2016
C. Resta, Nichilismo
tecnica mondializzazione.
Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, Mimesis (Collana
Novecento, n. 9), Milano 2013, pp. 180, ISBN 978-8857518008.
Recensione
di Valentina Surace
Questo volume di Caterina Resta si muove lungo un percorso di
ricerca – condivisa da molti tra i suoi allievi a cui decide di
dedicarlo – che definisce anche un orizzonte storico-epocale. L’ordine
delle parole del titolo, lungi dall’essere casuale, indica una
direzione: infatti, se il nichilismo è il presupposto
ontologico, la tecnica è il fulcro attorno a cui ruotano le
riflessioni e, infine, la mondializzazione è la prospettiva
avvenire, l’impossibile in cui sperare.
Che la tecnica sia il centro focale lo rivela anche la
significativa scelta dell’immagine di copertina, un particolare del Dnieprostroy
di Konstantin Bogaevsky, ovvero della diga sul Dnepr, il quarto fiume
d’Europa, che negli ultimi 800 km è dominato da una catena di bacini
artificiali. Le dighe che formano tali bacini, utilizzate per generare
energia idroelettrica, rappresentano – come ha ben evidenziato
Heidegger a proposito del Reno – l’essenza della tecnica moderna che,
lungi dall’essere un puro mezzo, è un modo del dis-velamento del reale,
avente il carattere dello Stellen, del “richiedere”, del Gestell,
dell’imposizione, che provoca la natura affinché fornisca energia da
estrarre e accumulare. La centrale idroelettrica non è costruita come
un ponte che unisce una riva all’altra, ma è impiantata [gestellt]
nel fiume, in modo da farne un fondo [Bestand], cancellando la
sua essenza di luogo dell’abitare e riducendolo a qualcosa di impiegato
[bestellte].
Come Caterina Resta non manca di sottolineare, nell’epoca
moderna, l’“epoca della macchina” come la definisce Schmitt, o dell’Aktivismus,
della mobilitazione totale[Mobilmachung], secondo la definizione
di Jünger, la tecnica è il modo in cui si afferma il nietzscheano
deserto del nichilismo: per Schmitt esso conduce alla dissoluzione
degli antichi ordini, mentre Jünger ne intravede la possibilità di
coniugarsi con diversi “sistemi d’ordine”.
Se la tecnica è per entrambi i pensatori il destino del mondo,
Schmitt ha il merito di analizzarne l’origine, mentre Jünger
l’avvenire. La brillante intuizione schmittiana – sviluppata a partire
dal paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto di
Hegel – è che il progresso tecnico è reso possibile da un’esistenza
marittima. Infatti, la rivoluzione industriale prende avvio in
Inghilterra solo perché questa nazione a partire dal XVI secolo si
converte alla navigazione oceanica – con pirati e balenieri, prima
ancora che con i conquistadores –, sperimentando l’assenza del
limite che si inscrive nell’orizzonte della tecnica. È la prima
rivoluzione dello spazio, cui seguono una seconda, della tecnologia
(elettricità, aviazione e radiotelegrafia), e una terza, dei mezzi di
trasporto e comunicazione, che realizzano la cosiddetta
de-localizzazione [Entortung], la perdita di ogni possibile
radicamento in un luogo, e la trasformazione del pianeta in
un’illimitata distesa, desertica o oceanica che sia: «mare o
cyberspazio, l’ou-topia di questo spazio consiste nell’essere
non-luogo, nell’aver trasformato in tabula rasa, in inquietante
vuoto ogni dove per meglio attraversarlo, dominarlo,
sottometterlo, seguendo il solo imperativo della velocità e del
calcolo» (p. 40).
Allo spettro nichilistico di questa unità del mondo Schmitt
contrappone la Großraumtheorie, la teoria di un nuovo ordine
mondiale, un nuovo nomos terrestre, dopo il tramonto di quello
eurocentrico, imperniato non più su Stati nazionali, ma su grandi spazi
continentali: «di fronte alla crescente omologazione di un uni-verso
informe e indifferenziato, Schmitt pensa oltre la forma stato e oltre
la stessa modernità che l’aveva concepita, a un pluri-verso»
(p. 46). Il limite della teoria dei grandi spazi, come evidenzia Resta,
è che Schmitt concepisce un’organizzazione gerarchica tra i
popoli edunque polemica, imperniata sul criterio amico/nemico,
indispensabile presupposto del Politico, determinato permanentemente
dall’ostilità.
