2009

A proposito di "La forza dell'esempio" di Alessandro Ferrara

Franco Crespi (*)

Riprendendo e sviluppando temi da lui già affrontati in testi precedenti, Ferrara approfondisce in modo molto chiaro e articolato la sua "ambizione di elaborare una pars construens" che, portando alle sue ultime conseguenze la critica al fondazionalismo moderno iniziata dalla svolta linguistica e dalle varie filosofie postmoderne di tipo decostruzionista, sia in grado di offrire "una nuova visione della normatività e del giusto" equidistante sia dalle tentazioni neonaturalistiche che oggi sembrano riprendere vita, sia dall'accentuato relativismo delle posizioni culturalistiche che sottolineano l'insuperabile differenza e specificità dei contesti (cfr. p. 9). Tra le tante possibili, la "terza via" proposta da Ferrara vuole attingere a una forza normativa che, al di là delle teorie formali di tipo proceduralistico (Rawls, Habermas), si fondi, oltre che sulla ripresa del concetto aristotelico di phronesis, sul concetto kantiano di giudizio riflettente e quindi sulla esemplarità, introducendo tuttavia due nuove dimensioni. La prima muove dal riferimento a un nuovo concetto di sensus communis non ridotto soltanto a facoltà naturale, la seconda, ampliando i limiti di tipo individualistico sin qui riservati al giudizio esemplare, intende aprire alle istanze proprie dell'ambito pubblico.

All'interno della "prospettiva di insieme di Kant" (p. 50), il sensus communis va compreso secondo Ferrara, come la dimensione di ciò che appare come "peculiarmente umano" in quanto elemento irriducibile alla plasticità della cultura o a una datità naturalisticamente intesa. Tale peculiarità può essere colta anzitutto nella finitezza dell'essere umano come essere mortale, che, all'interno di un arco temporale, è dotato di un corpo ed è capace di esprimere, attraverso mezzi simbolici, una intenzionalità, più o meno ricca, più o meno creativa. Su questa base, il concetto kantiano di "promozione e affermazione della vita" viene inteso da Ferrara nei termini di un processo di autorealizzazione quale "relazione autentica del Sé con se stesso" e quale "congruenza ottimale con se stessa da parte di una identità" (p. 51).

Il sensus communis appare allora come il sostrato intuitivo che fonda, in modo relativamente indipendente dalle differenziazioni culturali, il nostro sapere circa il carattere riuscito di una vita o di una identità. Tale sapere di natura pre-culturale permette, secondo Ferrara, di comprendere come possa darsi un criterio universale dell'esemplarità che, ovviamente, non esclude che esso trovi, di volta in volta, forme di espressione specifiche a seconda dei diversi contesti socio-culturali.

In analogia con le facoltà che sottendono, secondo Kant, alla nostra capacità innata di pervenire al giudizio estetico e alla valutazione di una opera d'arte pienamente riuscita, Ferrara integra ulteriormente il suo riferimento al sensus communis mediante quattro dimensioni fondamentali che permettono di definire una raggiunta autenticità personale.

Riprendendo le categorie di tipo psicoanalitico usate nel suo libro Autenticità riflessiva del 1999, Ferrara individua tali dimensioni nella coerenza, intesa come coesione e continuità di un progetto di vita riconoscibile; nella vitalità, quale percezione del Sé come degno di amore e di stima, come capacità di aderire alla vita e di sviluppare un interesse nei confronti di quest'ultima; nella profondità, in quanto capacità della persona di accedere alle proprie dinamiche psichiche, all'autonomia e al governo di sé; nella maturità, intesa come "capacità di venire a patti con la fatticità del mondo naturale e sociale" (p. 54).

Ho richiamato in modo molto schematico la maniera altamente originale con la quale Ferrara configura, sin dall'inizio, le potenzialità del giudizio riflettente su cui si fonda la "forza dell'esempio" perché vorrei limitarmi ad affrontare tale aspetto fondamentale della sua teoria senza considerare le diverse tematiche, che egli sviluppa successivamente nel testo, riguardanti l'applicazione del suo principio in campo politico e giuridico.

