2011

L. Ferrajoli, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011, ISBN 978-88-420-9646-7

L'ultimo lavoro di Ferrajoli, edito nella collana Anticorpi di Laterza (la medesima in cui sono apparsi Democrazie senza democrazia di Salvadori, La libertà dei servi di Viroli e Liberi e uguali di Urbinati), sostiene la tesi che la nostra democrazia sta attraversando un processo di sistematica svalutazione della sua dimensione costituzionale. I sintomi di un simile depotenziamento sarebbero evidenti: dal torrente di tentate controriforme/aggressioni della Carta del 1948 alla costruzione di un regime (termine che qui adopero come vox media) fondato sul consenso e sulla passiva acquiescenza di una parte sempre più rilevante dell'opinione pubblica. Sintomatico più di ogni altra cosa sarebbe l'insofferenza di un'ampia porzione dell'attuale classe politica all'insieme di limiti e vincoli costituzionali imposti alle istituzioni rappresentative: vale a dire, all'essenza del costituzionalismo stesso. È nel fenotipo dell'attuale democrazia politica italiana che l'autore intravede i sintomi di quella che Michele Ciliberto, nel suo La democrazia dispotica, ha definito una delle patologie dei moderni assetti democratici nella post-politica di massa: l'intolleranza del pluralismo politico e istituzionale, la delegittimazione delle regole, gli attacchi al principio della separazione dei poteri, alle istituzioni di garanzia, all'opposizione parlamentare, alla libera stampa e alla libertà di informazione attiva e passiva.

Ferrajoli individua un nesso biunivoco tra forma rappresentativa e cornice costituzionale della democrazia dei moderni, nonché un rapporto di consanguineità tra le due reciproche crisi nell'Italia della Seconda Repubblica. L'indebolimento strategico dell'elemento legal-costituzionalistico della nostra democrazia a favore della sua voce politica e di un potere rappresentativo che individua nel 'popolo sovrano' e nel voto degli elettori la propria unica, vera fonte di legittimazione, nasconde una deformazione profonda del concetto stesso di rappresentanza. Particolarmente evidente è poi lo sfilacciarsi di elementi fondanti del garantismo giuridico alla base del moderno Stato di diritto: la garanzia, politica, della lealtà dei pubblici poteri e quella, sociale, della vigilanza dei cittadini. Proprio l'assenza di anticorpi culturali e di un adeguato raccordo tra il dentro e il fuori delle istituzioni (in primo luogo, il Parlamento) porta l'autore a richiamare l''esperienza eterna' individuata da Montesquieu nel rapporto tra un popolo e il potere politico che lo governa: ogni potere (anche quello democratico, come ci ricorda Kant), quando lasciato senza limiti e controlli, tende a degenerare in forme assolute, libere da vincoli: a tramutarsi, per l'appunto, in 'poteri selvaggi', nel contesto di un primato del potere sul diritto.

L'intera diagnosi di Ferrajoli prende le mosse da una ricognizione del paradigma della democrazia costituzionale elaborato dai processi di costituzionalizzazione tanto del diritto quanto delle forme di governo democratiche all'indomani del secondo conflitto mondiale. Memori dell'insufficienza di una concezione puramente procedurale della sovranità popolare, le democrazie europee procedettero in quella precipua fase storica ad assoggettare l'intera produzione del diritto, inclusa la legislazione, a norme costituzionali rigidamente sopraordinate a tutti i poteri normativi. È quello che Ferrajoli definisce il completamento del 'modello paleo-positivistico' dello Stato di diritto, caratterizzato invece da un potere virtualmente assoluto delle maggioranze parlamentari. Si produce così un'integrazione decisiva della dimensione politico-formale della democrazia così com'era intesa fino ad allora dalla teoria politica e giuridica e dalla dottrina della Costituzione.

Il costituzionalismo rigido apre il nuovo spazio della dimensione assolutamente inviolabile dei diritti sociali e di libertà - quella che Ferrajoli definisce la «sfera dell'indecidibile» (p. 5).

