2010

A. Somma, Economia di razza. Dal fascismo alla cittadinanza europea, Ombrecorte, Verona 2009, ISBN 978-88-95366-49-4

"Gli italiani non sono razzisti", secondo molti. Come del resto non sono nemmeno stati fascisti, e, se mai è capitato, ciò dipese non tanto dalla volontà dei singoli quanto dall'oppressione del regime mussoliniano prima e dalla violenza nazista poi.

Purtroppo, è facile dimenticare ciò che Hannah Arendt scriveva nel suo famosissimo Alle origini del totalitarismo, ricordando che alla base di ogni totalitarismo vi è sempre un'adesione di massa all'ideologia dominante.

Dove finirono le masse fasciste al termine della seconda guerra mondiale?

La vulgata popolare vuole che all'indomani della liberazione molte camicie nere abbiano indossato il fazzoletto rosso dei partigiani, al fine di camuffarsi, mentre la retorica ufficiale sostiene che in fondo di fascisti veri in Italia ce ne furono pochi, e che questi pochi, una volta caduto il fascismo, vennero allontanati dalla vita politica, economica ed intellettuale del paese.

Alessandro Somma critica duramente questi luoghi comuni e, con argomentazioni rigorose, problematizza i due principali "miti" della storiografia italiana e tedesca relativi "alla subalternità del fascismo al nazismo" e "all'incomparabilità dell'Olocausto", dimostrando, tra l'altro, come la celebrazione di questi due dogmi abbia permesso l'occultamento delle impronte che nazismo e fascismo hanno lasciato in ambito politico, sociale e, soprattutto, economico (pp. 9-10).

I fascisti - gli intellettuali, i politici, gli industriali, i latifondisti, le gerarchie ecclesiastiche - non furono evidentemente pochi, né scomparirono dopo la caduta del regime, e molte delle idee che quel regime sostenne, proprio in ragione del fatto che la società italiana (ed europea) subì compiaciuta il processo di fascistizzazione, continuarono a lungo a fornire supporti ideologici di legittimazione anche alle "nuove" politiche economiche adottate in ambito europeo.

Somma, che già in I giuristi e l'Asse culturale Roma-Berlino. Economia e politica nel diritto fascista e nazionalsocialista (Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2005) ha provveduto a documentare e ricostruire i livelli di partecipazione degli intellettuali e dei giuristi italiani all'Asse Roma-Berlino e alla elaborazione delle teorie politiche e giuridiche del nazi-fascismo, anche in questo suo lavoro riporta alla memoria con dovizia di dati, citazioni e nomi le collaborazioni tra accademici e politici italiani e tedeschi che, nel corso dei seminari e dei convegni organizzati allora, definirono e misero a punto le ideologie e le politiche razziste dei due regimi alleati (p. 51 e ss; p. 66 e ss.). Facendo ciò, l'autore non evita di criticare altri luoghi comuni assai diffusi: ad esempio, se molti ritengono che il razzismo tedesco e quello italiano presentassero notevoli differenze teoriche (biologico e finalizzato all'annientamento fisico il primo, spiritualista e differenzialista il secondo), Somma nota come entrambi nei fatti mirassero all'annientamento (fisico o sociale) del soggetto individuato come pericoloso per il bene pubblico e per la "salute della razza". Simili politiche razziste, affini quantomeno per i risultati ottenuti se non nelle retoriche legittimanti, furono funzionali alla riforma, anch'essa in chiave razzista, dell'economia liberale, la quale non subì gli stessi pesanti attacchi che il liberalismo politico invece patì, con la radicale negazione dei diritti politici, ma vide comunque l'intervento massiccio dello Stato e della politica (p. 23). Infatti, il sistema economico (devastato dalla crisi del 1929) si presentava allora come bisognoso dell'intervento statale e ciò permise ai regimi totalitari di introdurre trasformazioni profonde senza provocare reazioni o proteste eccessive.

Economia e razzismo, dunque, riforme economiche e giuridiche si intrecciarono nel corso di quegli anni in modo più o meno palese, contribuendo a costruire una società in cui il conflitto tra classi - annientato dal corporativismo - veniva sostituito dal conflitto tra razze (p. 48 e ss; p. 106 e ss.).

Queste tesi principali, che caratterizzano il testo, sono accompagnate da un costante rimando agli effetti più recenti, in termini temporali, delle strategie economiche di allora e alle filosofie politiche e giuridiche odierne che concorrono a legittimare le stesse scelte politiche ed economiche del ventennio fascista, presentando assonanze sorprendenti con le ideologie razziste di un tempo.