Voglio dire subito che l'impianto generale della proposta di Ferrara, nei diversi sviluppi della sua prospettiva di cui non posso dare qui conto adeguato, appare feconda di possibilità soprattutto quale tentativo di andare al di là delle procedure fondate unicamente su regole formali con il riferimento a contenuti o categorie a carattere universale, evitando tuttavia, come prima accennavo, di cadere in qualche forma di naturalismo o nella Lebenswelt fenomenologica o nel puro culturalismo storicista di tipo ermeneutico. Il ricorso alla forza dell'esempio mi sembra abbia anzitutto il grande vantaggio di porsi a livello dell'esperienza pratica, riconoscendo i limiti della conoscenza puramente razionale, e di essere formulato come una proposta e un invito al dialogo interculturale, escludendo ogni elemento di imposizione o di disconoscimento nei confronti di chi può pensare o sentire diversamente.

Non nascondo tuttavia di avere qualche perplessità riguardo ai criteri che, a partire dalla sua idea di sensus communis e dalle quattro dimensioni fondamentali sopra ricordate, Ferrara adotta per definire una "vita riuscita". Egli sembra nutrire anzitutto una sorta di sostanziale ottimismo circa la presenza in ogni essere umano di una spontanea capacità di valutare il significato di una tale realizzazione. Che tale capacità possa sussistere allo stato potenziale mi sembra fuori discussione, ma Ferrara sembra considerarla invece come una dimensione presente nell'attualità del giudizio di ogni singolo individuo: "ogni individuo umano non può non fare esperienza [...] di cosa voglia dire per la propria vita nel suo complesso [...] essere affermata, arricchita o 'agevolata' oppure al contrario essere mortificata e frustrata: in una parola, di che cosa voglia dire per la propria vita fiorire o ristagnare" (p. 51). E ancora: "indipendentemente dalla cultura in cui abitiamo e semplicemente per il fatto di esistere, nel modo in cui gli esseri umani esistono, con un corpo, una mente, una coscienza di sé e della sua finitezza - tutti possediamo un senso intuitivo di che cosa significhi arricchire e promuovere la nostra vita, o mortificarla e condannarla a stagnare" (p. 85).

Si sarebbe tentati di portare una infinità di esempi delle distorsioni nevrotiche, dell'influenza di proiezioni illusorie o di modelli culturali alienanti di cui può restare vittima il nostro "senso intuitivo" di ciò che è positivo o negativo per la nostra realizzazione.

Anche tenuto conto delle quattro dimensioni fondamentali che qualificano l'autenticità, mi sembra che quest'ultima resti qui affidata soprattutto a una "autocongruenza" di tipo puramente soggettivo che può designare, nei singoli casi, modelli prevalenti di natura molto diversa e anche tra loro contrapposti: la brama di possesso, la sete di potere, l'affermazione narcisistica del sé, o al contrario la carità, il sacrificio per il bene degli altri, l'impegno politico volto all'emancipazione ecc. L'autenticità realizzata, nei termini proposti da Ferrara, può assumere, di volta in volta, valenze costruttive sia riguardo alla persona che la pone in essere sia riguardo ai rapporti interpersonali e sociali, oppure distruttive della persona stessa e dei suoi rapporti con gli altri. Se la coerenza e la vitalità possono essere presenti in tutte le forme sia costruttive sia distruttive, la maturità e la profondità potrebbero certamente essere suscettibili di costituire un criterio per discriminare tra le diverse forme. Tuttavia, malgrado la loro assonanza con il discorso psicoanalitico, anche queste ultime dimensioni non sembrano fornire una possibilità decisiva di distinzione, in quanto si possono applicare ad ogni tipo di contenuto della realizzazione di una persona. Anche quando affronta, come dirò tra breve, il problema del male, Ferrara non sembra veramente porsi l'interrogativo sul carattere distruttivo cui può condurre un progetto di vita sia pure caratterizzato dalle quattro dimensioni.