Se per Schmitt uno Stato mondiale [Weltstaat],
comprendente tutta la Terra e tutta l’umanità, è lo spettro dello
stadio compiuto del nichilismo, per Jünger, al contrario, è una
necessità dopo il tramonto delle monarchie nazionali ed il sorgere dei
due grandi spazi imperiali [imperial Räume], Russia e America,
Oriente e Occidente, che – come notano anche Schmitt e Heidegger – solo
apparentemente sono diversi tra loro, poiché in realtà parlano il
medesimo linguaggio, quello della tecnica. Lo Stato mondiale si può
realizzare mediante grandi distruzioni o una terza guerra mondiale;
oppure guadagnando posizioni con piccoli conflitti o, ancora,
attraverso un’intesa pacifica; ma, soprattutto, con straordinaria
preveggenza Jünger afferma che si può realizzare mediante il
logoramento a freddo di uno dei due contendenti.
In realtà, piuttosto che di Stato mondiale, Jünger preferisce
parlare di “impero”, non solo perché il termine Stato è inevitabilmente
plurale, come nota Schmitt, ma soprattutto perché l’unificazione
mondiale, che si serve dell’organizzazione tecnica per
realizzarsi, deve accompagnarsi alla libertà delle zone organiche,
alla salvaguardia, senza gerarchie, dei diversi popoli, persino
i più piccoli. L’impero mondiale si identifica con la Terra, madre di
ogni uomo: «impolitico è dunque […] l’esito del pensiero di
Jünger rispetto alla soluzione politica di Schmitt: l’impero
mondiale, infatti, […] nasce da quella che, agli occhi di Schmitt, è
una radicale spoliticizzazione, dall’elementare riconoscimento
della comune appartenenza degli uomini alla terra, in quanto suoi
figli, pur nel rispetto delle differenze e della singolarità di
ciascuno» (p. 58).
La prospettiva di Jünger riguardo l’unificazione mondiale –
come ben sottolinea l’autrice – non resta sempre la medesima, poiché
l’iniziale fascinazione per l’uniformazione tecnica realizzata dal
dominio dell’Operaio, lascia presto il posto alla preoccupazione per il
sorgere di inedite forme totalitarie. È per questo che Jünger inizia a
ricercare spazi di libertà, oasi nel deserto nichilistico della
tecnica, a cui dà il nome di Wildnis, terra selvaggia, e Figure
della singolarità, di uomini liberi in grado di resistere allo
strapotere della tecnica, l’imboscato [Waldgänger] prima e
l’Anarca dopo.
Tornare all’originaria appartenenza alla Terra significa
proprio intraprendere la via del bosco, non una via di fuga, ma una
strategia di resistenza alla violenza della tecnica, poiché il bosco è
una dimensione primordiale, altra rispetto al deserto del nichilismo
moderno, è un centro immobile, del tutto eterogeneo rispetto all’Aktivismus
e alla mobilitazione totale. Il bosco, «non ou-topia,
non-luogo, ma a-topos, luogo illocalizzabile» (p. 73),
non è in un altrove esotico, è ovunque, anche nei sobborghi di una
metropoli, perché è lo spazio di un’interiorità che ogni uomo alberga
in sé, che non ha nulla a che vedere con l’interieur borghese o
un’istanza soggettivistica, lo spazio in cui è possibile conservare
integra la propria libertà, che non corrisponde né all’obbedienza o al
servizio del tipo dell’Operaio né alla libertà individuale del
borghese. Il Waldgänger è un uomo il cui motto è “hic et nunc”;
un uomo che davanti alla catastrofe non rimanda la decisione di passare
al bosco, dove trova riparo e dorme, nel senso che è
‘inattivo’, rifiutandosi di utilizzare le stesse armi della tecnica e
del movimento. Il Waldgänger è un uomo che si con-verte, ma non
è né un monaco né un asceta, prende posizione, ma non è né un
partigiano né un anarchico, e lotta da fuori-legge, perché rispetta
l’unica legge che batte nel suo petto, ma non da ribelle armato, perché
mantiene il proprio dissenso interiore senza esprimerlo combattendo in
uno scontro frontale.