Con l'innovazione del paradigma paleo-positivistico dello Stato liberale, la legalità stessa cambia natura: si arresta l'onnipotenza della legge mentre del diritto viene ad essere positivizzato non soltanto il suo essere ma anche il suo dover essere, le sue condizioni di validità. I due versanti della democrazia costituzionale sono adesso fondati su due differenti ma complementari agende di diritti: da una parte, i diritti formali di autonomia (politici e civili); dall'altra, quelli sostanziali (di libertà e sociali). Quanto ci è consegnato dal rinnovato paradigma costituzionale è, dunque, il disegno di quella che proporrei di chiamare una 'multi-level democracy', un modello normativo di democrazia costituzionale declinato sui quattro livelli (politico, civile, liberale e sociale) in cui si articola anche il garantismo, presupposto giuridico dell'effettività della democrazia stessa.

Il modello di democrazia costituzionale fino a questo punto rivisitato nella sua articolazione strutturale si contraddistingue, d'altro canto, per il suo carattere meramente normativo e costitutivamente incompleto. Da questa constatazione muove Ferrajoli per rilevare, nel secondo capitolo, alcuni aspetti della specificità patologica della democrazia italiana. Il processo decostituente perpetrato in modo sistematico dalla classe politica del nostro paese è evidente nel vero e proprio «Corpus iuris ad personam» (p. 20) costituitosi negli anni (in violazione del principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge) e nella negazione strategica delle linee di confine tra alcune sfere proprie della modernità giuridica (Stato/popolo, sfera pubblica/privata, partiti/istituzioni, poteri mediatici/libertà dell'informazione e della cultura).

Ferrajoli individua quattro versanti sui quali la crisi dall'alto (da parte, cioè, della classe dirigente) della nostra democrazia è particolarmente evidente. Innanzitutto, la personalizzazione populistica della rappresentanza politica: l'Italia non è in questo un caso isolato, ma la sua specificità patologica è da rinvenire in particolare nell'attuale legge elettorale n. 270 del 2005, che ha deformato l'oggetto stesso della rappresentanza. I rappresentanti oggi tendono a rappresentare, più che gli elettori, coloro che li hanno nominati e che, in deroga a ogni divieto costituzionale di mandato imperativo, ne controllano di fatto l'agire politico. Inoltre, le elevate soglie di sbarramento per le minoranze e lo sproporzionato premio di maggioranza attribuito alla coalizione elettorale che abbia conseguito la maggioranza relativa consentono la finzione giuridica, assai diffusa nella propaganda politica, di leggere la maggioranza relativa come maggioranza assoluta. Infine, la sovente presenza del nome del candidato premier nel simbolo del partito deforma in senso apertamente plebiscitario la democrazia politica.

In questa torsione populista della rappresentanza democratica sembra di poter scorgere la tendenza a 'fantasticare' di essere il popolo stesso propria di quanti, secondo il passo n. 71 del Federalist, ricoprono posizioni di guida in democrazia. L'idea stessa, anticostituzionale e anti-rappresentativa, del capo celebrato quale incarnazione della volontà popolare, eletto dalla maggioranza degli italiani e immaginato come una sorta di macro-persona collettiva, dà luogo a una raggiera di sfregi, aperti e strategicamente disseminati, nei confronti dei limiti legali e costituzionali al potere di governo e nei confronti della funzione di controllo della magistratura, del dibattito parlamentare e delle procedure di gestione dell'ordinaria amministrazione, mossa sempre più dalla logica dell'eccezione e della perenne emergenza. Ferrajoli rievoca le bellissime pagine di Das Wesen und Wert der Demokratie di Kelsen, laddove si afferma che la democrazia 'implica assenza di capi': i capi democratici sono da sempre animati dalla tendenza a interpretarsi come diretti interpreti della volontà autentica del popolo sovrano, nel tentativo di fondare il proprio potere su una base ulteriore di legittimazione. Ma, come ha scritto Nadia Urbinati (La democrazia non ha un altrove, «il Mulino», 2/2010, pp. 199-214), il problema delle democrazie liberal-costituzionali risiede non tanto nei molti quanto nei pochi: è il rapporto dei pochi con il kratos, più che l'essenza del demos, a deformare molto spesso il volto delle democrazie contemporanee e a depotenziarle pur mantenendone intatta la natura elettoralistica. Affermare che la maggioranza (di qualsiasi colore politico essa sia) e il suo capo incarnino la volontà del popolo significa negare di fatto la mediazione rappresentativa alla base della tesi, descrittiva ancor prima che normativa, dell'art. 67 della Costituzione italiana («Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»).

