2005

J. Rawls, The Law of Peoples with "The Idea of Public Reason Revisited", Harvard College, Cambridge (Mass.) 1999, trad. it. di G. Ferranti e P. Palminiello, a cura di Sebastiano Maffettone, Il diritto dei popoli, Comunità, Torino 2001, ISBN 88-24-50591-0

1. In questo volume Rawls proietta la concezione della 'giustizia come equità' e del 'liberalismo politico', pensate per le singole società nazionali, nella prospettiva internazionale. Per giustificare i principi del 'diritto dei popoli' Rawls ripropone anche in questa opera una sua versione aggiornata del contratto sociale, ma non ipotizza una 'posizione originaria' cui partecipino tutti gli esseri umani. Egli segue una procedura a più passi; nel primo passo della 'teoria ideale' sono rappresentati i popoli liberal-democratici. La qualifica di liberal-democratico non rimanda solo all'esistenza di determinate forme istituzionali, ma anche a precise caratteristiche culturali e implica l'adesione ad una concezione morale della giustizia. Nella posizione originaria "le parti sono poste sotto un velo d'ignoranza [...]: ignorano, per esempio, l'estensione del territorio o l'entità della popolazione o la forza relativa del popolo di cui rappresentano gli interessi fondamentali. [...] ignorano l'entità delle loro risorse naturali o il loro livello di sviluppo economico" (p. 42). Sotto il velo di ignoranza, le parti escluderebbero di costituire uno Stato mondiale per i rischi di dispotismo che esso comporta ma definirebbero forme di associazione interstatale. E formulerebbero un diritto dei popoli che corrisponderebbe ai "ben noti e tradizionali principi di giustizia fra popoli liberi e democratici". Secondo questi principi, i popoli sono liberi e indipendenti e rispettano libertà ed indipendenza degli altri popoli; sono tenuti all'osservanza dei patti; sono eguali. Hanno inoltre una serie di doveri: quello di non intervento, quello di osservare i diritti umani, quello di "assistere altri popoli che versano in condizioni sfavorevoli tali da impedire loro di avere un regime sociale e politico giusto o decente" (ivi, p. 47). Infine, hanno diritto all'autodifesa, ma non a scatenare la guerra per ragioni diverse dall'autodifesa.

Il secondo passo della teoria ideale estende il diritto dei popoli alla società dei popoli decenti, quelli "accettabili in qualità di membri a buon diritto di una società dei popoli" (ivi, p. 5). Non è semplice individuare con esattezza cosa Rawls indica con popoli 'decenti' e con 'società gerarchiche decenti'. Egli allude all'esistenza di una 'gerarchia di consultazione decente' e cioè alla possibilità anche per le voci discordanti di farsi ascoltare. Una società gerarchica decente si fonda su una dottrina comprensiva ma non cerca di imporla e pertanto rispetta l'ordine politico e sociale delle altre società. I popoli gerarchici decenti non intraprendono guerre di aggressione, difendono i diritti umani, "hanno a cuore i benefici dei commerci e accettano inoltre l'idea dell'assistenza fra i popoli in caso di bisogno". Come tali, se accolti a loro volta sotto il velo di ignoranza, darebbero la loro adesione ai principi del diritto dei popoli.

Il diritto dei popoli, si potrebbe dire, è il diritto dei popoli liberaldemocratici, che tollerano i popoli decenti e li ammettono nella situazione originaria. D'altra parte, per definitionem, i popoli decenti non possono non accettare i principi del diritto dei popoli. Con il terzo passo, quello della 'teoria non ideale', Rawls prende in considerazione le 'condizioni di non osservanza': il fatto che "determinati regimi rifiutano di riconoscere un ragionevole diritto dei popoli" (p. 120) e si autoattribuiscono il potere di muovere guerra per affermare i propri interessi. La teoria non ideale nei confronti di tali regimi - gli 'Stati fuorilegge' - si identifica con la teoria della guerra giusta. Rawls non solo contribuisce alla contemporanea riabilitazione di una teoria che sembrava abbandonata dal diritto internazionale moderno, aderendo sine glossa alle posizioni di Michael Walzer. Sembra anche escludere che il diritto dei popoli possa prevedere verso i 'regimi fuorilegge' altro che pressioni economiche, embarghi, guerre. Quando le politiche di uno Stato fuorilegge "minacciano la sicurezza e l'incolumità di popoli liberali" essi "sono tenuti a difendere la libertà e l'indipendenza della propria cultura liberale e a opporsi agli stati che cercano di assoggettarli al loro dominio" (p. 63). Riguardo allo ius in bello la riproposizione della teoria walzeriana è pressoché letterale, fino all'adesione alla dottrina della supreme emergency, che ammette la deroga agli stessi limiti alla condotta di guerra e oltrepassa i deboli argini posti dalla dottrina cattolica del 'doppio effetto'.