Altrettanto fuori dal coro, come quella dell’imboscato e del
bosco, è la descrizione che Resta fornisce dell’Anarca,
differenziandola da quelle che ne fanno una figura neutrale (Masini),
individualista (Hervier, Freschi), soggettivistico-nichilistica
(Esposito, Amato) ed evidenziando i tratti di singolo libero che
contesta ogni ordine costituito, prendendone le distanze. Resta accosta
la strategia di indifferenza dell’Anarca tanto alla Gelassenheit
heideggeriana, che è un abbandono delle cose e alle cose,
ovvero è insieme un dir no e un dir sì, quanto alla logica paolina del come
non (1 Cor 7, 29-32): infatti, l’Anarca «pur stando nel
mondo e, persino, usandone, è da altrove che lo guarda, come
non fosse di questo mondo» (p. 79). L’Anarca sopravvive, perché
sceglie un’esistenza insulare, si esilia dalla società, ma non la nega,
anzi continua ad osservarla con lo sguardo distaccato dello storico e
vigile della sentinella.
Le riflessioni jüngeriane influiscono straordinariamente su
quelle dedicate da Heidegger alla tecnica e sul suo confronto con
Nietzsche e con il nazionalsocialismo. Infatti, ciò che, secondo
Heidegger, Jünger pensa attraverso le idee di “dominio” e di “Operaio”
è il dominio tecnico universale della volontà di potenza sulla totalità
degli enti, realizzata, appunto, dall’Operaio, il superuomo in grado di
imprimere la propria forma uni-forme al mondo. Ed è proprio
nell’incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno che consiste,
come evidenzia Resta, l’intima verità del nazionalsocialismo.
Riconducendo al piano dell’interpretazione della tecnica
moderna il confronto di Heidegger con il nazionalsocialismo, che
rappresenterebbe la forma di apparizione politica del nichilismo,
Caterina Resta prende implicitamente le distanze dal dibattito che
anima l’opinione pubblica ormai da un trentennio, a partire dai testi
di Farias (1987), passando per il tentativo di Faye (2005), fino ad
arrivare alle attuali accuse di antisemitismo pronunciate da Trawny e
da Di Cesare, a seguito della lettura degli Schwarze Hefte.
Se il fondo metafisico del nazionalsocialismo è la tecnica,
ciò significa che la sua fine storica non conduce alla fine del
totalitarismo, ma all’ingresso in una fase in cui assume un volto meno
truce: «un nuovo totalitarismo, dunque, adesso si fa strada,
perfettamente a suo agio nelle società democratiche, nelle quali anzi
sembra aver trovato il suo terreno elettivo, in grado di garantirgli
vita
eterna» (pp. 110-111). Si tratta del tecnototalitarismo,
ove la tecnica assume direttamente il comando, imponendosi attraverso
il Gigantesco [das Reisenhaft], il senza misura, e la
“macchinazione”, la Machenschaft (da machen, “fare”,
“produrre”, “fabbricare”), che trasforma l’ente – persino l’ente che
noi stessi siamo – in qualcosa di “fattibile”, “manipolabile”, in
“pezzo di riserva [Bestand-Stück]” – secondo il macabro
linguaggio utilizzato anche nei campi di sterminio –.
In questa prospettiva appaiono quanto mai significative le
critiche di Heidegger all’umanismo tradizionale in vista di un humanismus
originario, un oltre (o ultra)-umanismo. Infatti, «un homo humanus
potrà annunciarsi solo nella responsabile consapevolezza del limite e
nel riconoscimento di un’alterità inappropriabile e indisponibile» (p.
150), alterità a cui Heidegger dà nomi diversi, tra cui quello di Ereignis,
l’evento appropriante-dispropriante, in relazione al quale siamo
chiamati ad essere, in quanto costituiti non da un “che cosa”, ma dal
“chi” siamo e dal “quando” accadiamo. L’umanismo che, a partire dallo zóon
lógon échon misinterpretato come animal rationale, pensa
l’uomo in termini biologici a partire dalla sua animalità, ovvero in
termini zoologici, come un essere vivente a cui si aggiunge quel “più”
che è la ragione, corrisponde al «soggettivismo moderno culminato
nell’antropomorfismo nietzscheano e nell’ipersoggettivismo del suo
super-uomo» (p. 133), che «altri non sarebbe se non l’homo technicus»
(p. 136), il quale mira al totale padroneggiamento del reale; è
l’“animale da lavoro”, l’animale razionaleche si compie nella brutalitas,
il bruto istinto della volontà di potenza, quale la razionalità si
rivela infine.