La giusta esigenza di non definire i contenuti specifici dell'autenticità, secondo valori che restano fatalmente legati al contesto culturale e alla particolarità delle diverse esperienze individuali e collettive nel corso della storia, rischia, in assenza di un più preciso riferimento alle caratteristiche proprie della condizione di vita degli esseri umani di vanificare il criterio di giudizio rendendolo eccessivamente indeterminato. Credo che il difetto principale di tale impostazione sia proprio da ricercare nel concetto di sensus communis che è alla base dell'argomentazione di Ferrara. Non si comprende infatti su cosa si fondi la possibilità di una universale condivisione pre-culturale su ciò che costituisce la vita riuscita se non si presuppone il riconoscimento dell'appartenenza originaria a una comune situazione esistenziale.

Ferrara, come ho ricordato sopra, indica nella mortalità, nella temporalità, nella coscienza, nella presenza di forme di mediazione simbolica, alcuni caratteri propri dell'essere umano, ma nel suo intento di restare fedele a una posizione post-metafisica, egli li dà per scontati, senza ricollegarli tra loro e senza spiegare a sufficienza come tali diversi aspetti facciano parte di una particolare condizione degli esseri umani che non saprei definire altrimenti che in termini di "esistenza".

La comune situazione esistenziale appare caratterizzata anzitutto da una profonda inconciliabilità tra il carattere finito legato alla mortalità e alla temporalità e la dimensione riflessiva dell'autocoscienza che, interrompendo l'immediatezza della vita animale, si apre, nel linguaggio, a una dimensione di infinito, la quale però non si libera in alcun caso in una forma di pura trascendenza. La coscienza, infatti, resta fatalmente legata al rapporto con le determinazioni in una costante oscillazione tra identificazione con tali forme e presa di distanza rispetto ad esse. Il fatto che l'evento della coscienza si configuri soprattutto come sentimento di una mancanza, come desiderio di una impossibile conciliazione, come perdita irreparabile del paradiso terrestre o nostalgia senza fine dell'età dell'oro, segna l'ambivalenza dell'esperienza esistenziale e la sua possibilità di deriva verso illusorie assolutizzazioni di un aldilà dall'esistenza che, come sottolineava Nietzsche, costituiscono la radice di ogni patologia dell'agire umano.

La tendenza a evadere dalle condizioni proprie dell'esistere sembra debba essere tenuta in conto ogniqualvolta si vuole definire qualcosa come l'autenticità. La profondità che consiste nell'aderire alla vita e di accedere alle proprie dinamiche psichiche trova una sua più precisa definizione quando la si confronti con la difficoltà di accettare l'inconciliabilità dell'esistenza, con l'assenza di soluzioni definitive suscettibili di una suprema conciliazione. Allo stesso modo, in questo stesso contesto, la dimensione della maturità viene a configurarsi come la capacità pratica di gestire le contraddizioni insuperabili della condizione esistenziale, senza cercare di nasconderle o di negarle attraverso proiezioni superegoiche, rappresentazioni dogmatiche di un destino ultraterreno o di una finalità ultima del processo storico. L'autenticità si misura allora nel riferimento alla possibilità di prendere l'esistenza per il suo verso oppure di prenderla, per così dire, contropelo nel tentativo, sempre destinato al fallimento, di superarne definitivamente le contraddizioni. In questa prospettiva, appare inautentico ogni atteggiamento dettato dalla hybris che porta a collocarsi al di sopra dell'esistenza: delirio di potere, esaltazione narcisistica dell'io, identificazione con rappresentazioni simboliche a carattere assolutistico fondate sulle fedi di tipo religioso o politico-ideologico, sull'esaltazione fanatica di identità costruite sulla base di appartenenze di tipo comunitario o anche semplicemente sulla valenza simbolica rappresentata dall'accumulazione - consumo di beni, ecc.

