2005

G. Zagrebelsky (a cura di), Diritti e Costituzione nell'Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 308, ISBN 88-420-6983-3

Dopo circa un anno dalla fine dei lavori in Convenzione, il 19 giugno 2004 la Conferenza Intergovernativa ha approvato in via definitiva il Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa: la sua firma ufficiale è prevista a Roma, il novembre successivo. Come suggerito dai convenzionali, la seconda parte del testo includerà la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea già proclamata al Consiglio di Nizza nel 2000 ma priva, finora, d'efficacia giuridica. Anche in una fase tanto avanzata il processo costituente non ha dissipato le perplessità che lo hanno accompagnato e, per dirla col Guicciardini, una fitta nebbia continua a separare le piazze nazionali dai palazzi europei. Il volume collettivo curato da Zagrebelsky, Diritti e Costituzione nell'Unione Europea, cerca di fare chiarezza in materia affrontando il dibattito sul "futuro dell'Europa" nelle sue implicazioni strettamente politiche, implicazioni in genere neutralizzate dal lessico diplomatico o dalle formule degli ingegneri istituzionali. Scritti in gran parte tra il 2000 e il 2001, e pubblicati nel 2003, i tredici contributi sono stati superati in alcuni punti dagli eventi, ma il loro impatto resta notevole: pur non abbracciando nessun partito preso euro-scettico gli autori non concedono nulla a chi, oggi, voglia presentare il nuovo trattato come il migliore possibile.

Dove c'è o potrebbe esserci democrazia, ossia a livello nazionale, non si decide più e dove invece si decide, ossia a livello sovra-nazionale, la democrazia non c'è ancora. Non tutti gli autori interpretano lo "spazio giuridico globale" nato dall'Unione alla luce di un simile paradosso, ma nelle loro riflessioni su cosa sia (o debba essere) una costituzione europea difficilmente possono ignorare un fatto ormai accertato. Nelle materie sempre più numerose che gli competono il diritto comunitario gode di "applicabilità diretta" e di "primato normativo" sull'ordinamento interno degli stati, costituzioni incluse: i trattati, i regolamenti e in parte anche le direttive creano eo ispo obblighi e diritti per gli stati e per i cittadini. Al tempo stesso, però, la procedura legislativa ed esecutiva delle norme comunitarie difetta a tal punto di partecipazione, trasparenza e controllo da non soddisfare gli standard di legittimità propri delle norme nazionali.

Nonostante le diverse vie d'uscita prospettate al problema, una visione finisce per consolidarsi tra le righe del volume: se si vuole recuperare l'esperienza democratica degli stati di diritto nazionali, il nodo della sovranità europea non può essere sciolto solo e parte principis, trattando le competenze che l'Unione e gli Stati si contendono o le procedure di voto come questioni meramente tecniche. Per fare dell'Unione Europea un laboratorio di "democrazia post-nazionale", piuttosto che un esempio di post-democrazia su larga scala, il problema del potere e delle relative politiche va affrontato al tempo stesso e parte populi. Procedendo in questa direzione, la prima parte del volume («Carta dei diritti» e Costituzione in Europa) intreccia sistematicamente l'attribuzione e la divisione dei poteri con la questione dei diritti e della cittadinanza, cui la partecipazione all'Unione dovrebbe garantire l'accesso. Le posizioni di Weiler e Habermas segnano i poli tra cui oscilla il dibattito.