Tra i tre tipi di homo technicus, il guerriero
ariano teutonico, il comunista sovietico e il capitalista americano
democratico-liberale, ha avuto la meglio quest’ultimo, poiché
maggiormente capace del compimento del nichilismo. Pertanto, tra le tre
volontà di potenza planetarie, l’America si è posta alla guida del
processo di globalizzazione tecnica del mondo, processo scandito da due
eventi cruciali: la caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e il
crollo delle Torri gemelle di New York (11 settembre 2001). Il primo
rappresenta la fine del “topolitico”, come lo chiama Derrida, il
politico localizzato in un luogo e la promessa di un ordinamento
universale; il secondo rappresenta l’ammonizione e la minaccia contro
ogni tentativo di reductio ad unum delle differenze.
Al termine globalizzazione, che insiste sul concetto
geografico di globo e su quello greco di cosmos come un
tutto ben ordinato, Derrida – autore la cui voce si confonde con quella
di Caterina Resta, che con lui, idealmente e teoreticamente chiude il
volume – preferisce quello di mondializzazione, che evidenzia
il riferimento al concetto cristiano e latino di mundus, o mondialatinizzazione,
costituita da una “strana alleanza” tra il cristianesimo e il
capitalismo tele-tecnologico, tra Fede e Ragione. La vocazione
ecumenica del cristianesimo trova realizzazione attraverso la tecnica,
o meglio la teletecnica, che se da un lato genera una delocalizzazione
senza precedenti, svilendo il senso del luogo e quindi il senso di
appartenenza e radicamento, dall’altro favorisce processi di
democratizzazione, un esempio è quello relativo all’informazione; per
quanto Derrida non manchi di notare come a ciò corrisponda una crescita
dei poteri polizieschi che sorvegliano i nuovi e apparentemente ben
acquisiti spazi di libertà.
La delocalizzazione favorisce l’unificazione planetaria,
decostruendo i concetti tradizionali di politico e di stato-nazione (il
topolitico), ma genera, come risposta reattiva, recrudescenze
nazionalistiche, rivendicazioni identitarie etnico-religiose, e, tra le
altre “piaghe”, il terrorismo internazionale. La mondializzazione strappa
e unisce al tempo stesso allo chez soi, perché
attraverso la delocalizzazione cancella i confini tra dentro e fuori,
tra familiare ed estraneo, ex-propria, e insieme alimenta
rivendicazioni del presso-di-sé, ri-appropria.
Tuttavia, le strategie di “resistenza” alla mondializzazione
dovrebbero essere altre, bisognerebbe ogni volta comprendere
la possibilità che si cela in ciò che appare minaccioso; sarebbe
necessaria ogni volta una negoziazione, in modo da non frenare
la tecno-scienza e da permettere, d’altro canto, un’altra esperienza
della singolarità, in modo da contestare lo Stato in quanto
rappresentazione di nazionalismo, consolidandolo, però, in quanto
possibile protettore dalla generalizzata violenza internazionale.
Pertanto, «ciò che agli occhi di Schmitt sembrava la più terribile
minaccia: la spoliticizzazione in quanto perdita dei confini e dello
spazio (a partire dal quale soltanto si può de-cidere chi siamo noi e
chi è il nostro nemico), appare invece a Derrida come la possibile chance
per un’altra politica» (p. 166), in nome della quale è urgente,
innanzitutto, una riconsiderazione delle istituzioni sovranazionali,
come l’Onu, quindi del diritto internazionale, ovvero dei diritti
umani. Sarà necessario, allora, tornare ad interrogare l’idea di cosmopolitismo,
l’idea di una cittadinanza universale, che da Paolo giunge fino a Kant,
in vista non di un Weltstaat, ma di una Nuova Internazionale,
tra esseri umani e tra esseri viventi, tra vivi e morti e tra vivi e
nascituri; una “democrazia a venire”, un sistema di diritto
universalizzabile e infinitamente perfettibile dal punto di vista della
Giustizia, basato su una politica dell’ospitalità incondizionata
e non più dell’ostilità: un compito impossibile e cionondimeno reale.