2005

J.E. Stiglitz, The Roaring Nineties. A New History of the World's Most Prosperous Decade, Norton, New York 2003, trad. it. I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell'economia, Einaudi, Torino 2004, ISBN 88-06-17063-5

Ruggivano quegli anni Novanta in cui la tecnologia e la finanza ricevevano le stesse attenzioni che prima venivano riservate agli sportivi e agli attori, in cui i manager alla Bill Gates, come i detentori di cariche pubbliche, su tutti il presidente della Fed Alan Greenspan battezzavano la nuova epoca lustrale della globalizzazione. Ma l'apologia dell'economia immateriale che privilegiava il lavoro intellettuale su quello industriale, il pacifico scambio di idee nella concertazione tra le parti sociali alla tragica conflittualità della fabbrica, nell'ottica di una redistribuzione del reddito e della creazione di nuova occupazione, supportata da un nuovo diritto del lavoro e della proprietà intellettuale, ha conseguito ben altri risultati che una società panglossiana di ottimisti e tolleranti filosofi dell'intelligenza collettiva.

Da presidente del consiglio dei consulenti economici di Bill Clinton, Joseph Stiglitz descrive quegli anni in cui i democratici riuscivano a seppellire l'immagine del tax and spend che tanto aveva nuociuto all'immagine dei loro progenitori e finirono per diventare dei fondamentalisti del rigore di bilancio, aborrendo le politiche keynesiane del deficit spending, sia pure talvolta aumentando coraggiosamente le tasse per i più abbienti assicurando così un relativo sollievo per le famiglie che si erano indebitate oltremisura nel ventennio precedente.

Quella riscossa politica fu purtroppo solo l'anticipazione del rovesciamento paradossale del quadro politico in cui oggi viviamo: dopo l'elezione alla presidenza di Bush i repubblicani, conservatori per storia in materia fiscale, considerarono il disavanzo pubblico un male necessario per rilanciare l'economia in recessione, mentre i democratici che da quella recessione furono travolti, continuarono a predicare la riduzione del deficit in un momento depressivo per l'economia. Stiglitz ammette l'errore e lo spiega con il progressivo spostamento al centro dei democratici, rispetto alle iniziali intenzioni riformiste, ma anche con la vittoria dei repubblicani al Congresso nel 1994 che spinse Clinton a continuare nella deregulation e nei tagli alle imposte sui redditi di capitale per trovare un terreno comune con loro. Il gioco dei ruoli fu completo quando l'amministrazione Clinton procedette alla privatizzazione dei settori dell'elettricità, delle telecomunicazioni e delle banche che la spinse ad abbandonare la critica del ridimensionamento del ruolo dello Stato nell'economia e ad aderire senz'altro ai dettami "pre-keynesiani" del Fondo Monetario Internazionale.

Continuavano a ruggire, quegli anni, coronati da vari successi, almeno in termini macroeconomici. Riassorbito il deficit nel 1997, infatti, il prodotto interno lordo crebbe tra il 1996 e il 1999 del 4,3%, il Dow Jones raggiungeva nel 2000 i 5132 punti (era a 500 nel 1997), il tasso di produttività era pari al 2,2% tra il 1991 e il 1999. Nasceva così l'"economia informazionale" sotto gli auspici di una bolla finanziaria. L'occupazione negli Stati Uniti aumentò di 18 milioni di unità, attestandosi tra il 1997 e il 2000 al 4% annuo, novità di un certo peso negli ultimi 30 anni. La riduzione del deficit, insieme alla diminuzione degli interessi a lungo termine (dal 9 del 1990 al 6% del 1994), permise alle banche di tornare a prestare denaro e all'economia di ripartire.

Il capitalismo moderno in stile americano era imperniato sulla new economy simboleggiata dalle dotcom, le aziende che svolgevano la propria attività attraverso internet, che stavano rivoluzionando il modo in cui gli Stati Uniti, e il resto del mondo, conducevano gli affari. Era il momento del passaggio da un'economia basata sulla produzione di merci a una basata sulla produzione di informazioni. La rete divenne il paradigma della nuova democrazia orizzontale, promettendo l'immediato accesso alle risorse e distribuendo il miraggio di una libera circolazione delle idee e persino delle merci, favorendo lo sviluppo dell'industria privata delle telecomunicazioni e dell'informatica e migliorando i flussi d'informazione tra le unità produttive delle imprese transnazionali.

Fuori dall'oleografia, l'arricchimento fu realmente selvaggio e improvviso. E chi s'impadronì di quella rendita aveva sempre più di una ragione per non condividere le politiche fiscali che minacciavano di intaccare le proprie enormi plusvalenze. L'avidità di Wall Street e del mercato immobiliare diede il colpo finale al ruolo dello Stato in economia, realizzando il sogno dell'"economia vodoo" (la definizione è di Bush padre) voluta da Ronald Reagan: con aliquote fiscali più basse, i lavoratori avrebbero lavorato di più. La forza lavoro sarebbe aumentata, il suo costo diminuito, mentre il risparmio sarebbe cresciuto a dismisura.