Un secondo indice della crisi 'dall'alto' della democrazia italiana è dato, a giudizio di Ferrajoli, dalla progressiva erosione dei confini tra le sfere costitutive, secondo il costituzionalismo intrinseco al moderno Stato di diritto, delle odierne forme di governo democratiche multilivello. La subordinazione degli interessi pubblici a quelli privati è divenuta, col tempo, una sorta di nuova Grundnorm alla base di fenomeni endemici ormai trasversalmente diffusi in molti ordinamenti democratici. Il rapporto malato tra denaro, informazione e politica (messo in luce anche da Salvadori con riferimento alle plutocrazie finanziarie e al loro oligopolio delle campagne elettorali, soprattutto statunitensi, secondo quanto rilevava già John Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 14-15.) assume, però, in Italia i connotati spinti di una forma di regressione pre-moderna allo Stato patrimoniale combinata alla fascinazione populistica. È, dunque, un 'patrimonialismo populista' (o un 'populismo padronale') a depotenziare le istituzioni nella logica di una feudalizzazione dell'agone politico, in cui viene rivisitato e privatizzato quel rapporto protectio/oboedientia su cui si fondavano gli Stati sovrani westfaliani dello jus publicum Europaeum classico. All'insieme di individui che decidono di rinunciare alla libertà assoluta propria dello stato di natura in cambio della protezione da parte del sovrano, si sostituiscono ora quei deputati e rappresentanti istituzionali che giurano una fedeltà interessata a quanti ne controllano le carriere politiche (con variazioni sul tema curiose quali la compravendita dei voti dei parlamentari per la formazione delle maggioranze parlamentari).

Ferrajoli evidenzia anche la crescente integrazione (e confusione) tra partiti e Stato, tra organizzazioni politiche e istituzioni pubbliche elettive, con la conseguente perdita del ruolo di mediazione rappresentativa dei corpi intermedi di tipo politico. È, infatti, un errore gravissimo sul piano della cultura costituzionale, ancor prima che su quello dell'etica pubblica e della cultura civica, avvallare l'idea di un'identificazione progressiva tra burocrazie di partito e vertici delle istituzioni rappresentative: i partiti, per loro natura (ed etimologia), sono espressione degli interessi di una parte della cittadinanza, e l'assenza stessa di garanzie della loro democraticità interna ne rende particolarmente pericolosa la trasformazione in istituzioni parapubbliche. La patogenesi della rappresentanza politico-partitica odierna emerge anche dai processi stessi della sua formazione - sempre più per cooptazione e auto-candidature -, in cui molte volte i conflitti tra interessi sono più che mai evidenti, e dal mutamento di status dei parlamentari, ridotti, da rappresentanti del popolo e della Nazione, in cortigiani e in portatori di Vertretung.

