2005

F. de Vitoria, De iure belli (1539), traduzione, introduzione e note di Carlo Galli, con testo latino a fronte, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. LX-112, ISBN 88-420-7500-0

Nel 1539 Francisco de Vitoria tenne di fronte al corpo docente dell'Università di Salamanca le due più note delle sue relectiones. La prima, De Indis, è stata recentemente pubblicata da Ada Lamacchia (Levante Editore, Bari 1996). In essa Vitoria discute della legittimità della conquista spagnola dell'America. Egli afferma con estrema chiarezza che prima dell'arrivo degli Spagnoli gli Indios erano legittimi domini delle loro terre, confutando le tesi contrarie ispirate, fra l'altro, alla teoria aristotelica della schiavitù naturale e prosegue contestando quelli che considera i 'titoli illegittimi' della conquista: in particolare l'Imperatore non è sovrano del mondo, l'autorità spirituale del Papa non si estende ai non credenti e non lo rende un sovrano temporale. Il diritto alla scoperta - che costituirà forse il principale argomento nel dibattito successivo - è destituito di ogni fondamento. Ma, attraverso un'operazione di grandissimo rilievo teorico che opera un radicale cambiamento di punto di vista, Vitoria afferma che esistono una serie di diritti validi "ex iure gentium, quod vel est ius naturale vel derivatur ex iure naturali": lo ius peregrinandi et degendi, lo ius commercii, lo ius communicationis, il diritto a diventare cittadini, il diritto a predicare ed annunciare il Vangelo. Se questi diritti vengono negati, possono venire difesi con la guerra; e se non sono disponibili altri mezzi, è legittima l'occupazione delle città, la deposizione dei sovrani, la riduzione in cattività delle popolazioni. È dunque legittima la guerra di conquista delle Indie, ed è giusta la guerra per difendere i diritti degli Indios stessi qualora il loro governanti siano tiranni o - come è il caso dei sacrifici umani e dell'antropofagia - vigano leggi disumane. In questo caso non conta la volontà delle vittime: "in questo non son padroni di se medesimi e dei loro diritti"; "nessuno può dare a un altro il diritto di ucciderlo, né quello di divorarlo o di immolarlo in sacrificio" (DI, p. 111).

Sulle radicali novità e sulla profonda ambivalenza delDe Indis in relazione al dibattito sulla conquista e all'evoluzione della teoria dei diritti naturali si è sviluppato, anche in anni recenti, un dibattito articolato, da Tvezan Todorov a Luigi Ferrajoli. L'argomentazione della relectio si fonda sul nesso fra universalizzazione dei diritti e teoria della guerra giusta. E Vitoria, "per dare maggiore completezza alla precedente dissertazione" (p. 3) entra con una seconda relectio, sempre del 1539,nel merito del diritto di guerra. L'edizione laterziana completa per il lettore italiano il percorso dell'argomentazione di Vitoria. E lo fa nel modo migliore: il testo a fronte è quello dell'edizione Pereňa 1967-1981, corretto sulla base della Horst del 1997. La traduzione è dello stesso curatore, uno dei più autorevoli filosofi politici italiani, che premette un importante e chiaro saggio introduttivo. Non ultimo, l'edizione accurata di un classico della seconda scolastica è subito proposta in veste economica, scommettendo evidentemente sull'estrema attualità del pensiero di Vitoria, sul fatto che, come scrive Galli, Vitoria "parla anche a noi, il che lo rende un classico" (p. LVI).

