2005

P. Rogers, Losing Control. Global Security in the Twenty-first Century, trad. it. Fuori controllo. Idee militari di un mondo in disordine, DeriveApprodi, Roma 2002, pp. 196, ISBN 88-87423-99-7

L'accavallarsi delle crisi politico-militari all'inizio del millennio hanno costretto l'autore a una ravvicinata seconda edizione del testo (la prima risaliva al 2000), che non ne intacca però le basi teoriche. Rogers (esperto di questioni militari e di politiche di sicurezza, e docente presso il dipartimento di Studi sulla pace alla Bradford University) aveva infatti affrontato l'attuale disordine globale con una prospettiva storica sufficientemente ampia, e ha potuto coerentemente inserire nella sua analisi tanto gli attentati dell'undici settembre 2001 che il susseguente rovesciamento del regime dei Taleban afgani. Il testo non comprende invece una prima valutazione dell'invasione dell'Iraq.

Pur addentrandosi spesso in specifiche questioni militari (tattica, strategia, armamenti), Rogers tratta sempre i problemi della politica di sicurezza in un vasto contesto socio-economico globale. Certo, la politica di sicurezza americana rimane la stella polare della sua analisi; ma essa si inscrive in una fitta tela di rimandi a questioni statali e substatali che riguardano più o meno tutte le regioni nelle quali sono in corso avvenimenti politicamente rilevanti su scala globale.

Prima di interpretare la fase attuale, Rogers ripercorre l'epoca della deterrenza nucleare, egemonizzata da due attori superpotenti, descrivendo (insieme ai rischi del passato) anche la scomoda eredità lasciata dagli armamenti atomici, tuttora disponibili in grandi quantità, ed anzi in vari casi nuovamente in crescita dopo la fase di relativa contrazione che ha accompagnato la fine della Guerra Fredda.

Ma da una dozzina d'anni, secondo la metafora di un passato direttore della Cia, l'ordine globale gradito agli Stati Uniti è minacciato «non più dal drago ma da tanti serpenti velenosi». Da un punto di vista militare, nell'ultimo decennio di amministrazione repubblicana, la soluzione trovata dalle forze armate americane è stata ispirata a principi di reazione rapida, attacchi in profondità, uso di forze speciali, uso di armi a lungo raggio. È evidente che la recente invasione dell'Iraq non coincide più con questi criteri, comunque operanti fino al 2003. E questo nonostante i piani prevedessero in effetti una rapida conclusione dell'attività strettamente militare.

Ciò non pregiudica, comunque, l'idea dell'autore che oggi sia prevalente l'ipotesi politica di poter mantenere una "pace violenta" in un mondo unipolare, occidentalizzato e guidato dagli Usa. Ipotesi che Rogers (p. 101) reputa errata, anche perché il suo approccio non è meramente militare ma, come si diceva, immette tra le variabili le irrisolte questioni dell'ambiente, della lotta per le materie prime, e del divario crescente tra poveri e ricchi su un pianeta dove peraltro l'istruzione e la comunicazione, nei paesi poveri, vanno estendendosi (pp. 114-115).

L'idea di Rogers è che le élites (occidentali o filo-occidentali) sparpagliate nel mondo si illudano di conservare tale paradossale "pace violenta" inasprendo il loro paradigma securitario. E che, al contrario, sia una valutazione razionale (e non soltanto quella etica) delle condizioni del mondo ad imporre gli sforzi per una pace che sia autentica e non più caratterizzata dall'imposizione di un ordine basato sulle diseguaglianze ed ottenuto con la violenza.

L'autore è convinto che a lungo termine sarà impossibile un «controllo del nuovo disordine mondiale» (p. 89), e focalizza l'attenzione su alcune situazioni di crisi. Da una parte (p. 128) indica la crescita dell'instabilità sub-statale, prevede un aumento delle azioni militari contro specifiche élites, e ritiene esemplari fenomeni come lo zapatismo, o il movimento Hamas, che egli classifica nella categoria delle "guerre-prologo" dei futuri conflitti.

D'altra parte esamina la storia del governo di Saddam Hussein come un inquietante avvertimento all'Occidente. Il dittatore iracheno ha condotto una guerra asimmetrica, alterando più volte l'ordine regionale attraverso l'uso di armi non-convenzionali, e nel 1991 evitò di essere annientato proprio attraverso lo spauracchio dell'uso di armi non-convenzionali, che si era procurato in tempi relativamente brevi (circa cinque anni). La Guerra del Golfo, secondo Rogers, è stata estremamente istruttiva per chi ne ha saputo leggere tutte le implicazioni. Quel che occorre, a questo punto, è una razionalità non miope da parte dell'Occidente, e in particolare della potenza egemone: che, in altri termini, gli Usa abbandonino tanto «l'isolazionismo aggressivo» che la loro visione unipolare.

Nicola Casanova