L'argomentazione di Rawls riproduce uno schema, per così dire, di cerchi concentrici. Vi è un nucleo di popoli liberali che definiscono i principi del diritto dei popoli. Il cerchio successivo è quello dei popoli 'decenti'. Non è arduo riconoscere che i popoli decenti sono definiti il relazione al diritto dei popoli: sono quelli disposti ad accettarlo e rispettarlo. All'esterno di questo cerchio stanno gli 'stati fuorilegge' - outlaw: fuori della law of peoples - a loro volta definiti in riferimento al diritto dei popoli. E per quanto Rawls dichiari che "Il diritto dei popoli non è etnocentrico" (p. 161), non argomenta a favore di questa tesi. Si limita ad affermare, dogmaticamente, che tale diritto chiede alle società non liberali "solo ciò che queste possono ragionevolmente fare proprio una volta che siano disposte a porsi in un rapporto di equa eguaglianza con tutte le altre società" (p. 162).

C'è qualcosa di inquietante nell'idea di un club dei paesi liberali, che stabilisce le regole del diritto dei popoli e tollera i paesi che le accettano. Ciò che va sottolineato, comunque, è che questo approccio si colloca un passo indietro rispetto alle istituzioni internazionali esistenti, che hanno almeno il merito di costituire un'assise aperta a tutti i popoli, nessuno dei quali si trova in una condizione di 'fuorilegge'. Un ulteriore elemento di inquietudine deriva dal fatto che lo strumento-principe per rendere effettiva la legge dei popoli sembra sia, accanto alle sanzioni e agli embarghi, la guerra: Rawls non spende molte parole riguardo alle possibili misure per depotenziare i fattori geopolitici, economico-finanziari, sociologici, antropologici che stanno alla radice dell''ingiustizia politica' così come della guerra. Ed è significativo che Rawls non citi neppure lo strumento, oggi invocato da più parti, della giurisdizione internazionale, in special modo penale: il rapporto fra i popoli liberali e/o decenti e i regimi fuorilegge coincide con lo stato di guerra.

Con questa posizione Rawls introduce un elemento regressivo rispetto al diritto internazionale vigente, o almeno rispetto alle previsioni della Carta delle Nazioni unite che, come egli stesso ricorda, ammette la guerra solo in caso di aggressione. Rawls non solo legittima pienamente la 'guerra umanitarie' e le ingerenze nella sovranità di altri paesi. Ma, ciò che appare più rilevante, la nozione di 'regimi fuorilegge' rischia di giustificare anche le 'guerre preventive' e le operazioni di 'liberazione' manu militari dei popoli sottoposti a regimi oppressivi. Sarebbe senza dubbio ingeneroso assimilare i 'regimi fuorilegge' ai rogue states citati nei documenti dell'attuale amministrazione statunitense, rispetto ai quali si afferma la legittimità di ogni azione da parte delle 'coalizioni di volenterosi'. Tuttavia, l'impostazione generale dell'argomento di Rawls sembra intrinsecamente inadeguata per criticare, anche su un piano squisitamente normativo, queste concezioni.

2. Rawls esclude esplicitamente che il diritto dei popoli comprenda dei principi di giustizia distributiva globale. Per Rawls "i grandi mali della storia umana [...] derivano dall'ingiustizia politica" (pp. 7-8), ma ciò non va inteso nel senso della giustizia distributiva.

Lo scenario internazionale conosce società svantaggiate, e cioè "società le cui circostanze storiche, sociali ed economiche, rendono difficile, se non impossibile, l'instaurarsi di un regime bene ordinato, liberale o decente che sia" (p. 120). Nei confronti di tali società, in base al diritto dei popoli, i 'popoli bene ordinati' condividono un dovere di assistenza. Tale dovere ha come fine favorire l'instaurazione di istituzioni giuste, o almeno decenti. Per ottenere questo scopo, è la 'cultura politica' ad avere 'la massima importanza', insieme alle tradizioni culturali, all''industriosità' ed alle 'virtù politiche' dei membri. Un'abbondanza di risorse naturali non è necessaria, mentre la profusione di "aiuti finanziari è di solito indesiderabile" (p. 147). D'altronde, per Rawls, "non esiste società al mondo - a eccezione di casi marginali - afflitta da una penuria di risorse tale da non poter diventare una società bene ordinata, qualora fosse organizzata e governata in modo ragionevole e razionale" (pp. 144-45). Di per sé "l'arbitrarietà della distribuzione delle risorse naturali non provoca difficoltà"; dunque "nella struttura di base della società dei popoli, una volta che il dovere di assistenza sia soddisfatto e tutti i popoli siano dotati di un governo liberale o decente operativo, non c'è più ragione di restringere il divario di ricchezza media fra i diversi popoli" (p. 156).

