2005

J.E. Stiglitz, Globalization and Its Discontents, Norton, New York 2002, trad. it. La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002, ISBN 88-06-16377-9

Il volume di Stiglitz, premio Nobel per l'economia, si presenta come una critica "interna" alla politica delle grandi istituzioni mondiali del mercato e della finanza, visto che l'economista ha lasciato nel 1993 il mondo accademico, è entrato nel consiglio dei consulenti economici sotto la presidenza Clinton, passando nel 1997 alla Banca Mondiale, dove ha ricoperto ruoli importanti fino al gennaio 2000.

Stiglitz ritiene che l'eliminazione delle barriere al libero commercio e la maggiore integrazione fra economie nazionali siano potenzialmente il motore per una crescita ed un arricchimento generalizzato a livello mondiale. Ciò che, al contrario, deve essere ripensato, sono i modi in cui la globalizzazione è stata fino ad oggi regolata. Il suo appare quindi come un "riformismo" che, di fronte ad un neoliberismo selvaggio, è teso a criticare e limitare almeno gli effetti più devastanti della globalizzazione stessa.

Il metodo proposto dall'autore è analogo a quello galileiano delle "sensate esperienze" e delle "certe dimostrazioni": i problemi vanno affrontati considerando con attenzione gli elementi oggettivamente a disposizione. Perciò, quando Stiglitz è stato chiamato da Clinton alla Casa Bianca, passando in seguito alla Banca mondiale, ha cercato di legare le sue ricerche accademiche alle politiche d'intervento. Partendo dai suoi studi sulla asimmetricità dell'informazione, e quindi dalla differenza delle informazioni di cui dispongono, ad esempio, operai e datori di lavoro, ma anche il prestatore e il mutuatario, ecc., il Premio Nobel giunge ad un'analisi realistica di fenomeni come la disoccupazione.

In base ai modelli standard degli economisti, infatti, i mercati funzionavano perfettamente, tanto che per decenni si era addirittura arrivati a negare il problema della disoccupazione, oppure essa veniva imputata all'alto livello dei salari (da cui la decisione di abbassarli), mentre, proprio grazie alle teorie sull'asimmetricità delle informazioni, è stato possibile elaborare modelli macroeconomici maggiormente rispondenti alla realtà, sia in relazione alla disoccupazione stessa che riguardo ai problemi relativi alle fluttuazioni, recessioni e depressioni del capitalismo.

Le decisioni dell'FMI, secondo Stiglitz, sono prese sulla base di una curiosa miscela di ideologia e di cattiva economia. La ricetta è generalmente la stessa: i paesi devono seguire le direttive del Fondo sebbene le sue politiche, lungi dal mostrare una sequenza continua di successi, abbiano invece portato al collasso ed alla fame numerosi paesi.

La sequenza dei titoli dei vari capitoli (La promessa delle istituzioni globali; Promesse infrante; Libertà di scelta?; La crisi dell'Est asiatico; Come le politiche del Fondo Monetario hanno portato il mondo sull'orlo di un tracollo globale; Chi ha perso la Russia?; Leggi commerciali inique ed altri guai; Strade migliori verso il mercato; L'agenda parallela del Fondo Monetario Internazionale; La strada da percorrere) indica l'ampiezza dell'analisi e delle singole esperienze prese in considerazione da Stiglitz, la cui critica investe, ad esempio, le politiche dell'austerità, le privatizzazioni e la liberalizzazione dei mercati, ossia i pilastri del Washington consensus, imposte non solo dall'FMI ma anche dalla Banca Mondiale e dal WTO.

La tesi di Stiglitz è che i tre pilastri del Washington consensus acquistino un significato comprensibile a fronte di deficit di vaste proporzioni, di perdite accumulate da aziende statali, di cronica inflazione e che, tuttavia, se l'austerità, la privatizzazione e la liberalizzazione diventano fini in sé, danno luogo ad effetti dirompenti e ben diversi da quelli auspicati.