Il testo del De iure belli è articolato in quattro quaestiones. La prima affronta il classico tema della liceità omnino della guerra per i Cristiani. La risposta è scontata. Le prescrizioni di Matteo 5,39; 26,52 e di Romani 12,19 sono derubricate ad esortazioni ("omnia haec sunt in consilio, non autem in praecepto", p. 6). L'opinione di padri e dottori, la consuetudine della Chiesa, l'autorità del Digesto ("vim vi repellere licet", I,1,3), il diritto di natura, gli "esempi di uomini santi e buoni", dai Maccabei a Costantino, a Teodosio, concordano sulla liceità del ricorso alla forza. Nella seconda quaestio il problema è di chi abbia l'autorità di condurre la guerra. Qui Vitoria afferma che anche un privato può muovere una guerra difensiva, in difesa della propria persona e dei propri beni. Questa sorta di equiparazione fra aggressione bellica e violenza privata, fra guerra difensiva e legittima difesa individuale percorre il testo e rappresenta un limite significativo nell'argomentazione di Vitoria. Certo è che egli precisa che la legittima difesa vale in continenti, in presenza di un pericolo in atto, senza offrire molti argomenti per la legittimazione dei pre-emptive strikes. D'altra parte, principi e repubbliche, oltre al potere di difendersi, hanno quello di vendicare sé stessi ed i propri cittadini. E "possono farsi guerra tra loro, senza attendere l'autorizzazione dell'imperatore": l'aristotelica res publica sibi sufficiens assume in Vitoria molti dei tratti dello Stato sovrano.

La terza quaestio entra nel merito della ratio et causa belli. "La differenza di religione" - come già nella De Indis - "non è causa di guerra giusta". E non lo sono l'amplificatio imperii - che prefigurerebbe, si noti, una giusta causa per entrambi i contendenti - né la gloria del principe. L'unica causa di guerra giusta per Vitoria è la risposta ad un'offesa di grave entità. Si apre qui l'argomentazione relativa all'ultima quaestio, la più ampia, articolata in due parti: "Che cosa sia lecito in una guerra giusta, e in quale misura". Vitoria affronta il terreno dello ius in bello, senza peraltro abbandonare del tutto quello dello ius ad bellum.

La valutazione del quid et quantum liceat in bello iusto si muove entro alcune coordinate: la finalità del "pubblico bene e della sua difesa", l'obiettivo del consolidare la pace e la sicurezza, un principio di giustizia restituiva che trapassa in una adrian mutu scandal photos visione della guerra come pena retributiva. Pertanto, l'attore della guerra giusta non solo potrà recuperare i beni sottratti e rivalersi delle spese di guerra, così come avviene per un privato, ma anche "punire il torto ricevuto dai nemici" (p. 39). Per diritto naturale, infatti, "i nemici si trovano assoggettati al principe giusto come al proprio giudice" ed egli ha su di loro il potere di sottoporli a "punizioni dure e dolorose", in modo da essere "distolti dal commettere nuovamente tali delitti" (p. 41). Accanto a questa criminalizzazione del nemico ingiusto si trova l'attenzione ad una serie di questioni che esprimono evidentemente la percezione di un quadro geo-giuridico in evoluzione: la teoria della guerra giusta di Vitoria è costretta a fare i conti con la mancanza di un'autorità politica superiore e con l'affievolimento della competenza dell'autorità spirituale in tema di ius gentium. Di qui l'interrogativo "se a rendere giusta la causa sia sufficiente che il principe creda" che sia tale (p. 43). Di nuovo, la risposta non può essere assolutamente positiva, altrimenti "ci sarebbero guerre giuste da entrambe le parti" e "anche le guerre dei Turchi e dei Saraceni contro i Cristiani sarebbero giuste" (p. 43). Occorre dunque magna diligentia nell'esaminare le cause della guerra. Da questo punto di vista Vitoria differenzia la posizione delle varie componenti della civitas: i semplici sudditi, che non possono influenzare le decisioni del principe, non sono tenuti ad un esame approfondito, e dunque sono giustificati anche se prendono parte ad una guerra ingiusta, a meno che gli indizi non siano evidenti. Ben differente è la responsabilità di senatores et duces, di fatto corresponsabili con il principe. Nei casi dubbi prevale l'istanza della pace, e d'altra parte "le guerre devono essere fatte per il bene comune, se per riprendere una città la comunità politica va necessariamente incontro a mali più grandi - devastazione di molte città, provocazione dei principi, occasione di nuove guerre -, non c'è dubbio che quel principe è tenuto a rinunciare al proprio diritto, e astenersi dalla guerra". Quando "dalla guerra derivino ad entrambi grandi mali, la guerra non può essere giusta" (p. 63). Se il bellum iustum ex utraque parte ridurrebbe all'assurdo questa impostazione, Vitoria arriva ad ammetterne la possibilità nel caso di una "ammissibile ignoranza dei fatti o del diritto" (p. 59). Come si vede sopravvive qui un elemento della intentio recta tomistica. La guerra può essere giusta da entrambe le parti non per un reciproco riconoscimento della condizione di iusti hostes, come avverrà nel sistema vestfaliano degli Stati sovrani, ma al contrario a partire da un insopprimibile difetto di conoscenza.

