2013

Julie Stephens, Confronting Postmaternal Thinking: Feminism, Memory and Care, Columbia University Press, New York 2011, pp. 200 (letto nell'edizione kindle)

Secondo l’australiana Julie Stephens, la cultura contemporanea è caratterizzata da “un disagio, se non da vera e propria ostilità” verso la maternità, il materno e i valori che essi evocano: la cura e la dipendenza. La perdita di sé, dei confini, del controllo sulla propria vita, la sensazione di essere rigettate in una condizione primordiale, “primitiva e vergognosa”, descritti nelle autobiografie di tante giovani donne (che l'autrice esamina nel secondo capitolo) raccontano l'ansia e i sentimenti ambivalenti che suscita oggi la maternità.

Sullo sfondo della crisi dei valori materni, Stephens colloca l'affermazione e la diffusione della cultura neoliberista con la sua promessa della sovranità del consumatore, la sua spinta verso le privatizzazioni, la deregolamentazione del mercato, lo smantellamento del welfare, la critica del concetto di dipendenza, la flessibilità del lavoro e un orientamento centrato sul breve termine. Sintomo evidente del declino del materno sarebbe il dilagare di una concezione postmaternalista che ispira il welfare-to-work e la tendenza delle politiche sociali contemporanee a sostenere le donne in quanto lavoratrici e non in quanto madri.

Nel tentativo di rivalutare il “pensiero materno” e proporlo come modello teorico in base al quale ripensare e riformare la società – ora che la crisi finanziaria sembra aver messo in discussione il primato di un cieco economicismo –, l'autrice distingue la propria posizione dal modo in cui la “carta materna” è stata giocata in politica nell'ambito di un discorso volto a rafforzare una visione tradizionalista della società e della famiglia. Distinguere una forma di maternalismo femminista dal ricorso ai valori materni da parte di personaggi come Sarah Palin non è, però, il solo motivo di imbarazzo che oggi devono affrontare coloro che ancora credono nel femminismo. Secondo Julie Stephens, la seconda e, forse, più importante ragione di disagio sta nella memoria culturale selettiva che sembra prevalsa intorno al movimento delle donne degli anni sessanta e che ha contribuito a mettere in ombra aspetti del passato che sono in tensione con la cultura oggi dominante.

Un'imperdonabile dimenticanza collettiva, secondo Stephens, è alla base anche dei recenti lavori di autrici importanti quali Hester Eisenstein e Nancy Fraser, nei quali si ipotizza l'esistenza di una “relazione pericolosa” tra femminismo e neoliberismo. Gli ideali emancipazionisti, e il loro concretizzarsi nella ricerca di una realizzazione di sé prima di tutto nel mondo del lavoro, sarebbero stati complici di una convergenza, più o meno intenzionale, tra femminismo e neoliberismo, che avrebbe avuto tra i suoi effetti quello di stimolare lo sfruttamento del lavoro femminile nelle maquiladoras o mediante la creazione di un sempre più vasto mercato del lavoro di cura migrante. Il femminismo cooptato dal neoliberismo, sia Fraser che Eisenstein ne sono consapevoli, non è che un “inquietante doppio”, che ha tradito lo spirito originario del movimento femminista. La loro interpretazione, tuttavia, secondo Stephens, finisce per concedere troppo ad una falsa ricostruzione storica del passato, influenzata da una dinamica che – riprendendo la teoria di Paul Connerton sulle forme della dimenticanza – l'autrice definisce di “active forgetting”. Questa forma di dimenticanza è servita alla costruzione del soggetto “sgombro”, indipendente e autonomo della teoria neoliberista e a stravolgere l'identità del femminismo della seconda ondata, ora ricordato per il suo presunto carattere anti-materno.

Attraverso quali opere e memorie si è arrivati a questa particolare rappresentazione del femminismo degli anni sessanta? Significativa, secondo Stephens, è l'accoglienza e la pubblicità riservata ad un testo, rappresentativo della third wave, quale: Baby love. Choosing motherhood after a lifetime of ambivalence di Rebecca Walker, figlia della più nota femminista della seconda ondata Alice Walker, che confessa di aver vissuto un rapporto conflittuale con la maternità influenzata dall'esperienza di una madre distante, che l'aveva sempre considerata un ostacolo alla propria autorealizzazione e aveva sempre privilegiato e anteposto il lavoro rispetto alla famiglia. Il carattere anti-materno del femminismo della second wave, d'altra parte, sembra trovare conferma anche nel desiderio di “non divenire come la propria madre” presente nelle autobiografie di molte femministe della seconda ondata, quali Katie Roipie e Marianne Hirsch, che raccontano come il tema del “matricidio” simbolico fosse insistentemente evocato negli incontri dei gruppi di autocoscienza.