Ovviamente, sarebbe fuori luogo attendersi che Rawls abbia preso in considerazione le radici storiche dello 'svantaggio' di determinati popoli; né che si sia interrogato sugli eventuali rapporti fra lo svantaggio socioeconomico e la posizione che i differenti popoli mantengono nella competizione geopolitica e militare. Egli sostiene, mantenendosi sul piano normativo, non solo che "le disuguaglianze non sono sempre ingiuste" (p. 152), ma anche che il perseguimento di un "principio egualitario globale" produrrebbe esiti moralmente inaccettabili.

L'idea di Rawls è che la redistribuzione globale delle risorse, finalizzata ad aiutare i poveri, deve avere un punto di arresto. Nella sua ottica le differenze di risorse fra i differenti popoli - oltre a non impedire in assoluto la realizzazione di regimi decenti - non sono di per sé ingiuste, né è arbitrario il fatto che fra i differenti popoli e i differenti territori si stabiliscano dei confini politici. Confini di una qualche tipo, anzi, devono esserci, perché quella dello Stato mondiale è una prospettiva indesiderabile. I confini fra gli Stati svolgono un ruolo analogo a quello che nei rapporti fra gli individui è svolto dalla proprietà privata. I differenti popoli liberali e/o decenti sono legittimi proprietari delle loro risorse e sono legittimamente chiusi nei loro territori. Si tratta di stabilire giusti principi per regolare i loro rapporti, che includono il dovere di assistenza per i popoli svantaggiati, in modo da aumentare le possibilità che diventino a loro volta popoli liberali e/o decenti.

In altri termini, su scala globale le risorse - beni naturali, territorio, conoscenze, forza militare, posizione geopolitica eccetera - non possono venire considerate alla stregua di una patrimonio comune da distribuire. Si potrebbe sostenere che qui Rawls ripropone, sul piano globale, le posizioni che i critici libertarian della sua teoria - si pensi a Robert Nozick - avevano elaborato per l'ambito delle singole società nazionali.

3. In The Law of Peoples, dunque, Rawls non propone un'estensione a livello globale dei principi della giustizia come equità. Tuttavia individua un insieme di 'diritti umani' - una classe più ristretta rispetto ai diritti garantiti ai cittadini dalle democrazie liberali - dal diritto alla vita alla libertà di coscienza, alla proprietà personale, all'eguaglianza formale, di validità universale. La tesi di Rawls è che "i diritti umani, così intesi, non possono essere respinti perché tipicamente liberali o specifici della tradizione occidentale. Il loro non è un orizzonte politico parrocchiale" (pp. 86-87). Essi non fanno appello né a dottrine religiose né a teorie antropologiche che, in quanto radicate nella tradizione occidentale, si esporrebbero alla critica di etnocentrismo. Ma i diritti umani non presuppongono una concezione individualistica della società e sono compatibili con un sistema sociale gerarchico: non solo i popoli liberali, ma anche i 'popoli gerarchici decenti' bene ordinati tutelerebbero i diritti umani nelle loro società e in una ipotetica posizione originaria cui partecipassero, sotto il velo di ignoranza, accetterebbero i diritti umani come componente integrante del diritto dei popoli. Per Rawls i diritti umani costituiscono le "condizioni necessarie di qualsiasi sistema di cooperazione sociale". E la loro violazione sistematica si traduce in "un sistema basato sulla schiavitù" (p. 89).

La tutela dei diritti umani diventa così il principale criterio discriminante per connotare come 'decente' un popolo e un regime politico. Uno Stato che viola i diritti umani si colloca così, per definitionem, al di fuori del diritto dei popoli, nell'ambito degli 'Stati fuorilegge'. Ma, in virtù dell'universalità dei diritti umani, è comunque tenuto a rispettarli: "la forza politica (morale) di questi diritti si estende a tutte le società, ed essi sono vincolanti per tutti i popoli e tutte le società, compresi gli stati fuorilegge" (p. 106). Ne consegue, secondo Rawls, che i popoli liberali e i popoli decenti sono tenuti a non tollerare gli Stati fuorilegge. La guerra contro gli Stati fuorilegge allo scopo di tutelare i diritti umani è pertanto una guerra giusta. Questo vale senz'altro nel caso in cui gli Stati fuorilegge rappresentino una minaccia per i popoli liberali e per i popoli decenti. Ma può valere anche nel caso in cui gli Stati fuorilegge non siano particolarmente aggressivi o pericolosi: "Se i crimini contro i diritti umani sono di rilievo eccezionale e la società resta insensibile all'imposizione di sanzioni, un intervento di forza a difesa dei diritti umani risulterebbe accettabile e sarebbe all'ordine del giorno" (p. 125 n). La cronaca degli anni successivi alla pubblicazione di questo volume non sembra aver portato molti elementi in favore dell'idea che la guerra sia uno strumento adatto all'universalizzazione dei diritti umani.

Luca Baccelli