2005

D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, Ombre Corte, Verona 2004, pp. 308, ISBN 880-87009-47-3

Attraverso "Il Nordest e il suo Oriente" Devi Sacchetto accompagna il lettore nell'analisi delle diverse esperienze che hanno segnato l'Europa orientale negli ultimi dieci anni. Dopo aver affrontato i problemi che l'individualità pone al pensiero sociologico, e con ciò definito i termini da utilizzare nella ricerca, l'A. affronta i casi del Kosovo e della Romania per giungere al Nordest italiano, zona di esportazione e di lavoro migrante proveniente dall'Europa orientale. Un'Europa orientale che sembra attenuare i suoi confini, estendendosi sia in forza dell'espansione verso Oriente del capitale migrante, sia a seguito dei movimenti migratori verso Occidente. In questo quadro di allentamento dei confini fanno la loro comparsa nuovi e diversi comportamenti, fughe e lotte di soggetti protagonisti del presente stato di cose. Durante e dopo le guerre nell'ex Jugoslavia entrano in scena migranti e capitali migranti, si consumano e si riproducono nuovi confini, operano azioni umanitarie e nuove politiche migratorie europee. Il socialismo reale lascia libera la scena a nuovi assetti privati della proprietà e della produzione, ma non senza dolore, bensì attraverso guerre, come afferma in un intervista un giovane bosniaco emigrato in Italia: "Da noi tutte le fabbriche erano di proprietà dello Stato, non è come qua che tutto è privato. Adesso anche da noi è così; è per quello che abbiamo fatto questa guerra" (p. 89). A partire dai comportamenti e dalle esperienze di questi soggetti vengono messe a fuoco le modalità attraverso le quali un'ampia fascia di popolazione, soggetta in precedenza a diverse normazioni sociali e del lavoro, viene introdotta nella scena internazionale e messa al lavoro secondo nuovi codici di fabbrica. Sembra venir meno il carattere progressivo e "liberatorio" che il capitale internazionale pretende di introdurre nell'Europa orientale. La stessa avanzata del capitale internazionale trova ostacoli sul suo cammino, deve fare i conti con donne e uomini che oltrepassano confini (i confini possono essere quelli geografici, ma anche quelli sociali e culturali, o quelli che separano diversi livelli salariali), migranti che non seguono le parti loro assegnate nel lavoro e non si lasciano ridurre ad appartenenze etniche o comunitarie: gli spostamenti di capitali verso l'Europa orientale ricalcano le orme - e le ombre - della conflittualità o della disponibilità operaia fuori e dentro le fabbriche.

Le organizzazioni internazionali (statali e non statali, le ONG e l'insieme dell'apparato che sostanzia l'azione umanitaria) sono i principali artefici della trasformazione dei comportamenti in tema di lavoro. Si tratta di una "vera e propria iniziazione capitalistica privata" (p. 47) dell'Europa orientale che opera sulla scena mutata dalle guerre. Una mutazione della scena sociale e culturale che viene ricostruita attraverso la categoria di cerimonia di degradazione, introdotta da Harold Garfinkel. Con cerimonia di degradazione va intesa quella messa in scena tesa all'umiliazione e all'abbassamento del grado sociale di individui appartenenti a diverse comunità, e quindi anche la modalità attraverso la quale vengono definite appartenenze secondo tratti etnici. Durante la guerra divenne incerto il ruolo del possessore del capitale a cui non si rispondeva in quanto capitalista, bensì secondo lo schema amico-nemico. Quello a cui si assistette fu la limitazione - o l'annullamento - dell'agibilità politica della classe operaia, attraverso una separazione etnica che attraversò e frammentò qualsiasi possibile collettività di classe. Si trattava di essere produttori per una patria, al fine di riformulare un ordine che doveva implicare un altro modo di stare dentro e fuori la fabbrica, che non doveva prevedere la possibilità di prese di parola di classe. La separazione etnica e le demarcazione di comunità segnavano (e segnano ancora oggi) linee gerarchiche nel lavoro e nella società per le quali è richiesto riserbo privato e massimo silenzio in ossequio alla svalorizzazione delle capacità lavorative (mentre dal punto di vista soggettivo il superamento del confine coincide con lo sforzo del migrante di valorizzare se stesso), di cui necessita il modello di accumulazione del capitale strutturatosi dopo gli anni Sessanta e Settanta. Questa separazione etnica non si manifesta però esclusivamente in maniera violenta (attraverso la pulizia etnica o lo stupro etnico). Nei paesi occidentali, ad esempio, la costruzione politica del lavoro migrante separa secondo linee gerarchiche individui muniti di passaporto diverso; in questo caso la degradazione si esprime frequentemente attraverso la definizione nel lavoro e nelle condizioni di vita di confini che incasellano gli individui legandoli a specifici tratti etnici: "l'etnicizzato è sostanzialmente un essere relegato negli spazi del privato; egli è privato, ossia escluso dalla possibilità di fare politica" (p. 67). Il discorso pubblico che si avvale di parole "etniche" assoggetta i migranti a un assordante silenzio che rende afone le pretese individuali di migliorare le proprie condizioni di vita. Quello che segue alle guerre nell'ex-Jugoslavia è dunque un quadro contraddittorio: all'allentamento dei confini dell'Europa attraversata da movimenti collettivi di lavoratrici/lavoratori migranti segue la riproduzione di nuovi confini indispensabili alla divisione internazionale del lavoro che vuole essere imposta attraverso lo spostamento di capitali.