Infine, l'intreccio tra i due assolutismi che corrodono l'assetto strutturale della democrazia costituzionale italiana - populismo e patrimonialismo - conduce allo sfilacciarsi di un'ulteriore separazione propria della modernità giuridica: quella tra sapere e potere, e, più in particolare, tra poteri pubblici e privati e informazione. Esiste in Italia la libertà negativa di stampa e di informazione, ma mancano garanzie di un'effettiva indipendenza della grande informazione: tanto del diritto attivo di libertà dei giornalisti quanto del diritto passivo alla non-disinformazione. Si registra soprattutto la duplice patologia del controllo politico e di quello proprietario dell'informazione. Viene così a perdersi quella distinzione tra poteri politici e poteri culturali in cui risiede una delle premesse costitutive del liberalismo. Inoltre, come ha sottolineato di recente anche Nadia Urbinati (La democrazia non ha un altrove, cit.), pesa come un macigno la questione, ignorata dalle Costituzioni nate nel secondo dopoguerra, del rapporto tra libertà d'informazione e proprietà dei media. La proprietà rischia sempre più di fagocitare la libertà, di opprimerla, di inglobarla, di schiacciarla, contribuendo ad ampliare un vulnus già profondo nella trama formale e sostanziale dei nostri assetti democratici.

Ma è sul versante bottom-up della crisi della democrazia costituzionale italiana dalla parte (e ad opera) dei rappresentati che le osservazioni di Ferrajoli si rivelano particolarmente stimolanti. L'autore muove da una premessa di pessimismo insieme antropologico e istituzionale: spesso le democrazie possono essere depotenziate sul loro stesso terreno, utilizzandone gli 'interstizi' o le 'zone grigie' per accentuarne gli elementi cripto-autoritari. L'idea del popolo sovrano e custode attento delle proprie istituzioni è una fragile illusione: la società e l'opinione pubblica possono essere profondamente plasmate dalla politica nel momento in cui vengono a mancare le garanzie dei diritti fondamentali, la tutela del pluralismo nello spazio politico-pubblico e l'indipendenza dell'informazione. Anche all'interno di questo contesto il filosofo del diritto individua quattro sintomi evidenti di quella che, con Ciliberto, chiamo 'democrazia dispotica'.

Innanzitutto, la denigrazione del dissenso e la parallela omologazione dei consenzienti: per porla in altri termini (legati più alla dimensione del demos che a quella del kratos), alla massima verticalizzazione dei poteri si affianca una disgregazione profondissima della società, dovuta in primo luogo all'acuirsi delle diverse linee di frattura al suo interno e al venir meno di ogni forma di solidarietà sociale. Quello che, sul piano più strettamente politico, si configura come omologazione organicistica e identitaria, colonna portante del populismo e della mobilitazione plebiscitaria dei cittadini, sul versante sociale diviene esclusione strategica e sistematica dei dissenzienti dall'arena dell'unica volontà popolare ritenuta legittima, sulla base di una rivisitazione post-moderna del dualismo schmittiano Freund/Feind.

La depressione dello spirito pubblico si palesa, oltre che attraverso la paura del diverso, anche nella riconfigurazione selvaggia del panorama giuslavoristico e nella quotidiana 'dis-educazione di massa': l'anti-cultura, esattamente come l'anti-politica, viene legittimata come democratica perché popolare.

In seconda istanza, a indebolire la rappresentanza politica è intervenuta, e tuttora interviene, la spoliticizzazione di ampi porzioni dell'elettorato, emersa a vari livelli: dall'astensionismo all'antipolitica, dal qualunquismo all'esaltazione dell'individualismo egoistico (ben diverso, come aveva capito molto bene J. S. Mill, dal rispetto, sacro in democrazia, dell'individualità). Ne deriva un indebolimento complessivo del senso civico nonché un eclissarsi dell'opinione pubblica e dell'esercizio del giudizio politico da parte degli elettori. Far scomparire il pubblico dall'orizzonte mentale e culturale dei cittadini e rinforzare quanto più possibile la priorità e l'interesse della dimensione individuale o di gruppo (la famiglia, l'appartenenza religiosa/etnica/nazionale): questo l'obiettivo perseguito da un potere politico che riversa e moltiplica nella società, in virtù di un isomorfismo tra dimensione macro e micro, i conflitti di interessi esibiti al vertice dello Stato.

