2009

Note a margine del volume di Alessandro Ferrara La forza dell'esempio

Lucio Cortella (*)

L'impegno teorico centrale degli ultimi lavori di Ferrara (in realtà riferibile alla sua intera produzione, fin dai primi scritti) è caratterizzato dalla ricerca di quello che egli definisce nel suo ultimo volume un "possibile universalismo non fondazionalista" (p. 24; d'ora in poi tutti i riferimenti bibliografici sono relativi al volume qui discusso, La forza dell'esempio). Questa espressione tuttavia non caratterizza la specificità del suo intento (che se rimanesse così potrebbe essere accomunato a quello di altri autori contemporanei, come Rawls o Habermas). Secondo Ferrara, infatti, l'universalismo dovrebbe essere non solo "non-fondazionalista", ma anche "non-procedurale" o, meglio ancora, un "universalismo senza principi" (p. 42). Questa formula può essere adeguatamente compresa se si tiene presente quell'evento che, secondo Ferrara, rende impossibile la continuazione dell'universalismo filosofico classico, vale a dire la cosiddetta svolta linguistica. Ogni tipo di universalismo dovrebbe fare seriamente i conti con quella svolta e solo dopo questo confronto potrebbe avere le carte in regola per riproporsi alla coscienza contemporanea.

Il motivo per cui l'avvento del paradigma linguistico incide profondamente sulla tradizionale pretesa filosofica di universalità sta nel modo specifico in cui esso viene inteso da Ferrara. Il tramonto del paradigma coscienzialistico è infatti da lui interpretato come il passaggio da un approccio universalista-fondazionalista ad uno pluralista-contestualista. Ovviamente si tratta di una interpretazione specifica e restrittiva della svolta linguistica, alla quale altri protagonisti di quella svolta potrebbero non aderire, non vedendo alcuna incompatibilità fra paradigma linguistico e universalismo fondazionalista. K.O. Apel, tanto per fare un nome, pur assumendo la svolta linguistica, ha continuato a riproporre un approccio fondazionalista, e lo stesso Habermas, pur rifiutando il fondazionalismo apeliano, ha ritenuto del tutto compatibile una convivenza di paradigma linguistico e universalismo proceduralista. Per Ferrara invece quella svolta implica inevitabilmente l'assunzione del pluralismo e del relativismo contestuale. Il linguaggio viene da lui assunto in termini wittgensteiniani come presa d'atto di un'irriducibile pluralità di linguaggi e dell'impossibilità di uscire dal proprio specifico dialetto. Così egli scrive: "Avete voi un'argomentazione convincente per affermare, contro Wittgenstein, che possiamo guadagnarci una conoscenza elaborata del mondo - e non immediatamente sensibile - fuori dai quadri semantici di un qualsiasi linguaggio?" (p. 23).

Questa non è però la conclusione di Ferrara, bensì la sua premessa, il suo punto di partenza. Da qui deve partire l'impegno per un universalismo diverso. Il contestualismo linguistico non impedisce infatti, a suo avviso, la possibilità di pervenire a norme trans-contestuali (1), anche se diverse dall'universalismo tradizionale. Di quali norme si tratta e come si caratterizzano? Secondo Ferrara questa loro trans-contestualità non si dovrebbe manifestarsi sotto la forma classica dei principi, dei valori o delle "covering-laws". Se fosse così si tratterebbe solo di false universalità, incapaci realmente di unificare. E questo non solo perché non riescono a fare seriamente i conti con la svolta linguistica ma soprattutto perché di fatto coprono sotto una forma apparentemente universalistica la loro cultura di appartenenza e la loro inaggirabile contestualità.

Per questo motivo la via proceduralista è una strada sbagliata: nessuna procedura formale (né la via filosofica forte di tipo trascendentale, né quella - più debole - di tipo argomentativo-discorsivo) è in grado di garantire una tale universalità, è cioè capace di unificare le divisioni culturali, linguistiche e contestuali. Quello che non riesce alle procedure formali può però riuscire, secondo Ferrara, alla nostra individuale capacità di giudizio (Urteilskraft), ovvero a quella facoltà in grado di cogliere (o di determinare positivamente) nei casi singoli (azioni, comportamenti, istituzioni, movimenti collettivi) l'universalità di cui sono esempio e modello. Quando accade ciò quel caso singolo appare a noi come un "caso esemplare" e quindi è in grado di raccogliere attorno a sé un consenso trans-contestuale e tendenzialmente universale.