In questo senso l'A. sottolinea con particolare forza come il processo di accumulazione in corso svaluti progressivamente il lavoro femminile. In tutti i paesi dell'Europa orientale le donne sono tra i soggetti più penalizzati dal nuovo ordine politico e del lavoro, e per le donne il rifiuto della posizione di inferiorità a cui sono relegate si presenta come un tentativo di ribellione che, svolto individualmente, assume nelle migrazioni una valenza collettiva. Per le donne migrare segnala un duplice significato d'emancipazione: da un lato dalla miseria e dai bassi salari e, dall'altro, dal ritorno di forme di patriarcato e di costrizione familiare. Un'emancipazione che trova nei paesi d'arrivo nuovi confini giuridici, sociali e culturali a cui le donne - come gli uomini che migrano - devono adeguarsi. Tuttavia, è un adeguamento che si continua a rifiutare perché spesso degrada e impedisce l'espressione della singolarità, ovvero di quelle caratteristiche specifiche che definiscono le possibilità di agire e di parlare di ogni singolo individuo. La singolarità si costituisce quindi come impossibilità di replicabilità di un individuo, il suo essere irriducibile a uguaglianza. In questo senso per Sacchetto non è praticabile una sociologia che parta dalla considerazione della replicabilità formale degli individui. Occorre piuttosto porre l'accento sulla singolarità che le comunità cercano costantemente di ridurre a comportamento ordinato, e che invece trova espressione in movimenti collettivi. Si tratta quindi, anche nel pensiero sociologico, di ripensare il nesso (e la tensione) tra individuo e collettivo alla luce delle migrazioni. Il migrante che rompe con la comunità di origine non può diventare uguale nella società di arrivo, ma si scontra qui con nuovi confini e gerarchie di valore costruite politicamente attorno alla figura del lavoro migrante.

Superati i confini che attraversano l'Europa e spostato lo sguardo dall'Oriente al Nordest, emerge nelle politiche migratorie il carattere di gestione politica del mercato del lavoro che limita la libertà dei migranti. In Italia la legislazione in materia, vincolando in maniera ferrea il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, contribuisce a sancire concretamente il valore del lavoro migrante e il prezzo a cui esso è chiamato a vendersi. Con il contratto di soggiorno i migranti si trovano così in un "altro mercato del lavoro". I migranti divengono ricattabili, sono cioè costretti, per garantirsi il soggiorno, ad accettare condizioni di lavoro "in cui l'inferiorizzazione diventa un processo sociale costitutivo della possibilità della loro presenza" (p. 221). Essi devono innanzitutto avere un permesso di soggiorno in mano prima di poter tentare di migliorare le proprie condizioni di lavoro, ma per avere il permesso devono prima accettare un contratto e garantire così una determinata erogazione di lavoro. La funzione di erogatore di lavoro diviene l'unico elemento portante della vita del migrante. Siamo di fronte a una situazione che si inserisce in maniera adeguata nella risposta politica che le grandi imprese hanno dato alla lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta. La risposta fu quella di "meridionalizzare" la produzione, cioè di diffonderla territorialmente rompendo "l'unità operaia". Furono introdotte forme del lavoro spazialmente separate e la produzione snella improntata al just in time. Se la produzione snella, dal lato del capitale, si configura come un'ulteriore razionalizzazione del processo produttivo al fine di eliminare perdite, scarti e inutili scorte; per l'operaio si fonda sulla richiesta alla forza lavoro di una costante disponibilità a soddisfare le esigenze della catena produttiva. I distretti industriali del Veneto si caratterizzano per la costruzione guidata di forme di cooperazione "gerarchizzata" indispensabile al coordinamento reale del just in time. Allora le ideologie del post-fordismo e del successo individuale nascondono una condizione di vita ben diversa, caratterizzata dall'aumento progressivo del tempo comandato attraverso la diffusione delle regole della fabbrica nella società e nella vita privata. Questo non comporta solamente una maggiore intensità di sfruttamento del lavoro (migrante e non), ma - in ragione della proliferazione di contratti (e di differenze salariali) e della presenza di forza lavoro divisa da linee "comunitarie" - anche la separazione del collettivo operaio. Se a partire dal secondo dopoguerra il lavoro funzionava come veicolo d'accesso ai diritti, ora viene rovesciato nel suo opposto: il lavoro (e le sue diverse figure e mansioni) funziona da confine, riproduce distanze culturali e sociali, e riduce al silenzio la comunicazione politica tra gli operai.

Non come conclusione, ma come premessa di possibili percorsi di ricerca, dallo studio dei tentativi individuali di emancipazione che trovano espressione nei movimenti collettivi Sacchetto pensa la categoria di migrazione non solo come "questione di fuga" da condizioni di vita insoddisfacenti, ma anche come "un più chiaro segnale di exit dal lavoro dato come a tempo indeterminato: un exit dal lavorare per forza" (p. 262).

Matteo Battistini