresentata dalla Dichiarazione del 1948, con un fine però esortativo e non strettamente obbligatorio. Ma l'ampiezza della lista non è una questione di principio, è una questione pratica: a mio avviso possiamo considerare diritti umani "fondamentali", sostenuti se necessario dalla coercizione legale, solo quei diritti su cui c'è il più ampio consenso dei popoli.

Leonardo Marchettoni apre il suo intervento con una impeccabile ricostruzione della mia proposta in merito al sensus communis che sottende la cogenza dell'esemplarità e nelle ultime due sezioni solleva il problema della distanza fra il livello di ciò che può essere condiviso al di là delle differenze culturali - grandi assi di rilevanza semantica e dimensioni generali del fiorire di un'identità - e i conflitti e contenziosi normativi reali che questo "terreno comune" dovrebbe aiutarci, sia pure indirettamente, a dirimere. Ricordandoci acutamente che "the devil is in the details", scrive Marchettoni: "Political conflicts in our contemporary societies do not merely involve the identification of general principles such as those encoded in the standard catalogues of human rights. They are frequently connected with the proper way of ranking those principles in a suitable manner. It is already not obvious that common ideas about flourishing and self-realization enable us to identify a truly universal collection of general principles; to suppose that we can profit of them to display a comprehensive order of values is, to my mind, wholly implausible".

La mia risposta è che tutte le ricostruzioni della base normativa dei nostri giudizi, anche quelle che fanno perno sull'universalità dei principi, sono affette da questa difficoltà, e non si vede perché essa debba essere messa a carico unicamente del paradigma del giudizio. Un'occhiata sommaria alla concorrenza fornirà evidenze immediate. Prendiamo il principio dell'eguale rispetto e dell'eguale dignità di tutti gli esseri umani come oggetto di tutela da parte dell'ordinamento politico. L'eguale dignità ispira sicuramente tanto i membri dell'assemblea legislativa dello Stato del Texas, che la considerano perfettamente compatibile con la pena di morte, quanto i membri del Parlamento Europeo, che invece la considerano ignominiosa. L'idea di dignità della persona è sicuramente presente nella mente tanto dei parlamentari canadesi che nel 2005 hanno approvato una legge sul matrimonio fra persone dello stesso sesso, nel cui preambolo si afferma che ogni previsione legislativa diversa dal "matrimonio a pieno titolo" (leggi: Pacs, Dico, ecc.) è da considerarsi lesiva della dignità umana, quanto dei parlamentari italiani che rifuggono ogni timida proposta di regolazione "civile" come la peste.

Dunque questa faccenda della astrazione delle categorie normative più ampie dai concreti contesti problematici è molto più generale e in nessun modo specifica del paradigma del giudizio. Ciò premesso, vorrei aggiungere un'osservazione al modo in cui Marchettoni suggerisce di affrontare il conflitto normativo. Scrive Marchettoni: "if a certain act is prescribed by one code and forbidden by another, we cannot hope to compensate the lack of convergence merely by drawing on some common ideas that are shared by the two. A solution to the clash of evaluations may come only after a creative immersion and reinterpretation of the two normative systems, one that could shed new light on the reasons for the difference of prescriptions by employing some original idea that has been constructed out of the two different outlooks". Condivido perfettamente. La sfera pubblica di una società democratica è il luogo dove questa "reinterpretazione" può e deve aver luogo. Aggiungo soltanto che la "original idea" che affonda le sue radici nei due codici normativi ma può portarli a sintesi l'ho sempre pensata come in qualche modo da collegarsi con "il fatto dell'interazione". Le due identità culturali in contrasto non sono monadi, altrimenti non vi sarebbe conflitto, ma hanno dei punti di contatto e nell'interagire danno luogo a una configurazione più vasta che le comprende. Il punto di vista di ciò che è ottimale per la realizzazione di questa configurazioni più ampia costituisce forse la fonte primaria per quella "original idea" che può superare il conflitto. E' questo il nocciolo di un'idea di giustizia basata sul giudizio, peraltro favorevolmente richiamata più avanti da Marchettoni.

Questa sezione dell'intervento di Marchettoni si chiude con una obiezione che ho spesso sentito in ogni discussione intorno a Force of the Example. A parte pochi casi di conclamata eccellenza artistica, il giudizio estetico è lungi dall'essere unanime, è controverso, e non è nemmeno suscettibile di dimostrazione. Come può risolvere i problemi di indeterminatezza del giudizio politico? La risposta è che la domanda non è ben posta. Il fine della ricostruzione di una nozione normativa, fosse anche la legge morale kantiana, non è di darci un passepartout per risolvere con certezza ogni conflitto - neanche l'imperativo categorico offre questa prestazione, basti solo pensare ai controesempi prodotti da Hegel, e neppure il principio benthamiano della maggior felicità per il maggior numero di persone - ma quello di dirci sulla base di cosa, quando alla fine di lunghi ragionamenti e bilanciamenti arriviamo ad un giudizio ponderato definitivo per noi, ci attendiamo che anche gli altri convengano.