Per lo studioso statunitense, una costituzione europea c'è già e qualsiasi tentativo di approfondire l'integrazione in chiave federale (leggi: statale) produrrebbe un accentramento di potere controproducente. Gli ordinamenti interni e quello comunitario hanno saputo sviluppare, a suo avviso, una "tolleranza costituzionale" (p. 31) che va apprezzata e garantita, specie in assenza di un vero popolo costituente europeo: con buona pace di chi considera l'auto-nomia l'elemento irrinunciabile d'ogni potere legittimo, l'Europa dei popoli dovrebbe accettare come un lieto mistero l'obbedienza dei cittadini a delle leggi che essi non si sono dati da sé. Per Habermas, invece, l'Europa dei cittadini ha urgente bisogno di una nuova costituzione per rifondare il proprio modus vivendi, messo in crisi dalla "globalizzazione neo-liberista" e dall'incrinarsi del consenso interoccidentale sull'uso legittimo della forza. Per conservare "le condizioni materiali di vita, le opportunità culturali e di tempo libero (...) che sole conferiscono all'autonomia privata il suo valore d'uso, rendendo possibile la partecipazione democratica" (p. 95) le forme di coordinamento negativo proprie del mercato non bastano più: occorrono politiche di coordinamento positivo (in materia di lavoro, welfare, governo della moneta, etc.), a loro volta bisognose di maggiore legittimità democratica. In quest'ottica lo sviluppo di una "sfera pubblica europea" e di una cultura politica comune fondata sull'accesso ai diritti, costituiscono altrettante sfide cui l'Europa dovrà rispondere per rinnovare la sua proposta di civiltà a fronte di un capitalismo globale, destabilizzante e inegualitario.

Sia Morelli che Dellavalle, per ragioni analoghe a quelle di Habermas, sostengono l'opzione euro-federalista e si impegnano a delinearne gli elementi politico-istituzionali di base. Tra questi spiccano, per la loro assenza dal testo definitivo del trattato, l'attribuzione al Parlamento europeo di pieni poteri (iniziativa e co-decisione legislativa in tutte le materie, controllo e voto di fiducia sulla Commissione), l'adozione generalizzata di maggioranze qualificate al Consiglio dei ministri, l'ampliamento del bilancio comunitario con possibilità per l'Unione di levare proprie imposte.

Più scettico a riguardo Grimm che, pur non essendo contrario per principio all'idea di una costituzione (federale) né ad un catalogo scritto di diritti, registra l'assenza di condizioni essenziali alla riuscita di un simile progetto: innanzitutto la formazione di un "popolo europeo", ossia di una sfera pubblica di interessi socialmente organizzati, senza la quale la costituzionalizzazione dell'Unione rischia di aggravare il "deficit democratico" invece di alleviarlo.

Pernice e Mayer, infine, sostengono che in Europa una "costituzione senza stato" sia l'unica auspicabile e possibile. Applicando i modelli del multi-level constitutionalism, gli autori propongono di trattare l'insieme delle fonti europee di rilevanza costituzionale (trattati, normativa e giurisprudenza comunitaria, costituzioni nazionali, accordi europei in materia di diritti) come parte di un'unica "costituzione integrata", gravitante intorno ad una cittadinanza europea attiva e ad una sussidiarietà rettamente intesa.

La seconda parte del volume (I contenuti della «Carta dei diritti») sviluppa più diffusamente la questione di cosa sia, o dovrebbe essere, un sistema europeo dei diritti fondamentali. L'originale articolazione della Carta di Nizza intorno a sei materie chiave (dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia) offre l'occasione per un confronto con la più tradizionale partizione in diritti civili, politici, sociali conomicidaavesei valori o principi chiave (dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia e culturali: il bilancio complessivo ne risente, nella misura in cui le carenze (redazionali, contenutistiche o giurisdizionali) del documento sembrano in quest'ottica prevalere sulle sue innovazioni. Tra i cosiddetti diritti civili, uno statuto ambiguo viene ad esempio attribuito alla proprietà, limitabile solo dall'esterno tramite esproprio debitamente rifondato e non anche dall'interno, tramite un riferimento ad una sua "funzione sociale" (cfr. Comba). I diritti politici sono formalmente riconosciuti, ma fin quando il loro esercizio non sarà possibile anche fuori delle urne (tramite reti associative, partiti europei, etc.) e il Parlamento non avrà piena potestà legislativa, la cittadinanza che ne deriva non potrà dirsi effettiva (cfr. Grosso). I diritti sociali guadagnano con la Carta il rispetto da parte dell'Unione, ma in assenza di misure pro-attive al momento non previste la loro giustiziabilità resta precaria, così come il loro carattere fondamentale è soggetto a riserva, se la Corte di giustizia continuerà a considerarli come eccezioni alle libertà di mercato (cfr. De Schutter). I diritti culturali, infine, sono riconosciuti mantenendo in genere un buon equilibrio tra istanze di libertà e di eguaglianza, tutele individuali e collettive, interessi nazionali ed europei: il principio di non-discriminazione, pur non impegnando gli stati ad interventi attivi di tutela o ad una revisione dei modelli di vita sottesi al loro sistema giuridico, sembra scongiurare usi (auto)segregazionisti delle differenze culturali (cfr. Luther).

