2010

C. Resta, Stato mondiale o nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Diabasis, Reggio Emilia 2009, ISBN 978-88-8103-603-5

A dieci anni dalla edizione Pellicani, il saggio di Caterina Resta, Stato mondiale o nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, trova oggi una nuova collocazione nella collana Geofilosofia, Terra e mare, della casa editrice Diabasis. Dal 2007 l'autrice dirige la collana insieme a Luisa Bonesio.

Se nella prima stesura il saggio aveva un carattere pioneristico, perché scarso rilievo era stato accordato agli aspetti del pensiero internazionalistico di Carl Schmitt - si pensi all'opus magnum Der Nomos der Erde -, quella che viene oggi proposta a distanza di un decennio è molto più di una ristampa. Nella nuova edizione l'autrice chiarisce alcuni passaggi che hanno il pregio di mostrare come i temi affrontati da Schmitt, dopo il naufragio dell'esperienza di "giurista della corona", ci consentono di orientarci nel magma della globalizzazione. Ed è cosi che la crisi dello jus publicum Europaeum, il conseguente disordine mondiale e l'avvento di una guerra civile mondiale - magistralmente analizzati da Schmitt - si rivelano, per Resta, elementi di discussione imprescindibili per «chiunque voglia seriamente affrontare la genesi dell'Età globale, i suoi rischi e le possibilità di un nuovo ordine mondiale».

Contrariamente all'opinione di alcuni studiosi di Schmitt - fra questi Carlo Galli - che hanno decretato il tramonto del suo pensiero, relegandolo tra i classici della modernità che non avrebbero più nulla da dirci, il saggio di Caterina Resta pone l'accento sugli aspetti fecondi di una riflessione ritenuta ancora utile per interpretare il nostro presente. Di fronte all'attuale spaesamentoper la perdita di ogni limes e alla conflittualità caotica che contraddistingue il disordine globale, la «grande antitesi della politica mondiale» tra pluriverso e universo - che Schmitt consegnò sessant'anni fa alle pagine del Nomos della terra - lungi dall'aver trovato soluzione, diviene per Resta un problema di scottante attualità che richiede improrogabili decisioni:

oggi che "la guerra civile mondiale" assume le inquietanti forme di una guerra totale e globale al terrorismo, vestendo la maschera delle guerre "umanitarie" e delle azioni di polizia internazionale, dietro cui traspare in modo sempre più evidente il tentativo americano di trasformarsi nel nuovo Impero globale, diviene sempre più urgente lo sforzo di ridefinire i tratti giuridici e politici di un nuovo ordine mondiale, che ponga fine all'anarchia del presente.

L'originalità con la quale l'autrice tratta i temi salienti della riflessione internazionalistica di Schmitt è attestata dall'attenzione data alla "questione della tecnica" nel dibattito filosofico tedesco del Novecento, nel quale Heidegger e Jünger non furono i soli a cogliere «il carattere intrinsecamente nichilistico, dissolvente e delocalizzante della tecnica moderna». In stretto rapporto intellettuale con questi due grandi filosofi del Novecento e anch'egli convinto che la tecnica è destino, Schmitt già alla fine degli anni venti si chiedeva quale politica fosse «abbastanza forte da impadronirsi della nuova tecnica». Era un interrogativo, questo, che verso la fine del secondo conflitto mondiale assumeva toni sempre più allarmanti. Quale tipo di politica poteva contenere la forza irrefrenabile «di una tendenza unificatrice» che, lungi dal costituirsi come un nuovo nomos, in realtà per Schmitt era solo nichilistico sradicamento da ogni nomos? Quale politica era abbastanza forte da porre fine all'annichilimento - violenta reductio ad unum - di ogni differenza, tradizione, cultura, varietà di popoli, lingue e religioni?

Come difendersi, dunque, da un destino scaturito dall'inesorabile logica del dominio della tecnica che impone ovunque la sua unica forma capace di liquefare ogni solido confine? Più che offrire una risposta, Schmitt, quale lucido testimone che ha saputo cogliere origine e fine di quel nomos eurocentrico e tuttavia globale che fu lo jus publicum Europaeum «ha enunciato una possibile direzione» nella quale trovare la risposta. Seppure appena abbozzata, la teoria dei "grandi spazi" è per Schmitt l'unica via perseguibile per sfuggire all'unità del mondo. Fieramente avverso ad ogni forma di universalismo, convinto che, per «quanto piccola si sia fatta la terra, il mondo sarà sempre troppo grande per sottomettersi all'unico Signore del mondo», Schmitt intravede in un pluriverso di "grandi spazi" l'unica possibilità di un nuovo nomos della terra che sia in grado di dare al mondo un ordinamento globale.

Resta è convinta che se intendiamo 'governare' l'irrefrenabile regno dello spazio dell'Uno, incapace di dischiudere altri orizzonti di senso che non siano quelli del capitale, è a Schmitt che dobbiamo volgere lo sguardo. Ma, per quanto la teoria dei "grandi spazi" abbia «l'indubbio merito di pensare a un pluriverso in grado di contrastare le spinte universalistiche della potenza imperiale di turno», Resta sente il bisogno di oltrepassare la via indicata da Schmitt e sente l'esigenza e forse anche il dovere di congedarsi da una concezione dello spazio e della politica non del tutto emancipati dalle logiche moderne. Il "grande spazio" schmittiano, per quanto più vasto della forma-Stato - ritiene Resta - non fa che riflettere l'impianto dello jus publicum Europaeum e «ribadire il carattere inevitabilmente polemico del fronteggiarsi di questi spazi sullo scacchiere mondiale, anticipando, per molti versi, l'idea di uno "scontro di civiltà"».

Resta ritiene che Schmitt è troppo fedele al suo "criterio" del "Politico" per comprendere che:

se ancora un nuovo nomos sarà dato alla terra e ancora sussiste qualche debole speranza di evitare l'empio costrutto di un'altra Torre, allora esso sarà promesso non agli spiriti polemici e neppure a quelli pacifici, ma solo a coloro che faranno del limite e del confine non un fronte comune di inimicizia o amicizia, ma quella soglia transitabile di ineludibile confronto con un'alterità che deve restare tale, affinché possiamo misurarne la comune differenza.

Universo e pluriverso non sono da Resta concepiti come un'irriducibile dicotomia, un'alternativa netta, un aut-aut che impone una scelta, ma sono pensati come un terreno comune a tutti, un orizzonte di confronto aperto e ospitale, che nessuna forza è in grado di monopolizzare. "Amico-nemico", l'indiscusso presupposto del "Politico" schmittiano, deve quindi lasciare spazio ad una politica dell'ospitalità quale unica via da intraprendere per «contrastare le spinte omologanti dell'occidentalizzazione del mondo». Solo a partire dalla figura dell'ospite e dello straniero, conclude Resta, è «ancora proponibile e plausibile un'altra idea di 'umanità', includente e non escludente, attraversata da una pluralità di differenze irriducibili, umanità dell'altro uomo, preoccupata dei doveri e della responsabilità nei confronti dell'altro, più che della rivendicazione dei propri diritti».

Claudia Terranova