Infine, da Marchettoni giunge un invito ad essere ancora più radicale. Se vogliamo essere coerenti fino in fondo, sostiene, dobbiamo riconoscere che "our judgments are always contextual, they reflect the circumstances and the specific conditions in which they are elaborated; therefore, it is fruitless to pursue exemplar validity, if by this name we mean a kind of validity that can go forever uncontested, in force of some special relation between the practical evaluation and the state of affairs that is the object of the evaluation itself". Infatti "the judgement by means of which we judge about the exemplar character of a given judgement is itself contextual, and so the judgement about the judgement on the exemplar character of a given judgement, and so on". Non si esce dalla catena dei contesti in cui vengono resi via via i giudizi e metagiudizi di esemplarità. Questo è senz'altro vero: nessuno può parlare da "fuori contesto". La "voce fuori campo" è un mito della filosofia pre-Linguistic Turn. Però è una verità a metà. Per due motivi. In primo luogo per l'ovvia constatazione che se l'enunciato "our judgments are always contextual" ambisse ad essere svincolato a essere indipendente da un qualsivoglia contesto, avvolgerebbe chi lo pronuncia in una contraddizione performativa. In secondo luogo, perché io dubito che quando diciamo "questo non è vero"o "questo non è giusto" in realtà stiamo solo dicendo "per te sarà anche vero, per me non lo è", "per te sarà anche giusto, per me non lo è". Infatti ci sono casi diversi in cui usiamo queste diverse espressioni. E allora rimane il compito filosofico o di denunciare questa differenza come un'illusione - ma io non vorrei passare per uno che la pensa così - o di spiegare, coerentemente con l'assunto della contestualità dei giudizi, cosa mai significhi dire che qualcosa non è vero o non è giusto. Vengo così al brano di Giustizia e giudizio che Marchettoni ha gentilmente citato: "Come lo sguardo dell'innamorato crea il suo amore laddove noi, che non siamo entro il cerchio magico dell'amore, vediamo una persona come tutte le altre; come lo sguardo di colui che vive lontano da casa crea il fascino posseduto da certe luci, suoni e odori laddove noi, che veniamo da un'altra città, vediamo una scena urbana per nulla diversa da tante altre, così noi membri di una cultura e di una comunità politica creiamo la giustizia e la verità laddove altri, diversamente situati, vedono solo opinioni come tante altre" (Giustizia e giudizio. Ascesa e prospettive del modello giudizialista nella filosofia politica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 318). La capacità di oltrepassare i confini del contesto sta in quella eccezionale congruenza, che chiamiamo esemplarità, fra i nostri giudizi intorno a ciò che è giusto e chi noi siamo. L'esemplarità ci interpella, non ci lascia indifferenti. Mi permetto di tornare a quel brano, che proseguiva così: "Solitamente non restiamo indifferenti quando siamo spettatori di un amore, di un momento di autentica rammemorazione del passato, e del vivere secondo giustizia da parte di una comunità. Ne siamo mossi ad un sentimento di ammirazione. Ciò che ammiriamo in questi tre casi è simile. Nell'amore non è la eccezionalità dell'oggetto d'amore - un'eccezionalità che esiste solo agli occhi dell'innamorato - ma l'eccezionalità del rapporto che si instaura fra l'innamorato e il suo oggetto d'amore, un congruire esemplare che è dato percepire anche a noi che a quel contesto siamo estranei. Così quando leggiamo da Benjamin delle sue memorie di infanzia a Berlino siamo toccati in qualche modo dal congruire esemplare tra chi rammemora e le cose a cui conferisce valore. E oggi, in un momento in cui il vecchio paradigma dell'universalismo generalizzante sta perdendo terreno, stiamo imparando a seguire la voce della giustizia non per la validità transcontestuale che certe concezioni antiche e moderne le attribuivano, ma per l'eccezionale rapporto di congruenza che noi instauriamo con una certa sua forma, e che altri instaurano con altre sue forme" (ivi, 318).

Non è difficile per noi far risuonare l'esemplarità di una recente reincarnazione di questa eccezionale congruenza fra normatività e identità, identità in questo caso di una comunità politica. Chiudo allora la mia risposta a Marchettoni, ma anche a tutti i colleghi che generosamente sono intervenuti, raccontando in poche righe una storia che può rendere visibile la forza dell'esempio.

Era un giorno di mare grosso dell'agosto del 1619 quando la San Juan Bautista, una nave portoghese salpata da Luanda in Angola e diretta a Vera Cruz, in Messico, con a bordo una ventina di africani, fu attaccata da un'altra nave battente bandiera olandese e depredata. Ma presto gli olandesi rimasero a corto di cibo e sbarcarono a Jamestown, in Virginia. Non avevano altra merce di scambio se non i venti africani, che lasciarono in cambio di rifornimenti e ripartirono. Questi venti africani furono subito messi al lavoro, in una condizione incerta, tanto che dei documenti del 1623 e 1624 li menzionano come "servi", accanto a una lista di "servi" bianchi a termine (servi forse per indebitamento). Accanto ai nomi dei "servi" bianchi, in quei documenti, è annotato l'anno in cui ridiventeranno a tutti gli effetti liberi, ma accanto ai nomi dei servi africani non è segnata alcuna data. Poi nel 1640 la schiavitù viene ufficialmente istituita a Jamestown, e una sentenza della locale corte civile ordina ad uno di questi africani "di servire il suo padrone per tutta la durata della sua vita naturale, qui o altrove". Sono passati meno di quattro secoli da quell'agosto del 1619, e oggi, nel Paese che è venuto sviluppandosi da quel nucleo di coloni della Virginia e che ha posto in cima alla sua Dichiarazione d'Indipendenza la "verità evidente" che "tutti gli uomini sono stati creati eguali", un uomo con i tratti dei molti schiavi che seguirono a quei primi venti è pacificamente il Presidente di quel Paese. Non c'è altro da aggiungere.