2009

J.A. Schumpeter, Sociologia degli imperialismi e teoria delle classi sociali, Ombre corte, Verona 2009, pp. 152

Il volume, curato e prefato da Adelino Zanini, presenta due lunghi saggi di Joseph Schumpeter, entrambi già editi in lingua italiana nel lontano 1972, per i tipi di Laterza. Il primo saggio venne pubblicato da Schumpeter nel 1918-19 con il titolo "Zur Soziologie der Imperialismen", mentre il secondo, "Die sozialen Klassen in ethnisch homogenen Milieu", apparve nel 1927. Entrambi furono ospitati dall'Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik. I due saggi sono stati per lungo tempo ignorati sia dai sociologi che dagli economisti, finché Paul M. Sweezy non ne ha curato nel 1951 una edizione inglese congiunta, Imperialism and Social Classes. La raccolta ha suscitato notevole interesse, confermando l'idea che Schumpeter aveva di questi suoi scritti, come fra i più importanti che egli avesse pubblicato. Dei due saggi, non c'è dubbio che è stato il primo ad essere oggetto di una discussione più ampia, sia perché strettamente legato a un tema di grande rilievo politico - il rapporto fra capitalismo e imperialismo -, sia per l'originalità dell'indagine socio-economica e il carattere oggettivamente provocatorio della tesi centrale sostenuta.

La tesi avanzata da Schumpeter in questo primo saggio è che il capitalismo è di per sé un sistema antimperialistico. In un regime di libero scambio, egli sostiene, è assente una classe sociale che possa essere interessata all'espansione aggressiva. La borghesia capitalistica è un ceto essenzialmente pacifico, per la semplice ragione che essa è interessata alla crescita economica, al commercio e agli affari, e non all'espansione territoriale, alla conquista militare e alla guerra. L'imperialismo è un residuo del passato, di classi dirigenti e caste militari ereditate da società precapitaliste o, al più, protocapitaliste, che hanno perseguito l'espansione per l'espansione, la lotta per la lotta, la vittoria per la vittoria, la supremazia per la supremazia.

L'imperialismo, dagli imperi antichi al colonialismo moderno, è sempre stato caratterizzato da un uso della violenza privo di scopi immediati e concreti, senza connessioni precise con interessi economici. L'imperialismo è stato l'espressione di pulsioni primitive, ataviche, recessive, profondamente irrazionali: la passione per la lotta, l'egoismo sfrenato, la sete dell'odio, il bisogno di autoglorificazione e di affermazione violenta di se stessi, l'istinto del dominio, l'ansia di dedizione a qualcosa di sovrapersonale, a una realtà in qualche modo di trascendente (cfr. p. 6). Basti pensare alla inaudita crudeltà delle stragi dei nemici praticate dagli imperi antichi, in particolare dall'impero mondiale assiro: gli "stranieri" erano prede di un cupo fanatismo, di un odio sanguinario che nessun vantaggio concreto poteva minimamente esaudire. Tutto questo, sostiene Schumpeter, è stato radicalmente superato - e per sempre - dall'avvento dell'economia capitalistica: per il capitalismo l'espansione violenta, "priva di oggetto" è, come tale, priva di senso. Il capitalismo è "per essenza" antibellicista e antimperialista.

Se è così, sostiene Schumpeter, è facile prevedere che l'impulso imperialistico a poco a poco scomparirà grazie all'espansione capitalistica, travolto da nuove esigenze vitali e da fattori concorrenziali che assorbiranno le energie degli individui. Non ci saranno più quegli eccessi di energia che si scaricavano nella guerra e nella conquista. Quella che un tempo era energia bellica si sarebbe ridotta ad energia lavorativa e la guerra sarebbe stata percepita come un perturbamento sgradevole, distruttivo e deviante. L'economia di mercato, in definitiva, avrebbe forgiato tipi umani caratterizzati da una disposizione non-bellicista, da una ostilità di principio nei confronti della guerra, degli armamenti, degli eserciti di mestiere (pp. 60-1). Non è un caso - conclude Schumpeter - che gli Stati Uniti d'America, il paese occidentale che meno risente di impulsi atavici, sia la potenza capitalistica più lontana da tentazioni imperialiste, la più favorevole al disarmo e all'arbitrato, sempre pronta a sottoscrivere trattati di limitazione degli armamenti (pp. 63-4).

A quasi un secolo di distanza dalla stesura di questo saggio di Schumpeter - scritto alla fine della prima guerra mondiale -, quello che si può dire è che si tratta di un testo tanto accurato, sofisticato e profondo nell'argomentare la propria tesi centrale - l'essenza pacifista del capitalismo - quanto contraddetto dai fatti. Da questo punto di vista Schumpeter non conferma la sua fama di economista-sociologo fra più acuti e profondi della prima metà del Novecento: una fama comunque largamente meritata, basti pensare al suo capolavoro Capitalism, Socialism, and Democracy. Quello che resta innegabile - come Schumpeter aveva previsto - è che il capitalismo si è espanso sempre più rapidamente sino a diventare un modello produttivo efficientissimo e senza concorrenti. Quello che oggi chiamiamo "globalizzazione" non è che il processo di espansione planetaria dell'economia di mercato sotto l'egida delle grandi potenze occidentali, in primis degli Stati Uniti d'America. Ma le guerre di aggressione non solo non sono scomparse, ma non si sono neppure ridotte di numero e anzi sono cresciute per dimensione e capacità distruttiva: sono diventate "guerre globali", assumendo persino le false vesti di "guerre umanitarie".

Schumpeter non è stato in grado di prevedere un'ampia serie di fattori che avrebbero contraddetto le sue previsioni pacifiste e non-imperialiste: la finanziarizzazione dell'economia di mercato, l'emergere delle grandi corporations internazionali, incluse le holdings dei produttori di armi di distruzione di massa, la divisione del mondo in un direttorio di paesi ricchi e potenti e in una grande maggioranza di paesi poveri e deboli, l'imponente riduzione delle risorse energetiche, l'emergere degli Stati Uniti come la sola, soverchiante potenza militare, impegnata a sottoporre il mondo intero alla sua strategia egemonica e a condizionarlo al suo benessere economico, assunto come una variabile indipendente. Il capitalismo si è rivelato, per sua essenza, non pacifista, ma al contrario bellicista e sanguinario. E gli Stati Uniti - secondo la lungimirante previsione di Carl Schmitt in Der Nomos der Erde - si sono rivelati come una potenza neo-imperiale legibus soluta, sempre pronta a usare la forza delle armi - e a praticare la tortura ai nemici prigionieri - per realizzare i propri progetti egemonici ed espansionistici. Il realismo politico schmittiano ha travolto l'ottimismo capitalistico schumpeteriano.

Danilo Zolo