La terza parte (La garanzia dei diritti: la «Carta europea» e le tradizioni costituzionali nazionali) completa l'analisi materiale della cittadinanza europea, confrontando la garanzia dei diritti offerta dalla giurisdizione comunitaria con le analoghe disposizioni nazionali: su questo terreno "l'euroscetticismo del diritto costituzionale" raggiunge forse il suo picco più alto. Per l'eccesso di lavoro cui la Corte di Giustizia è già confrontata, la Carta dei diritti rischia infatti di essere utilizzata solo contro gli stati e non, come sarebbe necessario, contro l'Unione stessa (cfr. Favoreu). Questa possibilità preoccupa perché, a livello europeo, molti diritti sono meno garantiti che dalle costituzioni nazionali. Inoltre, la Corte di Giustizia finisce per assumere in materia il ruolo di corte costituzionale (suprema) senza possederne per intero i caratteri, né formali né sostanziali: da un lato, infatti, i suoi membri sono di nomina governativa, dall'altro il testo della Carta offre solo garanzie minime e affida il bilanciamento dei diritti al legislatore molto più che al giudice (cf. De Siervo). Gli effetti di questa situazione possono, per altro, avere portata extra-giuridica: in una società plurale come la nostra, integrata essenzialmente dal rispetto per il diritto e dall'esercizio dei diritti, un sistema giurisdizionale in qualche modo claudicante, come quello pan-europeo, sembra venir meno alla sua stessa funzione sociale (von Bogdandy).

A fronte di questo scenario, difficile ma anche denso di opportunità, Zagrebelsky suggerisce nell'Introduzione una lettura forte del processo costituente. Sullo sfondo della guerra all'Iraq e delle divisioni mostrate in materia dall'Europa, i molteplici deficit dell'integrazione convergono ai suoi occhi in uno solo: l'assenza, dopo il fatidico 1989, di una risposta alla "questione dell'identità europea" a fronte della "potenza politica, economica e culturale americana" (p. V). L'Europa può anche darsi una Costituzione senza stato, nel senso moderno del termine: ma senza una chiara immagine di sé, in cui riconoscersi e farsi riconoscere dal resto del mondo, questo progetto è destinato a restare politicamente vuoto.

Se è vero, inoltre, che l'Unione europea ha partecipato e partecipa attivamente al modello economico-sociale dominante (con le sue politiche della concorrenza, i suoi vincoli alla spesa pubblica nazionale, le sue priorità in materia di stabilità dei prezzi), cosa vuol dire esattamente auspicare il suo ruolo mondiale, o il suo contributo ad un "migliore governo della globalizzazione"? Nonostante gli auspici di Habermas e di molti altri autori - è opinione di chi scrive - l'Europa potrebbe salvare il proprio modus vivendi dal modello liberista solo a condizione di imprimere una torsione radicale ai propri orientamenti economico-sociali. Il che significa affiancare al nodo delle tutele giurisdizionali e della soggettività politica, di cui il volume rende ampio conto, il problema del costo dei diritti ossia del modello di sviluppo in grado di garantirli e finanziarli.

Federico Oliveri