2010

F. Jullien, De l'universel de l'uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, Fayard, Paris 2008, trad. it. L'universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. XI+190, ISBN 978-88-420-8775-5

Per molti la Cina rappresenta l'esempio più eclatante di una cultura e di un modello di pensiero totalmente "altri", così lontani da sfidare le nostre capacità di comprensione e di riconduzione all'orizzonte familiare delle nostre pratiche, e al tempo stesso drammaticamente vicini nelle esigenze di confronto che pone il mondo globalizzato. Niente di meglio di un sinologo, allora, per investigare le problematiche del confronto tra culture. François Jullien, filosofo e sinologo di fama internazionale, autore di numerosi volumi dedicati alla comparazione della cultura cinese con quella occidentale (fra gli altri: Parlare senza parole. Logos e Tao, Roma-Bari, Laterza, 2008; Pensare l'efficacia in Cina e in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 2008) affronta in questo testo proprio il tema della possibilità di un dialogo fra culture diverse e dello statuto dei concetti universali.

La prima cosa che colpisce nel leggere il libro di Jullien è che l'autore tende ad alimentare il mito dell'incomunicabilità tra pensiero occidentale e pensiero cinese piuttosto che a dissiparlo. Ciò è tanto più sorprendente in quanto Jullien ha consacrato la propria ricerca proprio al tentativo di restituire nei vincoli concettuali occidentali gli elementi cardine del pensiero confuciano. In effetti, questo punto è abbastanza chiaro nel discorso di Jullien. Non solo concetti come "verità", "tempo", "cosa", "paesaggio" non trovano precisi equivalenti nella lingua cinese (pp. 87-8, pp. 161-2). Anche il verbo "essere" non possiede una corrispondenza diretta con alcuna voce cinese, da cui le difficoltà di traduzione del lessico filosofico occidentale (pp. 86-7). Queste asimmetrie tra la lingua cinese e le lingue del ceppo indo-europeo sono alla base del senso di estraneità e di disagio che si prova nel confrontarsi con le culture dell'estremo Oriente: Jullien sottolinea che coloro che hanno appreso la lingua cinese provano una sorta di insoddisfazione nel considerare le traduzioni da quell'idioma alle lingue occidentali, anche quando queste traduzioni sono corrette. Perché nella loro lingua originale esse veicolano un messaggio più ricco e articolato che non può essere restituito in altre lingue, se non al prezzo di introdurre un numero elevatissimo di precisazioni e avvertimenti.

Date queste premesse, è abbastanza naturale che Jullien si mostri piuttosto scettico riguardo all'esistenza di universali culturali o di invarianti fra culture. In questa direzione, le considerazioni relative alla specificità del pensiero cinese si sommano alla decostruzione del concetto di "universale" che Jullien sviluppa nella prima parte del libro. Dopo aver messo a confronto la nozione di universale con quelle di "uniforme" e di "comune" (capp. 1-3), Jullien sviluppa un percorso storico che riconduce l'ossessione europea per l'universale a tre radici distinte: la nascita greca della speculazione filosofica (cap. 5), l'esperienza romana dell' "universalità" del diritto, che unifica in una sola cittadinanza tutti i sudditi dell'impero (cap. 6) e il messaggio paolino, che estende a tutti i gentili la novella evangelica e la condivisione del rapporto diretto con Dio (cap. 7). La conclusione è che l'insistenza del pensiero occidentale per gli universali non è affatto inevitabile e non corrisponde a ipotetiche leggi del pensiero inscritte nella natura umana ma costituisce il frutto di una congiuntura storica e politica particolare, che ha condotto al privilegiamento di una modalità specifica di rappresentazione del mondo rispetto ad altre, ugualmente plausibili ed efficaci. Ne è prova il fatto che molte altre culture, come l'Islam, l'India e la Cina, non sono ugualmente interessate alla costruzione di concetti universali ma tendono a privilegiare il momento della concretezza (cap. 8).

Ma allora qual è la soluzione positiva data da Jullien al problema del dialogo interculturale? La risposta si comincia a intravedere nel nono capitolo e viene precisata e articolata nei restanti capitoli del libro. Jullien sostiene che la nozione europea di universale può rivestire ancora un compito importante che è quello di configurare un'istanza di superamento dei limiti e delle convenzioni in cui ristagnano le concezioni occidentali e non occidentali. In questo modo, la nozione di universale funziona kantianamente come idea regolativa, imponendo l'oltrepassamento delle visioni particolari in direzione di formulazioni e di principi più generali. Questo punto di vista diventa più comprensibile quando, nel successivo capitolo sui diritti umani, Jullien, dopo aver criticato le teorie di autori come Panikkar, che ritengono che l'universalizzazione dei diritti debba procedere dall'individuazione di adeguati equivalenti presso le altre culture, sostiene che la portata universalizzante dei diritti risiede nel loro valore esemplare, nel rappresentare uno strumento di difesa della nuda vita contro le insidie del male.

Gli ultimi tre capitoli del volume aggiungono ulteriori tasselli all'immagine costruita da Jullien. In particolare, l'autore si sofferma criticare articolatamente i presupposti dell'etica del discorso di Apel e Habermas, sostenendo che il pensiero cinese classico elude i requisiti pragmatici su cui fa leva la proposta teorica dei filosofi tedeschi, contrapponendo a tutte le concezioni fondazionali la propria tesi secondo la quale la comune natura umana non va concepita come fondamento ma come fondo cui attingere continuamente (cap. 11); propone di rimpiazzare il concetto di differenza culturale con la metafora dello "scarto", come distanza tra le aspettative implicite nei nostri codici comunicativi e le manifestazioni delle culture altre, coniugando tuttavia questa nozione con il principio dell'illimitata comprensibilità delle culture (cap. 12); suggerisce infine di alimentare la comunicazione tra culture intensificando il confronto e la traduzione, in risposta alle ricorrenti spinte in direzione dell'omologazione e del compromesso (cap. 13).

