2005

R. Guha, G.C. Spivak, (introduzione di E.W. Said), Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, presentazione di S. Mezzadra, Ombre Corte, Verona 2002, pp. 144 (trad. parziale di R. Guha, G.C. Spivak (eds.), Selected Subaltern Studies, Oxford University Press, Delhi 1988)

I Subaltern Studies sono una corrente di studi prevalentemente storici, sorta in India esattamente vent'anni fa e che ha avuto una straordinaria diffusione in numerose parti del mondo. Grazie alla cura di Sandro Mezzadra, è ora possibile consultare in italiano alcuni dei saggi, ormai classici, prodotti da tale esperienza di ricerca.

Ma prima di addentrarci nella valutazione del volume, sarà forse proficuo tracciare le linee essenziali del progetto storiografico che fa capo agli studi della subalternità; come spiega Said, nella sua introduzione, tali studi muovono dalla constatazione che la storia indiana sia stata scritta da un punto di vista colonialista ed elitario, sebbene gli attori principali siano stati i ceti subalterni. Da ciò proviene la necessità di una nuova narrazione del passato che offra lo spazio e l'importanza dovuta agli esclusi dalla storia ufficiale. La relativa semplicità del punto di partenza e, in fondo, la non assoluta novità del proposito (si ricordi l'ideale storiografico manzoniano) non devono far sottovalutare né la difficoltà esecutiva di tale progetto, né le sue peculiarità. È vero, infatti, che cospicui sono i prestiti intellettuali di cui si avvalgono i nostri studiosi: la maggior parte di loro proviene, infatti, da un ripensamento critico del marxismo; da Gramsci traggono molta della terminologia, nonché lo stesso concetto di subalternità; riprendono l'esempio di storici quali E.P. Thomson, E. Hobsbwam e E. Wolf; si confrontano con gli autori dello strutturalismo classico e del post-strutturalismo derridaniano; ripensano e fanno propri i topoi degli studi post-coloniali ecc. Ma è pur vero che è possibile cogliere alcune caratteristiche decisamente innovative e promettenti, esclusive dell'esperienza di ricerca dei Subaltern Studies, alcune delle quali proverò, qui di seguito, a evidenziare.

  1. La subalternità di cui si parla è una subalternità almeno doppia: quella di soggetti svantaggiati in un paese sottomesso a un governo straniero, elementi emarginati, minoritari o oppressi dall'alleanza tra dominatori britannici ed élite indiane. L'approccio a una tale materia richiede un rigoroso esame di casi particolari e circoscritti, ma contemporaneamente la capacità di proiettarli nella più ampia considerazione dei rapporti di forza internazionali.
  2. L'analisi marxista, la produzione femminista, gli studi culturali e tutte quelle ricerche che hanno dato rilievo ai nessi tra potere e cultura, immaginario e dominio, vengono inscritte all'interno di una cornice più ampia; ossia in un sistema mondo trasformato dall'esperienza coloniale, in cui le categorie epistemiche che vinti e vincitori, vittime e oppressori, coloni e colonizzati impiegano per apprendere la realtà e descriverla partecipano di una stessa natura che va esplicitata.
  3. L'operazione di restituire la parola ai subalterni non è assunta come facile e immediata. I titoli inquisitivi di vari articoli evidenziano il problema: Who Speaks for "Indian" Pasts? (di D. Chakrabarty), Can the Subaltern Speak? (di Spivak), When will the Subaltern Speak? (di S.M. Shamsul Alam), What Happens When the Subaltern Speaks (di J. Beverley). E la questione non è solo se dalle fonti storiche disponibili, ossia quasi esclusivamente quelle prodotte dai gruppi dominanti, si possano ricavare indizi della visione del mondo dei soggetti subalterni, come da un calco si ricostruisce la forma dell'assente; ma i nostri giungono a chiedersi se esista una coscienza subalterna da riesumare, in che misura si possa assegnare una volontà a un soggetto collettivo e se il lavoro di costruzione di un'identità subalterna, operato artificialmente dallo storico, non sia un'ennesima oggettivazione velleitaria e costringente per coloro che ricadano sotto tale appellativo.