Risulta evidente da tutto ciò che la differenza rispetto al paradigma discorsivo non sta nell'obiettivo finale (che è il medesimo in entrambe le impostazioni: il raggiungimento dell'universalità) ma nel modo di arrivarci, nel mezzo adoperato, nel percorso usato per arrivare all'universalità. Mentre nel paradigma discorsivo la procedura consiste nella ricerca di un consenso argomentativo attorno a norme universali, nel paradigma del giudizio tale procedura consiste nell'esibizione di casi singoli eccezionali, esibizione che può in tal modo essere sgravata dalla necessità di dover discutere esplicitamente e di convenire consensualmente sulle norme universali contenute in essi. Non è richiesta qui alcuna giustificazione argomentativa esplicita (né concretamente realizzata né idealmente presupposta) in grado di ottenere il consenso dei coinvolti, ma solo la disponibilità di questi stessi coinvolti ad usare la loro facoltà di giudizio.

Apparentemente Ferrara sembra affidare a questa facoltà tutto il peso dell'ottenimento dell'universale e del raggiungimento del consenso attorno all'esemplarità. Se le cose stessero veramente così ci troveremmo di fronte ad una sorta di prodigio miracolistico, dato che la facoltà di giudizio non solo sarebbe in grado di cogliere l'universale nel particolare ma sarebbe anche capace di suscitare l'accordo trans-contestuale in una condizione di frammentazione linguistica. In realtà, proprio in quest'ultimo libro, viene alla luce la condizione sottostante che consente alle differenziate e plurali facoltà giudicatrici di trovare il consenso attorno ai casi esemplari. Questa è costituita da quello che Ferrara chiama il "sensus communis", una sorta di sapere condiviso, per lo più implicito, che attraverserebbe le differenti culture, attorno all'idea di che cosa significa una vita riuscita, autentica, realizzata. In altri termini: il caso esemplare sarebbe in grado di evocare in tutti gli uomini capaci di giudizio la normatività della vita realizzata, un'idea che sarebbe quindi presente all'interno di ogni essere umano. Ferrara scrive che il giudizio si appella "a uno strato di intuizioni che abbiamo motivo di supporre accessibili da una pluralità di prospettive, in quanto tali intuizioni si collegano all'esperienza umana (...) del veder fiorire o ristagnare la propria vita" (p. 54). Ne deriva che il fondamento di un possibile universalismo morale più che nel giudizio starebbe in questa comune intuizione di che cosa significa "vita buona" (2). Questa comune intuizione sarebbe alla base di quei giudizi (morali, politici, estetici) capaci di superare le barriere contestuali.

Decisivo diventa a questo punto stabilire i contenuti precisi di questo sensus communis, i suoi confini, che cosa includervi e che cosa escludere da esso, ma soprattutto dare una giustificazione della sua pretesa di validità (in assenza della quale qualunque sapere normativo potrebbe vantare l'autorevolezza del sensus communis). Ferrara esclude da subito la via ontologica tradizionale: non è possibile alcuna deduzione di quel sapere a partire da una supposta natura umana. Ugualmente da escludere sono altri modi di fondazione filosofica (ad esempio di tipo trascendentale), perché in tal modo rientrerebbe dalla finestra quel fondazionalismo cacciato dalla porta fin dalle prime battute. L'unica risorsa che Ferrara potrebbe ammettere per trovare e giustificare l'esistenza di un tale terreno comune sarebbe sempre e solo il giudizio. È evidente però l'insufficienza di una tale risposta. Infatti noi possiamo confidare nella capacità del giudizio di superare i contesti solo se già confidiamo nell'esistenza di un tale terreno comune. In altri termini: riteniamo valido un giudizio solo se riteniamo valido il sensus communis. Perciò non possiamo affidarci al giudizio per giustificare ciò che è invece una sua condizione di possibilità. Resta perciò scoperto il problema della giustificazione, dal momento che non basta asserire (ma bisognerebbe giustificarlo) che "tutti possediamo un senso intuitivo di che cosa significa arricchire e promuovere la nostra vita" (p. 85).

Una soluzione potrebbe essere individuata nel percorrere una sorta di via indiretta: cercare all'interno delle intuizioni normative che noi supponiamo presenti all'interno del sensus communis quei caratteri che potrebbero manifestare il fondamento finora mancante. Ora l'intuizione normativa fondamentale è - come abbiamo visto - quella relativa all'idea di vita buona, di una identità di vita realizzata. Secondo Ferrara quell'idea contiene sia tratti contestuali (e anche strettamente individuali) sia tratti trans-contestuali. Introducendo questa seconda possibilità, Ferrara si mette in rotta di collisione con la tesi habermasiana secondo cui l'idea etica di vita buona sarebbe consegnata inevitabilmente a un pluralismo irriducibile di prospettive. Poiché invece, secondo lui, una concreta idea di vita buona percorre trasversalmente tutte le culture, l'etica riesce a coniugarsi felicemente con quell'universalismo che secondo Habermas sarebbe raggiungibile solo grazie al proceduralismo morale.