Il contributo dato da Jullien alla discussione (occidentale) del tema del dialogo tra culture è, nel suo complesso, sicuramente apprezzabile e sono molti gli spunti di riflessione che si possono cogliere nel testo del filosofo francese. Ciò premesso, qui di seguito mi limiterò a sollevare alcuni dubbi e perplessità. In primo luogo, per quanto riguarda il tema dell'"intrascendibilità delle appartenenze culturali". In alcune pagine Jullien sembra sposare una versione dell'ipotesi di relatività linguistica (c.d. ipotesi di Sapir-Whorf): come ho già accennato, infatti, secondo Jullien le lingue indoeuropee e la lingua cinese sono così distanti da presentare un bagaglio concettuale completamente diverso, tale da precludere la possibilità di una reale condivisione di contenuti concettuali. Questo assunto, tuttavia, si scontra non solo con il principio dell'illimitata comprensibilità delle culture che Jullien fa valere nei capitoli finali del libro ma anche con il fatto che l'autore stesso, in questo volume, come in molte altre opere, si impegni in un'operazione (quanto mai affascinante) di interpretazione e traduzione del pensiero cinese nelle strutture dello "schema concettuale occidentale". Inoltre, come è noto, l'ipotesi di relatività linguistica si espone alle critiche filosofiche che, almeno dalla metà degli anni settanta, sono state fatte valere contro l'idea dell'esistenza di schemi concettuali mutuamente intraducibili (vedi, per esempio il famosissimo saggio di Donald Davidson, Sull'idea stessa di schema concettuale, in Verità e interpretazione, Bologna, il Mulino, 1994). Forse però c'è un modo di rendere ragione delle affermazioni di Jullien senza postulare l'esistenza di enti dubbi come gli schemi concettuali: il punto è che il genere di complicazioni cui fa riferimento Jullien non rendono impossibile la traduzione, la rendono soltanto molto difficile. Quando Jullien scrive che la lingua cinese non contiene un termine che traduca il concetto occidentale di tempo non intende dire che il concetto di tempo occidentale è incomprensibile per i cinesi o che il concetto cinese di tempo è impenetrabile per i non cinesi. Intende soltanto dire che una comprensione appropriata da parte di un soggetto che non padroneggi la lingua cinese (rispettivamente: di un soggetto cinese che non padroneggi una lingua europea) richiede una serie, generalmente molto lunga, di avvertimenti collaterali che collochino i termini da tradurre in un sistema concettuale articolato. Non si tratta quindi di oltrepassare invisibili barriere di incomunicabilità quanto di impegnarsi nella costruzione di un'interpretazione, il più possibile accurata, di un frammento dell'altra cultura che sia autonomamente intelligibile. Probabilmente questa impresa non può essere esaurita in un tempo ragionevolmente breve (e infatti Jullien asserisce che, anche di fronte a traduzioni del tutto corrette, avverte sempre un quid mancante). Forse, se aderiamo a una forma estrema di olismo semantico, del genere di quello propugnato da Davidson, l'unico metodo per afferrare il contenuto di un enunciato cinese è imparare il cinese (e infatti Jullien contrasta i tentativi di traduzione con l'apprendimento della lingua). In ogni caso, il punto rilevante per la nostra discussione è che le difficoltà di traduzione cui Jullien fa riferimento non danno luogo a un caso di incomunicabilità fra culture, ma costituiscono soltanto un esempio particolarmente eloquente delle difficoltà che si possono incontrare nella traduzione da una lingua all'altra.

Il secondo punto che volevo evidenziare concerne invece una certa mancanza di rigore filosofico che si può ravvisare nel testo di Jullien. A tratti, si ha l'impressione che Jullien, nel suo tentativo di delucidare il ruolo positivo che la nozione occidentale di universale può ancora giocare in rapporto al dialogo interculturale segua troppe piste contemporaneamente. Così, nel nono capitolo ci viene detto che la valenza residua dell'universale sta, hegelianamente, nel suo segnalare i limiti di soluzioni particolari; di seguito, Jullien passa a considerare l'universale come un'idea regolativa, in senso kantiano, per approdare infine a una lettura kantiano-arendtiana dell'universale come esemplare. Nel capitolo successivo Jullien riprende la nozione di paradigma esemplare in connessione con i diritti umani, coniugandola a una ripresa della nozione di "biopolitica" à la Agamben, per poi introdurre nell'undicesimo capitolo l'idea della natura umana come fondo cui attingere illimitatamente. Con ogni evidenza, a prescindere dalla validità e fruttuosità delle singole opzioni, si ricava l'impressione di un'accumulazione eccessiva di concetti in assenza di una progettualità unitaria cui ricondurre le diverse soluzioni. Jullien ha sicuramente molte cose interessanti da dire – per quanto colpisca il fatto che le idee che propone siano invariabilmente tratte dalla riflessione filosofica occidentale; ma questa eccedenza affabulatoria sconta una genericità teorica di fondo che è avvertibile nel modo in cui le soluzioni che Jullien propone emergono in risposta ai vicoli ciechi dell'universalismo occidentale.

Leonardo Marchettoni