Terzo fattore di crisi dal basso è la desertificazione della partecipazione politica, in primo luogo attraverso il medium costituzionale dei partiti: le forme, le sedi e le occasioni del contributo attivo dei cittadini - il loro passaggio, cioè, da cittadini-lettori/spettatori a cittadini 'democratici' nel senso più pieno del termine - subiscono una metamorfosi degenerativa evidente nella scarsa partecipazione dei giovani alla vita partitica, nella crisi del reclutamento del personale politico e nell'impermeabilità dei partiti alle sollecitazioni provenienti dalla società.

Ma l'interazione strettissima tra involuzione istituzionale e senso comune emerge ancora più esplicitamente dal rapporto tra manomissione dell'informazione e declino della morale pubblica. Il duplice controllo, proprietario e politico, che viene esercitato sull'informazione concorre a trasformare un diritto fondamentale per una democrazia costituzionale in una fabbrica del consenso e acuisce in modo abnorme la crisi della libertà democratica: se certo non esiste un diritto alla 'vera' informazione, in quanto sarebbe in contrasto con la libertà di informazione, esiste però un diritto negativo alla non-disinformazione. I cittadini democratici dovrebbero essere tutelati dalla manipolazione delle notizie: una libertà negativa che si configura come corollario della prima libertà fondamentale affermatasi nella storia del liberalismo, cioè quella di coscienza e di pensiero, nonché, come rilevato da Ferrajoli, «una pre-condizione elementare dell'esercizio consapevole del diritto di voto e della formazione di un'opinione pubblica informata e matura, [...] presupposto diretto della democrazia politica e della sovranità popolare» (pp. 56-57).

Quali possono essere, a questo punto, le prospettive di intervento?

È su un piano insieme politico e culturale che Ferrajoli propone di combattere gli attuali processi di svuotamento e depotenziamento (dall'alto e dal basso) della rappresentanza democratica in Italia: come argomenta, infatti, anche nella conclusione del libro, il futuro della nostra democrazia costituzionale consiste proprio nel recuperare la duplice consapevolezza che si dà un nesso culturale tra Costituzione e democrazia e che lo sviluppo della cultura è elemento propedeutico ineludibile per la vita di una comunità autenticamente e criticamente democratica. Rifondare nel senso comune i valori del costituzionalismo: un obiettivo arduo ma non impossibile da conseguire e che non può, né deve, correre separatamente rispetto a un'azione sul piano delle tutele giuridiche. Ferrajoli prospetta, a questo proposito, quattro piani di riforma finalizzati all'espansione e al rafforzamento del paradigma normativo della democrazia costituzionale.

In primo luogo, l'autore torna a individuare nella legge elettorale n. 270 del 21.12.2005 «uno dei principali fattori di dissoluzione della rappresentanza popolare» (p. 60), che premia la 'maggiore minoranza'. La riforma elettorale che Ferrajoli ha in mente dovrebbe aggredire due versanti del problema: da una parte, vietare l'indicazione (prevista dalla legge attuale) anche nelle schede elettorali del nome del capo della coalizione, così da arginare quella personalizzazione e leaderizzazione della politica affermatasi prepotentemente nel corso della Seconda Repubblica. Dall'altra parte, vi è l'urgenza di una reintroduzione del metodo proporzionale: esso contribuisce in modo determinante a preservare il pluralismo fisiologico di ogni sana e autentica democrazia politica, rispecchiando nelle aule parlamentari la complessità della società e delle sue sfere di interessi e configurandosi come un antidoto potente alle finzioni giuridiche di maggioranze più o meno reali, alle 'involuzioni organicistiche', alle degenerazioni populiste e monocratiche che si determinano sul terreno di una rappresentanza sempre più verticalizzata e personalizzata. Il sistema proporzionale è, in questo senso, l'unico capace di inverare quel sistema parlamentare disegnato dalla Costituzione del '48. Che la maggior parte delle attuali forze politiche, tanto di destra quanto di sinistra, si schieri ancora a difesa del maggioritario, costituisce una delle principali ferite di quella cultura costituzionale (assente) che l'autore aveva denunciato, nelle prime pagine del testo, come l'orizzonte entro cui leggere l'azione e la perpetrazione dei poteri selvaggi.