Assistiamo qui ad un interessante capovolgimento dell'attribuzione dei caratteri universalistici dalla morale all'etica. Mentre la morale risulta incapace di un vero universalismo dato che il suo proceduralismo, tagliando fuori proprio l'idea di vita buona, produce solo un universale vuoto, l'etica, mettendo in campo l'idea di una vita riuscita riesce a fornire le basi per un consenso trans-contestuale attorno ai casi esemplari. Ora il vero motivo di questa superiore capacità dell'etica sta nel fatto che la sua idea di vita buona affonda le proprie radici in un ethos condiviso. Ne deriva che l'universalismo diventa possibile solo se è sostanziale, solo se già esiste a livello di forma di vita, solo se è hegelianamente un "mondo sussistente", un ethos che sta alle nostre spalle e che il giudizio riflettente è in grado di scoprire e di rivelare.

Ora che cosa contiene quest'idea di vita realizzata, depositata nel sensus communis? Secondo Ferrara essa contiene non solo ciò che è bene per la mia vita e per la mia identità, ma anche ciò che è bene per la vita della mia comunità, e perfino ciò che è bene per l'intera umanità (3). E il motivo di ciò sta nella natura relazionale sia della mia identità sia dell'identità comunitaria. Ferrara propone - a questo proposito - una "interpretazione intersoggettiva della natura dell'identità" sostenendo il suo essere "legata al reciproco riconoscimento da parte di altre identità" (p. 121).

In questi motivi può essere intravista una soluzione al problema che stiamo esaminando: l'idea di identità individuale e quella di autenticità, nonché il significato di ciò che chiamiamo "vita realizzata", si formano all'interno delle relazioni di riconoscimento. Sono quelle relazioni che stanno alla base dello stesso sensus communis e che contribuiscono alla sua formazione. Noi infatti apprendiamo la cura per la nostra vita e per la vita degli altri proprio a partire dalla cura che gli altri hanno per noi: in questo processo reciproco si forma in noi l'idea di una vita buona e realizzata.

Ma allora non è la nozione di autenticità ciò che caratterizza primariamente il sensus communis, perché quella nozione si genera a partire dal riconoscimento che abbiamo ottenuto dagli altri. È grazie ad esso che si forma in noi l'idea della nostra dignità, della nostra autonomia e di ciò per cui val la pena di vivere (4). Le relazioni di riconoscimento precedono, non seguono, la formazione dell'idea di un'identità di vita realizzata. Dato che in quelle relazioni si costituiscono i nostri punti di vista normativi, se ne può perciò concludere che esse siano la base genetica del nostro ethos condiviso e della nostra capacità di giudizio morale e che quindi in esse vada individuata la via per la giustificazione - finora mancante - della validità del sensus communis.


Note

*. Professore ordinario di Storia della filosofia contemporanea, Università Ca' Foscari di Venezia.

1. A proposito della teoria politica Ferrara sostiene che noi abbiamo bisogno di una teoria "capace di risolvere conflitti di interesse e di valore in modi che siano riconosciuti validi trasversalmente rispetto alle divisioni culturali che caratterizzano le società complesse" (p. 42).

2. Interessante è, a questo proposito, quanto Ferrara scrive in relazione alla nozione di "ragionevole" in Rawls: qualcosa può apparire ragionevole in una discussione pubblica non perché viene dedotto necessariamente da premesse condivise (se fosse così non sarebbe necessaria una discussione) ma perché certe conclusioni ci appaiono "normativamente" (e non logicamente) vincolanti, cioè derivano da un'idea condivisa di che cosa significa "vita realizzata". Il "ragionevole" esercita su di noi una certa influenza, cioè diventa collettivamente accettabile "in virtù di ciò che noi siamo, in virtù della nostra concezione di noi stessi" (p. 103). Una tale conclusione potrebbe essere estesa anche al consenso argomentativo habermasiano: l' "argomento migliore", quello in grado di ottenere consenso, sarebbe tale in quanto risulterebbe congruente con la nostra concezione di che cosa significa vita realizzata. In ciò starebbe la sua forza persuasiva.

3. Si vedano a questo proposito le considerazioni svolte nel saggio sul "male".

4. Ciò spiegherebbe anche la circostanza, sostenuta con forza da Ferrara, per cui l'idea di autenticità resterebbe essenzialmente legata sia alla percezione di sé come degno di amore e di stima sia alle "nozioni di equità e di uguale rispetto fra cittadini liberi ed uguali" (p. 107).