Il carattere inconciliabile dell'esistenza derivante dalla presenza della coscienza comporta non solo i limiti propri della finitezza, ma anche la dimensione costitutiva della relazione intersoggettiva per la formazione dell'individualità e il fatto che non può darsi coscienza se non all'interno del riconoscimento reciproco con un'altra coscienza, secondo quella dinamica del riconoscimento che, a partire da Hegel, è stata oggi messa in evidenza, tra gli altri, soprattutto da Axel Honneth e da Lucio Cortella, e che, in ultima analisi, trova la sua compiuta espressione nel riconoscimento dell'inoggettivabilità del sé e dell'altro. Malgrado la sottolineatura del carattere condiviso del sensus communis e malgrado riconosca che l'identità è sempre legata al reciproco riconoscimento e che una piena realizzazione "non può essere ottenuta a spese della realizzazione di una più ampia identità umana" (p. 121), Ferrara di fatto non sembra spiegare sufficientemente in cosa consista tale più ampia identità e l'analisi dell'autenticità viene da lui condotta prevalentemente come analisi dell'autocongruenza del rapporto autoreferenziale con il sé, senza tenere adeguato conto della rilevanza che assume anche per questo stesso rapporto la relazione costitutiva con l'altro e la richiesta reciproca di riconoscimento.

Il riferimento alla comune situazione esistenziale, nei termini che ho brevemente sopra indicato, non annulla in alcun modo la singolarità dell'esperienza di ciascuno dal momento che la dinamica di accettazione o fuga dai limiti dell'esistenza può trovare espressione nelle forme culturali più diverse. Non è necessario infatti che venga formulata nel modo esplicito che ho tentato di fare con gli strumenti concettuali attualmente a mia disposizione: persino nelle culture e nelle mitologie arcaiche, estranee all'idea di coscienza e di individuo, possono essere rinvenute rappresentazioni simboliche volte prevalentemente ad orientare verso un aldilà dall'esistenza oppure a favorire l'attenzione al presente e alle contraddizioni proprie della particolare situazione nella quale vengono a trovarsi gli esseri umani a causa della riflessività che li contraddistingue. Come ha mostrato Lévi-Strauss, il mito è quasi sempre legato alle attività pratiche che l'essere umano incontra nel suo rapporto con l'ambiente naturale

Com'è noto, non in tutte le innumerevoli forme culturali elaborate nella storia dell'umanità è emersa la "coscienza della coscienza", che anzi può essere considerata un risultato assai recente, ma la presenza della riflessività cosciente è attestata in tutte le forme di società umana dal linguaggio, quale comunicazione intersoggettiva costitutiva della realtà naturale e sociale, e dalla necessità, conseguente al radicale affievolimento dei meccanismi istintuali prodotto dalla stessa coscienza, di dover ricorrere a rappresentazioni simboliche e a forme rituali per assicurare l'osservanza delle regole che presiedono alla convivenza.

Non solo ogni cultura, ma anche ogni collettività o gruppo, come ogni individuo, nell'interpretazione più o meno creativa delle condizioni dell'esistenza, può dare vita a forme più o meno adeguate di realizzazione dell'autenticità, in quanto capacità di aderire al verso proprio dell'esistenza. Per questa ragione, ogni forma di religione, ideologia o altro, se considerata nel suo contesto storico-sociale, può avere, a seconda dell'uso collettivo o individuale che ne viene fatto, una sua validità per l'effettiva mediazione dell'esperienza esistenziale oppure costituire un ostacolo teso ad alienarla.

Sulla base di questi presupposti vorrei, prima di concludere, considerare brevemente la formulazione proposta da Ferrara circa il male radicale e il suo nesso con il concetto di sacro.

Giustamente Ferrara osserva che la forza dell'esempio può avere una sua validità negativa nei confronti di ciò "da cui ci ritraiamo con orrore" (p. 109). Distinguendo tra male normale o ordinario e male radicale, egli pone il problema di come si possa elaborare una concezione postmetafisica del male radicale. Secondo Ferrara, il male ordinario "ci mostra quello che non si dovrebbe fare e per contrasto ci segnala quel che si dovrebbe fare", al contrario il male radicale "è quello che non dovrebbe mai essere accaduto e che ci ripugna collegare in qualunque modo - fosse anche come esemplificazione di quello che non si dovrebbe fare - con una vita umana degna di questo nome" (p. 127). Anche qui il riferimento è a un comune sentire, alla reazione psicologica ed emotiva che suscita in noi, ad esempio, il fenomeno dell'Olocausto.