Da qui un duro giudizio sul modello dell'economia di mercato e dell'equilibrio competitivo, in cui sarebbe all'opera la "mano invisibile" di Adam Smith. A questo proposito l'autore osserva che questo "fondamentalismo del mercato", già messo a dura prova dalla crisi del 1929, non è applicabile ai paesi in via di sviluppo in cui mancano concorrenza perfetta, informazione, diritti di proprietà chiaramente stabiliti e tribunali che li facciano rispettare, cioè alcune delle condizioni fondamentali della stessa teoria liberistica.

Di fronte a problemi economici enormi ed evidenti per molti paesi, ad una situazione al limite della catastrofe ambientale, Stiglitz non propone però di abbandonare la strada della globalizzazione, che ha ottenuto anche dei risultati positivi: il successo dell'Est asiatico, un miglioramento generalizzato delle condizioni di salute, la creazione di una società globale attiva che lotta per ottenere maggiore democrazia e giustizia sociale. Si tratta, al contrario, di ripensare il modello di mercato attuale, modificando anche sostanzialmente l'agenda dei problemi economici, politici e sociali a livello planetario. L'FMI e la Banca mondiale dovrebbero, ad esempio, mutare il sistema di voto. Il peso ed il ruolo dei ministri del Commercio dovrebbe essere ridotto in seno al WTO. I paesi in via di sviluppo dovrebbero essere meglio informati ed avere un peso maggiore in questi organismi.

Riforma, dunque, dell'FMI e del sistema finanziario internazionale, riforma della Banca mondiale e dell'assistenza allo sviluppo, cancellazione del debito non solo per i paesi più poveri ma anche per quelli che, devastati dalle politiche dell'FMI, sono considerati ancora troppo benestanti per rientrare tra i beneficiari delle agevolazioni. Riformare infine il WTO e riequilibrare il commercio internazionale.

Il libro si conclude significativamente con queste osservazioni e proposte "Oggi il sistema del capitalismo si trova ad un bivio, proprio com'era avvenuto durante la Grande depressione. Negli anni Trenta, il capitalismo fu salvato da Keynes, che studiò le politiche mirate alla creazione di posti di lavoro e a salvare coloro che soffrivano per il crollo dell'economia globale. Oggi, milioni di persone in tutto il mondo sono in attesa di vedere se sia possibile riformare la globalizzazione affinché i suoi vantaggi possano essere ripartiti in modo più equo... Quelle che servono sono politiche per una crescita sostenibile, giusta e democratica. Sviluppo significa trasformare le società, migliorare la vita dei poveri, dare a tutti la possibilità di successo e garantire a chiunque l'accesso ai servizi sanitari e all'istruzione... L'Occidente deve fare la propria parte per riformare le istituzioni internazionali che governano la globalizzazione... Non possiamo, non dobbiamo, rimanere in disparte relegandoci al ruolo di semplici e inerti spettatori".

Nonostante alcuni degli argomenti di questo libro siano ben sviluppati, meno convincenti appaiono le proposte e le tesi a cui giunge l'a., che non sembrano rispondere all'attuale stato della politica mondiale. Lo stesso Stiglitz, in apertura del volume, riconosce che l'FMI e la Banca Mondiale hanno ampliato i mandati originari derivanti dagli accordi di Bretton Wood e fa un esplicito cenno all'influenza che hanno avuto su tale ampliamento la fine del colonialismo prima e del comunismo poi, eventi che hanno reso tali istituzioni protagoniste assolute dell'economia e poco inclini a qualsiasi autocritica. Proprio per questo, a partire dalla fine del bipolarismo e della globalizzazione odierna (specialmente dopo l'11 settembre), che hanno esaltato il ruolo del Washington consensus, non solo dal punto di vista economico ma anche da quello politico, l'idea di una riforma "endogena" di quegli organismi sembra molto poco realistica se non del tutto improbabile.

Valerio Martone