In seconda istanza, occorre ridisegnare una struttura istituzionale capace di soddisfare le diverse funzioni garantiste della democrazia costituzionale attraverso un recupero di tre linee di confine fondative della modernità giuridica: quelle tra Stato e società, tra sfera pubblica e sfera privata, tra governo e istituzioni di garanzia (cui aggiungere, come vedremo oltre, quella tra poteri e libertà d'informazione). La prima distinzione da riacquisire concerne i poteri politici e quelli economici: incompatibilità di questo tipo sono previste dall'ordinamento italiano da garanzie primarie o sostanziali, ma risultano non effettive a causa dell'assenza di garanzie secondarie o giurisdizionali affidate a istituzioni di garanzia indipendenti ed esterne all'organo rappresentativo (sul modello del Tribunal Electoral del Poder Judicial e dell'Instituto Federal Electoral istituiti in Messico nel 1996).

La seconda distinzione attiene, invece, all'incompatibilità tra cariche di partito e cariche pubbliche elettive: prevedere che chi si candida alle funzioni rappresentative nelle istituzioni debba lasciare le cariche di partito (e viceversa) costituirebbe, nella 'democrazia possibile' di Ferrajoli (riprendo qui il titolo del provocatorio libro di R. Dworkin, La democrazia possibile, Feltrinelli, Milano 2007), un avanzamento qualitativo non indifferente del nostro attuale ordinamento sul terreno della trasparenza, dell'accountability e della rappresentatività.

Infine, occorre prendere consapevolezza dei limiti e dell'inadeguatezza della classica tripartizione montesquiviana dei poteri alle democrazie liberal-costituzionali del XXI secolo, sul piano tanto descrittivo quanto assiologico. Più che di esecutivo-legislativo-giudiziario, urge oggi ragionare del rapporto tra funzioni/istituzioni di governo e funzioni/istituzioni di garanzia, legate a due diverse tipologie di fonti di legittimazione: rappresentatività politica per le prime e soggezione alla legge e all'universalità dei diritti fondamentali stabiliti e tutelati dalla Costituzione per le seconde. Da questo punto di vista, intervenire sulla ormai storica dipendenza della 'Pubblica Amministrazione' dall'esecutivo costituirebbe un altro segnale particolarmente importante di miglioramento degli assetti costituzionali della nostra democrazia.

Il terzo versante sul quale intervenire è quello della democraticità interna dei partiti, nel quadro di un maggiore consolidamento delle forme di democrazia partecipativa. La moderna democrazia di massa, come evidenziato dallo stesso Leibholz negli anni Trenta, si fonda interamente sui partiti, paragonabili, nelle forme di governo parlamentari, a fiumi sotterranei che scorrono paralleli per riversarsi in Parlamento come in un unico letto (questa la bellissima immagine kelseniana). Il problema, oggi, è dato, per dirla con Schmitt, dalla mutata 'condizione storico-spirituale' della nostra democrazia costituzionale: come ha acutamente messo in luce Ciliberto ne La democrazia dispotica, il nostro tempo non è più quello della politica di massa. Siamo cittadini democratici nell'era della post-politica di massa: da qui dobbiamo partire se vogliamo prendere sul serio la crisi di credibilità e di autorevolezza dei partiti e tentare di porvi rimedio. Restituire al partito il suo ruolo costituzionale di organizzazione dal basso della partecipazione dei cittadini alla vita politica, come auspicato da Ferrajoli, non è cosa facile: occorre scardinare la visione delle organizzazione partitiche quali «diaframmi corporativi e burocratici» (p. 73) tra istituzioni e società e ripristinarne la funzione di associazioni di base capaci di mobilitare l'impegno collettivo e la passione politica. Occorre attuare pienamente anche all'interno dei partiti quel 'metodo democratico' invocato dall'art. 49, prevedendo alcuni essenziali requisiti come condizione del finanziamento pubblico. Si tratta di un'operazione culturale, ancor prima che politica e giuridica: la legittimità delle forze politiche deve essere fondata sulla loro capacità di (ri)aprirsi alla società, di interpretarne le domande (sopite) di partecipazione ai processi decisionali, di superare la propria impermeabilità anche attraverso l'eteronomia di una legge statale (oltre che per mezzo di una riforma degli ordinamenti statutari interni).