Entro le coordinate della legittimità sta anche l'uccisione degli innocenti: legittima per Vitoria non per se et ex intentione, ma per accidens, quando "in caso contrario non si potrebbe fare guerra contro gli stessi colpevoli, e sarebbe frustrata la giusta causa di chi fa la guerra" (p. 69). È peraltro illecito uccidere innocenti (ad esempio i figli dei saraceni) "per un peccato futuro" (p. 71), mentre al fine di garantire la pace e la sicurezza future è lecito espropriarli, distruggere raccolti e bestiame, prenderli in prigionia. Ciò vale in particolare nel caso di 'guerra perpetua', come quella contro i pagani: "è quindi fuor di dubbio che sia lecito trarre in prigionia anche i fanciulli e le donne dei Saraceni" (p. 77), e ridurli in servitù. La domestic analogy rende lecita anche l'uccisione di colpevoli per punire l'offesa passata, mentre la finalità della pace futura rende a volte illecito ucciderli tutti. Anche questa limitazione cade nel caso dei perpetui hostes infedeli, "dai quali non ci si può mai aspettare una pace, a nessuna condizione" (p. 83). Il principe giusto vincitore, comunque, deve "approfittare della vittoria con moderazione e con cristiana modestia" e deve concepire "se stesso come un giudice che siede fra le due comunità politiche - l'una, che subì l'offesa e l'altra, che la fece -, non perché giunga ad emanare una sentenza come accusatore sì perché come giudice dia, certo, soddisfazione alla parte lesa ma, per quanto sarà possibile, col minimo di danno della comunità politica colpevole, soprattutto dato che nella maggior parte dei casi fra i Cristiani tutta la responsabilità è dei principi. Infatti i sudditi combattono in buonafede per i principi" (p. 101).