Un continuum potrebbe per esempio essere riconosciuto, sottolinea Somma, nell'utilizzo ridondante del "diritto soggettivo", istituto giuridico che il fascismo contribuisce, per un verso, a consolidare quale strumento di affermazione e tutela delle proprie istanze e, per altro verso, a limitare, circoscrivendone la titolarità al solo "tipo umano razzizzato" che la legislazione sul diritto di proprietà (contenuta nel codice civile del 1942) definiva in modo eloquente (p. 114 e ss.). Nelle odierne società occidentali dell'immigrazione di massa, una simile configurazione del diritto soggettivo è tutt'altro che irriconoscibile: la distribuzione disomogenea di diritti e tutele a seconda delle cittadinanze e dei "permessi di soggiorno" di cui si gode non sono altro che la trasposizione post-moderna della differenziazione sociale su base razziale che all'epoca del nazifascismo si giustificava in chiave, appunto, razzista. Oggi, parimenti, la giustificazione di una simile discriminazione è ancora di matrice "razzista" e economica: i diritti, e le loro tutele, costano, ragion per cui lo Stato può garantirne l'effettivo godimento solamente a un numero ristretto di persone, identificabile con il complesso dei "cittadini" (nazionali ed europei). Non solo: oltre allo status civitatis, numerosi provvedimenti amministrativi agganciano la tutela di alcuni diritti fondamentali (la casa, l'unità familiare, la residenza in un dato comune) al possesso di un reddito minimo, il che rappresenta, da un punto di vista meramente logico, una contraddizione in termini dal momento che i diritti fondamentali, per come teorizzati e sanciti sul piano interno e internazionale, servono esattamente al contrario, cioè a garantire chi non è in grado di procurarsi autonomamente ciò che desidera o ciò di cui ha bisogno.

Allora, se le recenti, drammatiche, cronache di Rosarno, con la rivolta dei migranti nord-africani ai soprusi e alle violenze della 'ndrangheta, sembrano riproporre in chiave contemporanea il conflitto tra razze come sostituto privilegiato del conflitto tra classi (ben più problematico da gestire per i governi non più in grado di finanziare adeguatamente il c.d. welfare state), le ragioni profonde di quanto sta accadendo nelle maggiori città italiane (disordini, rivolte, episodi di intolleranza) vanno ricercate non solamente nell'incapacità attuale della società italiana di reagire in modo corretto (accogliente, rispettoso, legale) all'aumento improvviso dell'immigrazione, ma, piuttosto, nella storia meno recente e negli omissis che la filosofia politica e giuridica hanno contribuito a perpetrare nel tempo.

Tra le questioni taciute figura sicuramente l'alleanza di stampo fascista e razzista che ha legato nel tempo l'economia del nostro paese, gli interessi mafiosi e la "devianza nera" italiana. Recenti ricostruzioni giornalistiche e storiografiche hanno dato conto e portato alla luce frammenti di questi intrecci, dando prova della convergenza ideologica che ha retto la c.d. "santissima trinità" (mafie, servizi, fascisti) la quale, a sua volta, ha determinato buona parte della storia italiana degli ultimi sessant'anni, dalla strage di Portella della Ginestra alle trattative Stato-mafia di fine millennio (si vedano in proposito G. Casarrubea, G. Cereghino, Lupara nera. La guerra segreta alla democrazia in Italia 1943-1947, Bompiani, Milano 2009; S. Lupo, Quando la mafia trovò l'America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008, Einaudi, Torino 2008). Seppur le legittimazioni ideologiche di fondo di simili alleanze possono essere parzialmente mutate con il passare del tempo (ad esempio, la funzione anticomunista, dopo il 1989, è venuta meno), alcune costanti sopravvivono alle trasformazioni politiche e sono tuttora riconoscibili. L'impronta economico-mafioso-razzista è chiaramente ravvisabile, ad esempio, nelle già richiamate vicende di Rosarno, le quali rappresentano l'ennesima manifestazione di una convergenza ben consolidata negli apparati e nei mezzi tra il potere economico, il potere criminale-mafioso e l'antropologia di una società "razzializzata", nella quale il "mercato del lavoro è caratterizzato da una netta segmentazione etnica" (L. Balbo, In che razza di società vivremo?, Mondadori, Milano 2006, p. 38).

Non è nemmeno un caso che i linguaggi "pubblici" utilizzati ancora oggi dalla vulgata e da alcuni esponenti politici tradiscano l'origine di molte scelte politiche odierne in materia di immigrazione, di sicurezza o - appunto - di economia. Basti ricordare "i vagoni piombati" invocati dal già sindaco leghista di Treviso Giancarlo Gentilini, o i recenti manifesti elettorali della Lega Nord nei quali il "popolo padano" (un'espressione che rinvia chiaramente ad una sorta di razzismo spiritualista) veniva rappresentato come le tribù indiane che subirono l'invasione e l'assedio dei coloni. Per non citare la famosa operazione "White Christmas" indetta dal comune di Coccaglio, con l'intento di "scovare" i cittadini stranieri residenti senza permesso di soggiorno, o la schedatura dei membri delle comunità rom e sinti avviata nel corso del 2007 e, da ultimo, l'espressione utilizzata da alcuni esponenti della Lega Nord ("espulsioni casa per casa", "rastrellamenti"), all'indomani di alcuni disordini provocati da alcuni migranti nord-africani nella città di Milano.