Attraverso l'analisi di fonti orali, costituite da una serie di interviste a femministe della seconda ondata, diventate poi personaggi di successo nella vita accademica o istituzionale, e tratte dalla collezione di storia orale posseduta dalla Biblioteca nazionale australiana, nel terzo capitolo del libro, Stephens riesce ad offrire una contronarrazione degli anni sessanta e settanta. Da questo gesto politico di active remembering emerge come il femminismo trovasse allora una delle sue espressioni più importanti in un sostanziale rifiuto del carrierismo. Nelle interviste analizzate, le femministe della seconda ondata testimoniano tutte come il successo sia arrivato nella loro vita lavorativa quasi per caso, senza volerlo. Essere femministe e concentrare la propria vita solo sul lavoro o avere ambizioni di carriera era considerato, infatti, all'epoca, estremamente negativo, perché legato ad un progetto individuale e non collettivo. L'attivismo femminista non aveva molto a che fare con un atteggiamento antimaterno o con il rifiuto dell'ideale della cura; era piuttosto legato ad un progetto di emancipazione collettiva e ad una critica complessiva della società capitalista. Una visione in tensione con l'immagine, oggi prevalente, di una sorta di “naturale alleanza tra femminismo e carrierismo”, tra femminismo e neoliberismo, nella quale la dimensione di liberazione collettiva risulta come scomposta in tanti singoli progetti di realizzazione individuale. Come sia potuto avvenire che un sogno di emancipazione collettiva si trasformasse nella retorica della libertà di scelta individuale rimane una domanda importante e aperta, che, forse, l'autrice sottovaluta, nel tentativo di riportare in vita il maternalismo rimosso nella ricostruzione storica della second wave.

Se è chiara ed efficace la critica che Stephens muove al neoliberismo e stimolante la sua riflessione sulla memoria collettiva selettiva del passato quale elemento necessario nella costruzione di nuove identità sociali, il suo approccio maternalista lascia aperti molti interrogativi. La critica rivolta, nel quinto capitolo, ai programmi di impiego “family friendly”, quando pensati in termini neutri rispetto al genere, fa pensare che l'autrice continui a simpatizzare per una divisione tradizionale dei ruoli tra uomini e donne e a riconoscere un primato al ruolo materno. Impressione questa rafforzata anche da altri elementi. Stephens, infatti, vede con sospetto non solo la mercificazione del lavoro di cura che si è tradotta in un massiccio impiego di forza lavoro femminile migrante, ma anche il ruolo dei servizi per l'infanzia; e non è chiaro, in quest'ultimo caso, se la critica sia rivolta all'impostazione di servizi quali quelli promossi dalla corporation ABC learning – multinazionale, fallita durante la crisi finanziaria, che era arrivata ad avere una posizione dominante nel mercato dei servizi per l'infanzia non solo in Australia – la cui filosofia era incentrata sull'idea del bambino come investimento in capitale umano; o ai servizi all'infanzia in età prescolare tout court, indipentemente dal numero di ore che il bambino è destinato a trascorrervi, dalla loro impostazione pedagogica e dalla loro filosofia di gestione.

Ad essere guardato con notevole interesse, nell'ultimo capitolo del volume, è il fenomeno delle c.d. femivore, descritto in un breve articolo di Peggy Orestein, uscito sul “New York Times”, nel marzo del 2010, col titolo The Femivore's dilemma (<http://www.nytimes.com/2010/03/14/magazine/14fob-wwln-t.html?_r=0>), e studiato in modo più approfondito da Shannon Hays nel volume Radical Homemakers. Reclaiming Domesticity from a Consumer Culture (2010).Le femivore sono donne con un alto livello di istruzione che abbandonano carriere importanti per perseguire contemporaneamente due obiettivi: vivere più serenamente la loro maternità e abbandonare uno stile di vita centrato sul consumismo, estendendo i principi dell'etica della cura alla natura, all'ambiente e alla comunità. D'accordo con Shannon Hayes, Stephens descrive questa opzione come un modo per conciliare femminismo ed ecologismo e come una reazione criticamente creativa nei confronti del pensiero postmaternalista. La domesticità diventa così – sostiene Stephens – una forma di resistenza attiva al sistema capitalista. Una conclusione che fa tornare in mente, da un lato, il sogno coltivato dal socialismo utopistico ottocentesco che si potesse cambiare la società attraverso l'esempio offerto da singole comunità; dall'altro, la capacità dello stato minimo, ovvero proprio di una società liberista, di dare l'illusione di poter essere una “impalcatura per utopie” – secondo la definizione di Robert Nozick –, ovvero un luogo in cui ogni progetto individuale, anche quello di dare vita ad una comuntà ascetica, può avere spazio se frutto di una libera scelta individuale. Un'illusione destinata a crollare in breve tempo – come traspare dai racconti, leggibili su internet, di molte donne che hanno tentato questa opzione –, quando la fuga in campagna avviene senza un consistente patrimonio alle spalle.

La contrapposizione tra le femivore e le madri che per tornare prima a lavoro scelgono di utilizzare il tiralatte in ufficio, nell'apposita lactation room, non sembra portarci molto lontano. Un femminismo che voglia essere alternativa credibile al neoliberismo deve tornare ad essere un progetto politico di riforma complessiva della società improntato ad un'idea di crescita sostenibile e rispettosa dell'ambiente, alla creazione di un welfare funzionante e democratizzato, alla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro per tutti e al diritto a ricevere e prestare cura. Nel fornire sicurezza sociale, esso dovrebbe, d'altra parte, saper essere aperto alle diverse interpretazioni individuali del lavoro, della famiglia e anche dellla scelta di fare o non fare figli, che inevitabilmente caratterizzano una società pluralista.

Brunella Casalini