L'introduzione di Carlo Galli inserisce con cura la relectio all'interno dell'itinerario intellettuale di Vitoria, sullo sfondo della teoria agostiniano-scolastica della guerra giusta e nel contesto del dibattito teorico intorno alla conquista, da Palacios Rubios a Sepúlveda, a Las Casas. Galli nota, fra l'altro, la relativa autonomia di Vitoria rispetto alle posizioni ortodossamente filoimperiali e filopapali, e colloca la sua opera in un tertium genus fra l'universalismo medievale e il modello statalistico moderno. In particolare, se nega al papa la qualifica di dominus orbis, in Vitoria non c'è "individualismo politico egualitario", e "L'uguale dignità dell'uomo, certo presente, non è declinata nei termini di uguali diritti civili e politici dell'uomo, né in un'autentica prospettiva cosmopolitica" (p. XIX). Galli discute il contributo di Vitoria alla fondazione del diritto internazionale, ma soprattutto si impegna nel confronto con le tesi espresse da Carl Schmitt nel Nomos della terra. In esse Vitoria è ricondotto all'orbita premoderna, in quanto rimane "ancora legato alla spazialità politica concreta della respublica christiana" e all'universalismo cattolico (p. XXXIII), ma si sostiene anche che egli elabora "una teoria non discriminatoria dello iustus hostis" (p. XXXIV). Galli rileva che quella di Vitoria rimane una 'teologia morale-giuridica'. Sono i teologi che definiscono "i principi morali su cui il diritto internazionale deve basarsi" (p. XXXVIII) e ricostruiscono i tratti di quell'ordine di giustizia - creato da Dio ma conosciuto attraverso la ragione e sviluppato dagli uomini nella storia come diritto delle genti - che rimane parte integrante della visione di Vitoria. Il sistematico ricorso alla domestic analogy si spiega proprio in quanto le vicende individuali e i rapporti fra gli Stati si inseriscono nel medesimo ordine di giustizia. Ma questo significa, rileva Galli, "che Vitoria sia estraneo tanto alla distinzione moderna fra nemico e criminale quanto anche alla discriminazione tardo-moderna del nemico/colpevole come criminale collocato fuori dell'umanità" (p. XL). La teoria di Vitoria si muove insomma per Galli nello spazio di "una sorta di respublica christiana liberata da molte angustie e da molti dogmatismi (soprattutto, non ierocratica), e dilatata a inglobare anche le gentes non cristiane, a cui egli estende la nozione di iustitia e di bonum commune" (p. XLII). Se gli islamici sono perpetui hostes, non vi è ancora quella "estraneità radicale fra popoli europei ed extraeuropei che è propria dello ius publicum europaeum" (p. XLV). E se il tradizionale paradigma della giustizia è trasformato in "un modello di regolazione delle relazioni internazionali suscettibile di importanti sviluppi futuri" (p. XLV), proprio nella sua sussistenza si misura la distanza di Vitoria dalla modernità: "il domenicano non può far discendere dal cumulo di errori soggettivi dei principi l'assunto, su cui si fonda la politica moderna, che la giustizia naturale è assente - o poco o per nulla rilevante - dall'orizzonte delle relazioni interstatali, e che va sostituita dal combinarsi storico e artificiale di ragione e potenza, dallo ius publicum europaeeum" (pp. XLVI-XLVII).

La valutazione di Galli del contributo di Vitoria allo ius belli si allontana, almeno in parte, dall'alternativa moderno/premoderno. Il suo pensiero è "un esempio di modernizzazione del pensiero cattolico" (p. L) e disegna un percorso della modernità alternativo rispetto al mainstream che si esprimerà nel giusnaturalismo contrattualistico-individualistico e nelle teorie della sovranità. Galli ne vede la continuazione in un filone del pensiero cattolico che - da Rosmini e Maritain - arriverà ad integrare una teoria dei diritti umani, e d'altra parte nelle contemporanee riproposizioni della teoria della guerra giusta. Ci si potrebbe chiedere se la via alla modernità indicata da Vitoria non si connoti solo per lo 'scarso tasso di secolarizzazione', e se in particolare l'universalismo dei diritti delineato nel De Indis non giochi un ruolo più importante di quanto appaia. Galli insiste sul fatto che gli iura di Vitoria non rimandano ad una visione individualistica. Ma è stato mostrato in modo convincente, ad esempio da Brian Tierney, che l'individualismo e l'atomismo storicamente non hanno rappresentato una condizione necessaria per l'elaborazione di una teoria dei diritti naturali compiutamente soggettivistica. Rimangono comunque i rischi, segnalati da Galli, che accomunano Vitoria con le altre teorie della guerra giusta: che l'approccio morale finisca per inibire una comprensione efficace della guerra, e introduca elementi di instabilità nelle relazioni internazionali; e che questo trasformi un discorso critico sulla guerra in una sua autolegittimazione in termini di 'guerra umanitaria'. D'altronde, l'affermazione per la quale "non esiste più un dominus orbis" si ripropone come un monito per chi oggi si autoattribuisce lo ius ad bellum e il ruolo di vincitore/giudice.

Luca Baccelli