Il tipo umano razzizzato, l'homo oeconomicus, reso tale attraverso l'imponente ricorso ai mezzi di comunicazione di massa che veicolano messaggi razzisti e classisti, è tutt'altro che venuto meno, anzi. Come scrive Somma, esso è l'archetipo di un essere umano funzionale all'odierna economia di mercato, nella quale tutti coloro i quali presentano qualità "diverse" dal prototipo imposto finiscono per risultare non funzionali al sistema. I soggetti non funzionali, in questa logica, vanno eliminati, ricorrendo ora all'annientamento fisico (come nel nazismo) ora all'emarginazione, attraverso l'annientamento sociale (come nel fascismo). Si tratta precisamente di quanto avviene oggi in materia di immigrazione, esclusione sociale, precarizzazione del lavoro, stigmatizzazione di genere. E in tema di genere, va citata una sottolineatura estremamente interessante che propone l'autore: "il superamento del conflitto di classe attraverso il conflitto tra razze passa dall'inasprimento delle differenze di genere, naturalizzate sulla scorta di schemi tipici del discorso razzista, come quelli circa la comune dimensione del cervello delle donne europee e dei neri" (p. 106). Come a dire: tout se tient, tutto quanto avviene sotto i nostri occhi in termini di discriminazione sessista, razzista, classista ha una matrice comune e facilmente rintracciabile.

Michel Foucault, ricorda Somma, scrisse che lo Stato contemporaneo ha modificato l'oggetto del pactum subiectionis che il contrattualismo aveva teorizzato: ora il potere sovrano decide non più chi lasciar vivere e chi far morire, ma piuttosto chi far vivere (impegnando risorse e mezzi) e chi lasciar morire (abbandonandolo al proprio destino) (p. 46). Paradossalmente, la positivizzazione dei diritti soggettivi prima e dei diritti umani poi ha impresso un'accelerazione a tale processo di inversione, tanto che lo Stato, ora, non può più direttamente uccidere: negli Stati in cui i diritti umani sono "presi sul serio" (e la pena di morte dunque è bandita), il potere politico non può privare per legge qualsivoglia soggetto della propria vita. Ma il riconoscimento dell'inviolabile diritto alla vita tuttavia permette ad esso di condannare indirettamente a morte, non intervenendo laddove risulterebbe necessario per garantire la sopravvivenza. I migranti abbandonati al loro destino, rimpatriati, respinti in mare (senza distinzione alcuna tra donne, minori, rifugiati), i rom sgomberati, i clochards schedati sono vittime sacrificali di quello stesso sistema che riconosceva nelle "razze" e nei gruppi culturali (gli ebrei, gli omosessuali, i rom, e così via) quelli che Judith Butler chiama "gli abbietti", gli esseri umani "pericolosi" per l'ordine costituito, poiché portatori di identità altre, potenzialmente destabilizzanti il sistema.

Il nuovo modello della cittadinanza europea (p. 127 e ss), che attribuisce diritti e doveri non in base alle appartenenze culturali o razziali ma in ragione del possesso di un titolo di soggiorno sul suo territorio, potrebbe più o meno volontariamente produrre degli effetti di scardinamento nei confronti di un sistema fortemente gerarchizzato, al cui vertice vi sono le razze e le identità "degne" e alla cui base rimangono gli abbietti, il "materiale umano di scarto" (S. Forti, "Il Grande Corpo della totalità. Immagini e concetti per pensare il totalitarismo", in M. Recalcati, Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 23-43, alla p. 33). Il controllo sovranazionale nella tutela dei diritti umani, soprattutto sul piano giurisdizionale, di cui l'Europa dispone potrà sicuramente concorrere in modo nuovo, rispetto al passato, alla protezione degli individui dalle pretese arbitrarie, contingenti e mutevoli degli Stati e degli organi nazionali. Ma i rischi, contrari, di un utilizzo della cittadinanza europea come "contenitore" legale delle discriminazioni su base razziale o culturale sono tutt'altro che remoti: la subordinazione che per ora subisce la cittadinanza dell'Unione rispetto alle legislazioni nazionali che regolano l'acquisto delle cittadinanze e i canoni dell'immigrazione legale ne è la prova. Mentre la burocratizzazione e la serialità che caratterizzano l'operato delle amministrazioni europee, e che disumanizzano i grandi numeri degli esclusi dal benessere e dalla sopravvivenza, ne rappresentano il principale campanello d'allarme.

Orsetta Giolo