Ferrara giustamente osserva che il male non è mai perseguito in quanto male, bensì attraverso una distorta concezione di ciò che è bene. Ora credo che questo dovrebbe portarlo a riflettere maggiormente sul nesso che viene a stabilirsi tra agire violento e distruttivo e le forme di rappresentazione che orientano l'agire: ogniqualvolta tali rappresentazioni si pongono come interpretazioni assolute del vero (volontà di Dio delle religioni istituzionali, necessario progresso della storia verso una società perfetta priva di conflitti del dogma marxista, promessa di mille anni di felicità del nazismo, magnifiche sorti progressive garantite dalla scienza e dalla tecnologia ecc.) può emergere il male radicale. Ancora una volta viene confermato il carattere patologico dell'assoluto in quanto hybris fatalmente orientata a cercare un aldilà dall'esistenza.

Il male normale di per sé non assolutizza, non pretende di mettere radicalmente in discussione l'ordine normativo e di imporre la propria modalità d'essere. Il ladro non vuole che tutti siano ladri, non ne avrebbe oltre tutto convenienza, ma qualora volesse imporre con la forza che i ladri siano una razza superiore degna di dominare su tutti allora ricadrebbe nell'assolutizzazione propria del male radicale (la mafia nella pratica non è lontana dal male radicale).

Sulla base di queste considerazioni, dissento radicalmente dal richiamo di Ferrara al concetto di sacro elaborato, fra gli altri, da Durkheim. Fornendo una versione "laica" del concetto di sacro, egli afferma che "Il sacro non può essere associato all'idea di divino" (p. 124). Anzitutto storicamente credo che comporti una vera forzatura voler scindere il concetto di sacro dalla sua secolare connotazione con qualcosa che, nella sua contrapposizione al profano, conserva una valenza di tipo misterioso, trascendente, quasi un'energia o una potenza magica che si cela e, al tempo stesso, interviene nella vita umana e sociale. In secondo luogo, il concetto di sacro appare, nella nostra tradizione culturale, prevalentemente connesso alla violenza e alla sopraffazione. E' in nome dell'identificazione con la sacralità del divino o di quella dello spirito della nazione o della razza che si sono compiuti i peggiori misfatti. Abbandonerei quindi il riferimento al sacro, tenuto conto dell'ambiguità che esso comporta (al limite semmai per me "sacro" è proprio il profano, l'esistere nella sua quotidianità) e, di gran lunga, mi sembra preferibile il concetto formulato dallo stesso Ferrara di "nucleo normativo non negoziabile" (p. 125), in quanto concetto che non ha alcun bisogno di essere confuso con il sacro, anche se avrei qualche perplessità a collegarlo, come fa Ferrara, con l'identità collettiva, perché penso che, se si vuole veramente dialogare, occorre anche relativizzare la propria identità. L'accento non va posto tanto sull'identità, che pure è certamente una determinazione socialmente necessaria ma anche sempre riduttiva rispetto al carattere inoggettivabile dei soggetti, quanto sul dato di fatto che esistono limiti alla mia capacità di tolleranza e di dialogo, limiti che non pretendo di imporre agli altri, ma piuttosto di farli da loro accettare per l'appunto con la "forza dell'esempio".

Mi fermo qui, rendendomi conto di non aver reso piena giustizia alla ricca e suggestiva articolazione del complesso discorso di Ferrara, ma soltanto di aver reagito ad alcuni presupposti della sua argomentazione, presupposti che considero importanti al fine di un chiarimento delle possibilità aperte dall'universalismo esemplare.


*. Professore emerito di Sociologia, Università di Perugia.