Infine, il quarto ordine di riforme riguarda il superamento del duplice controllo, politico e proprietario, sui media e, in particolare, sul sistema televisivo. Si tratta di una doppia patologia che necessita di essere combattuta, in primo luogo, ribadendo l'incompatibilità tra funzioni politiche e grandi interessi privati di rilevanza pubblica; in secondo luogo, occorre vietare la concentrazione delle testate in modo assai più rigido e puntuale di quanto non preveda l'attuale legislazione. Bisogna, però, anche ripensare e ribaltare il rapporto tra libertà fondamentale di/diritto all'informazione e proprietà dei media, spingendosi oltre la mera questione informazione vs. poteri di governo. Nell'era in cui la televisione si è fatta spazio pubblico per eccellenza, assistiamo a un drammatico capovolgimento della gerarchia costituzionale dei diritti: la libertà d'informazione e di espressione del pensiero è vincolata al diritto-potere patrimoniale dell'impresa giornalistica o televisiva. Ma lo Stato di diritto e la sua tradizione teorica ci insegnano anche che due sono le regole cui ogni potere deve sottostare per evitarne la deriva assolutistica: la sua soggezione alla legge e un rapporto di pacifica e rispettosa separazione dagli altri poteri dello Stato. Su questo secondo terreno, Ferrajoli nota in modo molto opportuno come il c.d. 'quarto potere', che è oggi è costituito dalla televisione ben più che dalla stampa, per essere veramente tale, cioè indipendente, deve risultare altro rispetto tanto a quello politico quanto a quello economico di proprietà. Rivendicare uno Statuto dei diritti dei giornalisti e dei lettori, ad esempio, potrebbe consentire l'introduzione di numerose e fondamentali garanzie. Permetterebbe un rafforzamento dell'indipendenza delle redazioni e una distinzione qualitativa tra informazione pura e commerciale anche la previsione di un finanziamento pubblico delle testate in misura proporzionalmente inversa agli introiti pubblicitari e agli spazi riservati alla pubblicità.

È proprio nelle pagine conclusive, laddove si riflette sul futuro della nostra democrazia, che Ferrajoli propone un rafforzamento della rigidità costituzionale che metta al sicuro la Costituzione da ogni progetto di grande riforma da parte delle maggioranze di turno e rivisiti l'articolo 138 in tre direzioni. Si dovrebbe innalzare la maggioranza qualificata richiesta per qualunque revisione ai ¾ o quantomeno ai 2/3 dei componenti delle Camere; occorrerebbe sottrarre al potere di revisione (come già previsto da una sentenza della Corte Costituzionale del 1988) i 'principi supremi dell'ordinamento' (ivi compresi quelli di uguaglianza e di separazione dei poteri, nonché tutti i diritti fondamentali), consentendone soltanto un rafforzamento e un'espansione; bisognerebbe, infine, ribadire la natura di potere costituito, e non costituente, del potere di revisione costituzionale, escludendo concretamente la possibilità di proporre riforme dell'intera Costituzione o di parti rilevanti e/o complesse della stessa e prevedendo la sola ammissibilità di emendamenti a determinate norme costituzionali.

Dopo una stagione ormai ventennale di deriva populista e di personalizzazione della dialettica politica, la difesa della Carta del '48 deve procedere di pari passo alla costruzione, anche nelle nuove generazioni, di una cultura costituzionale più sofisticata, capace di alimentare una concezione della democrazia quale sistema fragile e complesso di checks and balances, di limiti e garanzie. Per ricostruire la 'democrazia possibile' del nostro tempo, da qui, per Ferrajoli, occorre ripartire.

David Ragazzoni