2009

U. Vincenti, Diritto senza identità. La crisi delle categorie giuridiche tradizionali, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 174, ISBN 978-88-420-8494-5

Fine del confine? Questa la domanda, invero alquanto retorica, da cui prende spunto e intorno a cui ruota il saggio di un romanista, Umberto Vincenti, che si inserisce a pieno titolo all'interno dell'attuale dibattito sulla globalizzazione. L'autore, in altri termini, si chiede se la globalizzazione giuridica spezzi irrimediabilmente il nesso tra norma e territorio, decretando così il tramonto dello schmittiano nomos della terra, e se dunque il diritto sia oramai giunto a conoscere (e a far propria) la dimensione della s-confinatezza. Convinto e pronto a dimostrare che le cose non stiano proprio in questo modo, Vincenti prende le mosse da alcuni studiosi italiani che hanno contribuito ad avviare in maniera decisa un dibattito sulla globalizzazione giuridica, ovvero Natalino Irti e Maria Rosaria Ferrarese.

Se Irti, a partire da Norma e luoghi (Laterza, Roma-Bari 2001), è arrivato a sostenere che gli ordini giuridici si sono oramai sciolti dai vincoli terrestri, venendosi a risolvere, in definitiva, nella pura "artificialità del tecnicismo", Vincenti, di contro, sostiene come proprio questa artificialità giuridica di matrice kelseniana appaia oggi (come ieri) più che mai inidonea a rendere il diritto s-radicato: non solo "l'antico diritto civile", ma anche quello "di nuova produzione [...] resta quel che è, lo ius proprium civitatis, il diritto proprio di ciascuna città, di ciascun popolo, di ciascuno Stato" (p. 20), e il diritto dimostra così, "in questo tenace attaccamento al territorio, la sua intrinseca inattitudine ad esser ridotto a pura forma concettuale e la sua intima dipendenza, quasi identificazione, dal carattere di ciascun rapporto umano postulante disciplina" (p. 21). Dal canto suo, Ferrarese - che del diritto "globale" sottolinea la perdita della dimensione spaziale (diritto "sconfinato") e temporale (diritto "al presente") - ha posto in luce una vera e propria crisi della 'cultura del confine', ovvero di quel mondo giuridico e istituzionale che "rispecchiava una sicura geometria di forme, distinzioni e confini" (M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 16). Vincenti intende smentire anche questo punto: è ancora la regula l'anima del diritto, ossia ciò che separa, distingue, divide proprio attraverso la demarcazione di un confine; dall'antica occupazione di terra al dominio virtuale dello spazio web su Internet, il fondamento della confinazione non sarebbe mai venuto meno e il diritto non avrebbe mai perso la sua vocazione ex-clusiva.

Se questo è vero, allora la crisi delle categorie giuridiche tradizionali sarebbe molto più apparente che reale: quelle categorie hanno ancora qualcosa da dire e da dare, e di certo il giurista del nostro tempo, intento a ritrovare il bandolo della matassa (o alle prese con facili tentazioni nichiliste), dovrà confrontarsi con esse, nel tentativo sì di aggiornarle ma non di stravolgerne il senso, senza potere, in ogni caso, da queste prescindere e fare come se non vi fossero. Perché nelle categorie giuridiche della tradizione, che risalgono al diritto romano, si trova tutto espresso il senso di quel fondamento primigenio del diritto che è il confine, e solo ri-pensando (a) quelle categorie si potrà (re)di-rigere (nel senso del di-rectum, ovvero del 'diritto') la realtà sociale e dare ordine ai rapporti umani. Sta tutta qui la linearità del diritto e la rettitudine della giustizia, che tanto sembrano all'autore mancare nel contesto dell'esperienza giuridica attuale, dove regnano sovrane, insieme, omologazione e dispersione, confusione e uniformizzazione.

Ecco allora che Vincenti ripercorre il campo di questa esperienza proprio attraverso le tradizionali categorie giuridiche della "persona", della "famiglia", della "cosa" e della "giustizia", mostrando in ciascuno di questi ambiti quali siano i punti controversi e le linee di sviluppo possibili che la scienza giuridica deve percorrere con il suo bagaglio di saperi tradizionali e di nuova sensibilità acquisita. Così, riguardo alla "persona", viene criticata la sua disarticolazione in una miriade di status protettivi diversi e viene, invece, sottolineata e rimarcata - da parte dell'autore - la divisione netta che deve separare la "persona" dalla "cosa", affinché la prima non venga pensata nei termini della seconda (come avviene, secondo l'autore, in tutte le questioni relative alla 'proprietà' del corpo o di parti di esso). Allo stesso modo, Vincenti invita a non stravolgere il senso della categoria giuridica della "famiglia", che riposa ancora intatto sulla diade domus-dominium e sulla istituzione del matrimonium, elemento "connotato ancora oggi da una tale carica simbolica e da una tale titolazione istituzionale" (p. 76) che la sua mancanza impedirebbe di qualificare come "famiglia" qualsiasi unione di fatto. Da ultimo, in tema di "giustizia" l'autore mette in guardia dal modello 'etico-retorico' (p. 142) di orientamento dell'azione politica e della ricerca di nuovi valori (e diritti), che finisce con l'affidare a pochi sapienti persuasori la fondazione dell'etica contemporanea da cui il diritto dovrebbe poi scaturire, per quanto ci si sforzi - il riferimento è a John Rawls - di presentare tale modello come basato sulla 'disputabilità paritaria' e sull'uguaglianza e imparzialità delle 'persone ragionevoli', e dunque come tendenzialmente universalizzabile. Valga l'esempio in tema di diritti umani: "Nessun confine, e nessuna regula esclusiva: l'esito dovrebbe essere rappresentato dall'affermarsi di una morale giuridica planetaria, come segnalerebbe la pretesa universalità (della retorica) dei diritti umani" (p. 14).

Un compito arduo, dunque, quello che vede il giurista del presente intento a rielaborare le categorie giuridiche, ma resosi necessario e inevitabile di fronte allo stato di totale incertezza e disorientamento che caratterizza la società contemporanea e le sue istituzioni. Forte di questa convinzione e della centralità (savigniana sì, ma certamente da ritrovare) del giurista nella società, l'autore ha indubbiamente il merito di essersi fatto promotore, con questo volume, della chiamata a raccolta di un ceto, quello dei giuristi, sempre più scomposto e deresponsabilizzato. Con una proposta teorica forte, quale è quella della rinnovata e ritrovata rectitudo del diritto, che lascia tuttavia impregiudicata - quando non addirittura celata - la questione del rapporto problematico tra la dimensione giuridica della esclusività, così tipica di una 'cultura del confine', e quella della esclusione sociale.

Ilario Belloni