Fu questo l'esito finale della new economy per Stiglitz. L'alternanza politica tra repubblicani e democratici, tra politiche di spesa e politiche di bilancio aveva quindi una costante. La ricetta preferita dagli economisti della scuola di Chicago: la supply-side economics, l'economia dell'offerta che avrebbe dovuto generare un reddito talmente alto che il gettito fiscale sarebbe lievitato nonostante il taglio delle tasse sugli utili di capitale. La grande vittoria neo-liberista fu la conquista del fortino sguarnito dei democratici che scelsero di vendersi l'anima pur di farsi finanziare la campagna elettorale successiva, parola di Stiglitz. Ma quello non fu un colpo di mano capitanato da un'avanguardia di incursori finanziari. C'era il consenso popolare: non importava che la riduzione sui redditi di capitale facesse risparmiare al contribuente ad alto reddito 100 dollari contro i 5 di quello medio. Tutti avrebbero voluto almeno un'azione delle dotcom per godere del taglio delle tasse. Come per Krugman, anche per Stiglitz il taglio delle tasse non stimola la crescita. In questa congiuntura, poi, Stiglitz afferma che gli incrementi della spesa sono più efficaci dei tagli fiscali per i ricchi. Senza contare che possono contribuire a una maggiore equità. Morto Keynes, viva Keynes.

Uno dei risultati imponderabili dell'economia della conoscenza fu quello di diminuire i posti di lavoro proprio quando la produttività cresceva e l'innovazione non cessava di produrre beni. Lo scoppio della bolla, che coincise con l'inizio della recessione, sancì definitivamente questo andamento non del tutto sconosciuto in altre zone avanzate del pianeta. L'aumento della disoccupazione incise sui salari, depresse i consumi ed infine rallentò la produzione. Nel vortice degli eventi, che in economia ha una sua logica e certo non è imperscrutabile nemmeno per i politici, cosa faceva il guardiano del bilancio federale, il custode della costituzione finanziaria dell'impero, Alan Greenspan? Figura carismatica sul quale Bob Woodward e Paul Krugman si esercitano da anni lanciandogli strilla ammirate o frecce avvelenate tradì un'indecisione fatale: non intervenne tempestivamente per denunciare la riduzione delle imposte sui redditi di capitale che alimentò la speculazione finanziaria. Per Stiglitz, Greenspan fu cauto e finì per incentivare quell'euforia in attesa di un aumento di produttività. Decisione politica la sua - sostiene Stiglitz - che rivela il ruolo decisivo di Greenspan nella liquidazione dello stato in economia.

Ostaggio politico del Congresso, Clinton non seppe mai risolversi nel conciliare la sua politica fiscale con i valori che si era impegnato a rappresentare, almeno nella sua prima campagna elettorale: "Di tutti gli errori commessi negli anni Novanta - scrive Stiglitz - i peggiori erano dovuti alla mancanza di coerenza tra i nostri principi e la mancanza di visione". Un modo elegante per dire che la battaglia era già persa in partenza. Sapevamo, dice Stiglitz, che per placare il vodoo economico-gangsteristico azionato dai repubblicani (ricordarsi della Enron e di Worldcom), noi democratici dovevamo regalare allo Stato un nuovo ruolo più ampio, che dovevamo occuparci dei più poveri e assicurare istruzione e tutela sociale a tutti. Ma così non fu perché il problema del deficit prima, e poi quello della finanza, costituivano un vero e proprio modello economico che bisognava difendere e poi esportare.

L'invenzione spettacolare di una politica redistributiva a livello internazionale rispondeva infatti alle ricette, sollecitate da Clinton e dai suoi economisti, e autorizzavano l'Fmi ad applicarle nel resto del mondo come condizione per ottenere i fondi necessari per finanziare i rispettivi deficit. Stiglitz ammette la sostanziale falsità di quella invenzione, ma chiude il suo libro addirittura rilanciandola. L'ipotesi di una governance democratica della globalizzazione era, e rimane, inerme rispetto alla disparità nella distribuzione della ricchezza a livello mondiale. L'intero continente africano, ad esempio, continua a essere escluso dal mercato mondiale. La sua quota del commercio mondiale è scesa negli anni '90 all'1,5%, dal 4,5 degli anni '70. Nel 1991 il Pil pro capite del Giappone (29.000 $), della Germania (27.900 $) o degli Stati Uniti (23.100 $) era superiore di 50-60 volte rispetto a quello dell'India (360 $). Le promesse democratiche non hanno saputo rimediare al carattere grottesco di una distribuzione così squilibrata della ricchezza che si rispecchia tragicamente nei tassi di mortalità infantile, di vita media, di istruzione in questi paesi.

I ruggenti anni Novanta, il primo decennio dalla fine della guerra fredda, non sono stati forse l'epoca delle meraviglie per la democrazia economica e la giustizia sociale, ma hanno certamente spazzato via le velleità dei democratici sul governo normativo della globalizzazione, insieme alla loro presunzione di potere far meglio il lavoro della destra liberista con qualche gioco illusionistico di natura sociale. Questo non significa che la destra abbia conquistato il cuore del keynesismo. Ne ha solo lasciato i brandelli retorici alla sinistra.

Roberto Ciccarelli