Delineato questo breve profilo, sarà più agevole condividere una valutazione del volume in questione. L'edizione italiana è una traduzione parziale di un'antologia di scritti sulla subalternità che molto ha contribuito alla notorietà del gruppo anche oltre i confini indiani. Mezzadra ha ripreso dal testo originale l'introduzione di Said (che, occupandosi della produzione intellettuale coloniale in merito alla cultura islamica e mediorientale, è pervenuto a ipotesi e conclusioni analoghe a quelle dei colleghi indiani), ripubblica interamente la sezione sulla metodologia dei Subaltern Studies ad opera di Guha (considerato il fondatore del gruppo) e inserisce in conclusione un articolo di Spivak (famosa femminista e traduttrice di Derrida; esterna, ma attenta agli studi della subalternità). Sono esclusi i saggi che rappresentano l'effettivo lavoro di ricostruzione storica e che costituiscono la parte più cospicua del testo originale, nonché, in generale, il contenuto consueto dei lavori pubblicati da questo gruppo.

L'operazione di Mezzadra di selezionare, ordinare e presentare questa concisa collezione di scritti sembra quella di voler costruire a posteriori una sorta di manifesto dei Subaltern Studies, aggiungendo in conclusione l'acuta e benigna provocazione di Spivak. Inoltre, invertendo l'ordine degli articoli, rispetto alla versione inglese, il testo italiano assume un'impronta più dialettica. Difatti il testo originale si apre con il saggio inquisitivo della studiosa a cui seguono, quasi in risposta, i contributi degli appartenenti alla scuola; nella versione italiana, invece, la riflessione problematizzante di Spivak è posta alla fine, in tal modo il volume si congeda lasciando sospese alcune domande e un appello. L'appello dell'autrice auspica che il decostruzionismo venga adottato dai nostri studiosi come loro modello storiografico, ma il suo intento di fondo mi pare sia quello di proporre a tale impresa culturale una finalità trasformativa del mondo. Infatti, decostruzionismo, per Spivak, significa "Mettere in discussione l'autorità del soggetto della ricerca senza paralizzarlo, trasformando continuamente le condizioni di impossibilità in possibilità", esso si compie nel disarticolare la grammatica delle relazioni di dominio, sovvertendo e ricomponendo la catena di segni che ordiscono il testo-mondo, dando così luogo a un discorso che sia in ultimo azione.

Con queste e altre sollecitazioni Spivak scompiglia e arricchisce di nuovi spunti la scuola. Non è però la sola: Sumit Sarkar, in diversa sede, ha provocato un ulteriore scossone, proprio polemizzando con la corrente che ha seguito la scia post-strutturalista agognata dalla studiosa; diversi autori hanno poi esportato l'impostazione dei Subaltern Studies in differenti ambiti disciplinari, come ha fatto Upendra Baxi nel campo della Legge e dei diritti umani. Altri studiosi ancora hanno provato invece una trasposizione geografica, testando l'approccio e la metodologia impiegati in contesto indiano in altri paesi che sono stati soggetti alla colonizzazione.

Menzionando l'arricchimento di questi studi scaturito dalla loro diffusione, non mi resta che augurare al presente volume di suscitare un congruo interesse pur in Italia, e che anche qui l'invito di Guha possa trovare degli operosi uditori: "Noi speriamo, perciò, che altri studiosi si uniscano a noi in questa avventura, pubblicando da soli o con altri le loro ricerche sul tema della subalternità, dando espressione alla critica dell'elitismo che domina le loro rispettive discipline e, in generale, apportando le loro critiche e i loro suggerimenti a questo e al prossimo volume dei Subaltern Studies".

Clelia Bartoli