2005

A. Rivera, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003, pp. 157, ISBN 88-88738-06-1

L'Italia è un paese di antica emigrazione, e di recente accoglienza di immigrati: se le prime ondate risalgono già agli anni Sessanta, è tuttavia con gli anni Ottanta e Novanta che il fenomeno acquista una rilevanza capace di trasformarlo in una reale o presunta emergenza sociale. Il libro dell'etnologa Annamaria Rivera interpreta quest'ultima fase storica come un processo di crescente indurimento delle condizioni di immigrazione, processo che in Italia si manifesta con particolare intensità, ma che si inquadra in un generale clima politico e giuridico europeo. Secondo l'autrice anche nell'Unione Europea vige un criterio di cittadinanza discriminante, e l'aspra legge italiana, la "Bossi-Fini", è coerente con la filosofia del Trattato di Schengen. Il libro è arricchito da un "Inventario dell'intolleranza" di Paola Andrisani, che ha raccolto (tra i mass-media italiani) e classificato un consistente elenco di violenze e soprusi contro gli immigrati sul nostro territorio.

Tra le principali tesi della Rivera quella di un aumento anche in Italia del cosiddetto "razzismo differenzialista", che in epoca postcoloniale "riafferma la subordinazione, l'esclusione e la segregazione di alterità indesiderabili e disturbanti attraverso la retorica del 'diritto alla differenza'" (p. 18). Con ciò, il razzismo differenzialista tenderebbe a trattare le specificità culturali come elementi quasi-naturali e non modificabili, intraducibili, giustificando così una più rigida separazione fra i gruppi.

A partire dalla categoria di 'discriminazione', la Rivera attacca tanto le contraddizioni dell'ideologia liberal-democratica (che sbandiera l'uguaglianza di diritti e opportunità), quanto il principio di cittadinanza adottato da formazioni politiche che vanno dallo Stato-nazione fino all'Europa tuttora in costruzione, un principio pur sempre informato a criteri di inclusione/esclusione.

L'autrice mette in luce, con riferimento alla realtà italiana, l'azione di "imprenditori politici del razzismo" (p. 49) come la Lega che, con il concorso dei mezzi di informazione di massa, hanno capitalizzato attraverso i voti i risultati di un'astuta opera di eccitazione di sentimenti diffusi nell'opinione pubblica. Interessante anche la valutazione della condizione dei campi di accoglienza/permanenza/internamento per i profughi come forma di segregazione, spersonalizzazione e infine disumanizzazione di chi giunge irregolarmente in Italia. La Rivera evoca il concetto di "nuda vita" proposto da Agamben nell'interpretare la realtà novecentesca del campo di sterminio. E richiama le pagine di Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo) sulla condizione dell'apolide, che tende ad essere trattato giuridicamente come una "non-persona". Inoltre, tanto il recente dispositivo legislativo (la 'Bossi-Fini') che numerose prassi amministrative sull'immigrazione sarebbero in contrasto con i principi della costituzione in vigore.

A monte di queste considerazioni, l'autrice sottolinea la generale artificiosità delle più diffuse rappresentazioni intorno alla razza, alla nazione, a ciò che è Altro da noi: si tratta di costruzioni e di convenzioni, che possono però essere abilmente volte ad una interessata strategia di creazione del nemico a partire dalla figura dello straniero, che oggi viene di frequente (e grezzamente) identificato con il musulmano-terrorista.

Si può obiettare che anche le nozioni di "essere umano" ed "umanità" - che fanno da sfondo implicito alla sua denuncia della discriminazione razziale - siano costruzioni ideologiche, che nell'accezione odierna suonano in genere come rielaborazioni post-illuministiche. Non è un caso se, in conclusione del capitolo che più si diffonde sul problema della cittadinanza, la Rivera scriva che "malgrado tutto, sempre più matura appare l'utopia di una cittadinanza inclusiva ed espansiva, che spezzi il vincolo arcaico che la lega alla nazionalità in favore di un progetto di civitas aperta e fondata sulla residenza" (p. 52).

Con il richiamo ad un'utopia matura, la Rivera riaccredita le idee dell'ospite e dell'ospitalità, che sono però temerariamente sbilanciate in senso amicale e non-aggressivo. E in realtà, la cittadinanza inclusiva appare legata a vincoli assai più arcaici di quelli della nazionalità: i temi dello straniero e dell'ospite sono stati, ad esempio, etimologicamente studiati in una relativamente recente ricerca di matrice politologica ("Amicus (Inimicus) Hostis", a cura di G. Miglio, Milano, Giuffrè, 1992), con risultati che ne mettono in luce l'ambiguità e i rischi. Nelle lingue indoeuropee ci sono radicate tracce millenarie della tensione che ogni gruppo instaura nei confronti dello straniero: il dovere dell'ospitalità e della protezione convive fibrillando con la tendenza allo scivolamento verso la condizione di nemico. Su questo punto, il rinvio (p. 71) della Rivera al "Vocabolario delle istituzioni indoeuropee" di Benveniste mi sembra un po' cursorio. La parentela etimologica tra ospite e nemico rivela un legame profondo e duraturo, e l'ospite corre da sempre il rischio di diventare un nemico.

È un argomento tipicamente conservatore quello di caricare l'onere della prova sulle spalle di chi spera o tenta di cambiare l'esistente. Dal profilo retorico, è come se il conservatore si facesse beffe dell'avversario così apostrofando: "Le cose sono sempre andate così. Tocca a te dimostrare che potrebbero andare in un altro modo". L'utopia matura di Annamaria Rivera è, ovviamente, una mossa anticonservatrice. Una maggiore cautela, tuttavia, sembra necessaria nel liquidare l'ostilità verso lo straniero come una deriva dello Stato-nazione, rendendo colorito l'argomento grazie al mediocre spettacolo offerto sovente dalle attuali élite politiche italiane. Vincere un'idea antica come quella che interseca ospite e nemico è un'impresa nobile ma estremamente difficile, specie quando lo straniero non è un vicino, un confinante, ma viene talvolta scagliato fino a noi da luoghi lontanissimi, con un carico di rabbie e paure forse ancor più pesante del nostro.

Nicola Casanova