2005

F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell'umanità in eccesso, Ombre Corte, Verona 2003, pp. 236, ISBN 88-87009-44-9

Rahola si propone di analizzare la matrice comune dei campi (al di là delle differenti specificazioni e aggettivazioni quali campi di concentramento, di prigionia, campi umanitari, centri di permanenza temporanea, zones d'attente, emergency temporary locations, ecc.): l'obiettivo è, cioè, quello di indagare il 'campo' come forma «che fa la differenza», che la segnala e direttamente la produce. La tesi centrale è che i campi siano luoghi per territorializzare individui che, a diverso titolo, non appartengono: i campi rappresentano «una soglia che, una volta varcata, produce un eccesso che non dialoga più con esperienze di esclusione sociale riconducibili all'interno di confini, restituendo una dimensione umana 'superflua', inutile» (p. 88). I campi ospitano e producono un'umanità in eccesso: un'umanità che non conta e che non si conta. Questa tesi viene articolata e vagliata nelle due parti di cui si compone il libro.

La prima parte è essenzialmente teorica: in essa l'a. si confronta con altre ipotesi interpretative relative ai campi, traccia una genealogia dei campi volta a recuperarne l'origine coloniale (così colmando una lacuna de Le origini del totalitarismo di Arendt) e analizza i campi del presente in un continuum temporale che li salda alle loro origini coloniali, senza per questo perderne la specificità. Secondo Rahola la matrice coloniale è decisiva. L'origine dei campi va «ricondotta all'idea di umanità che dalle colonie per la prima volta emerge: quella di una massa (i colonizzati) per lo più indistinta, 'naturalmente' inferiorizzata e politicamente inesistente» (p. 85). I campi coloniali si sperimentano su soggetti, su nemici e non più sudditi, che eccedono l'ordine politico del territorio su cui si trovano, si motivano in base a (pur differenti) esigenze di sicurezza e appaiono derivazione immediata dello stato di guerra e della legge marziale. Questi tratti salienti, che caratterizzano la forma campo, si ritrovano quasi invariati nell'esperienza europea. Anche in questo caso i campi si configurano come un confine cui ricondurre un'eccedenza, attraverso cui contenere una massa di persone che non può essere riassorbita territorialmente. I campi, secondo l'a., rappresentano sempre la reazione a una presenza (quella dell'apolide, del profugo, del migrante) «che mostra l'esaurirsi di un paradigma inclusivo (di un'idea di società)» (p. 90): sono un dispositivo di sicurezza, extra legem, cui si ricorre, come estremo gesto reazionario, di fronte alla crisi di un modello inclusivo. In questa prospettiva i lager e i gulag appaiono non come eccezioni, ma come abissi: come il passaggio dalla territorializzazione coatta all'eliminazione dell'eccesso, dal 'lasciar morire' al 'far morire'.

La principale peculiarità dei campi del presente sembra risiedere, invece, nei modi in cui si specificano i concetti di 'eccesso' e 'non appartenenza' e, conseguentemente, nel tipo di modello inclusivo che entra in crisi (e della cui crisi i campi sono segno e sintomo). Secondo Rahola, l'attuale epoca globale è caratterizzata da una costante produzione di eccesso: dalla creazione di un surplus umano che non rientra più o non è mai rientrato nel ciclo produttivo o riproduttivo del capitale. Contemporaneamente si assiste alla crisi (per ragioni storiche, politiche e giuridiche) dello status di rifugiato sancito dalla convenzione di Ginevra, con la conseguenza di moltiplicare il numero di individui per cui è impossibile ogni inclusione. Secondo l'a. anche il modello inclusivo fondato sulla cittadinanza sarebbe però entrato in crisi: sia perché assediato da un numero crescente di soggetti che non appartengono, sia perché è venuto meno uno dei presupposti impliciti su cui si basava, la presenza di un confine certo. Oggi la «tendenza è verso un progressivo superamento, perlomeno delle dimensioni "solide" che i confini statuali-nazionali hanno assunto nel secondo dopoguerra - tanto come linee immediatamente geografiche che delimitano un territorio, quanto soprattutto come figure politiche che definiscono un 'dentro' in termini di diritti politici e sociali, su una declinazione potenzialmente espansiva, in grado di assorbire ciò che sta 'fuori'» (pp. 104-105). I confini attuali, cioè, non paiono più diretti a presidiare e a dar forma a un territorio e una popolazione, ma piuttosto si proiettano solo verso l'esterno, «diventano argini sempre meno collocabili e ratificano differenze di status essenziali, quasi 'antropologiche'» (p. 106).

Quello fra appartenenza e cittadinanza, però, è un rapporto complesso. L'a. riprende più volte la tesi di Arendt secondo cui l'assenza della cittadinanza è un fattore decisivo per entrare nei campi: tale tesi risulta, però, storicamente smentita da esempi citati dallo stesso Rahola, quali il regime concentrazionario adottato dall'Unione Sovietica fin dal 1919 o l'internamento di oltre 70 mila cittadini americani di origine giapponese durante la seconda guerra mondiale. Certo anche in tal caso riemerge l'idea coloniale della «popolazione come strumento di cui disporre integralmente» (p. 77), ma ciò sembrerebbe confermare piuttosto l'ipotesi biopolitica di Agamben (che vede nel campo una dimensione sovradeterminata e assoluta di sovranità che trova nella popolazione uno strumento di cui disporre interamente). Il problema è che al pari di quella ipotesi biopolitica, anche il concetto di non appartenenza appare troppo comprensivo e non ulteriormente delimitabile. Piuttosto, ciò che sembra centrale è la dimensione di a-legalità, la sospensione dello stato di diritto che accompagna costantemente l'istituzione e l'amministrazione dei campi (e in cui Rahola individua, correttamente, un elemento storicamente costitutivo della forma campo): uno stato di eccezione e uno svuotamento di garanzie che ben può esercitarsi anche nei confronti di cittadini. Tuttavia è dubbio che molti campi del presente (se pur accompagnati dal costante - e retorico - riferimento a situazioni di emergenza, vere o presunte) condividano anch'essi il medesimo carattere di eccezione e alegalità (si pensi, ad esempio, ai campi temporanei per migranti 'in attesa di espulsione'): in tal caso non sembra operare alcuna sospensione dello stato di diritto, non solo perché i campi sono legalmente istituiti, ma anche perché i soggetti in essi internati erano privi ab initio di certi diritti (quali la libertà di movimento e il diritto di risiedere).

La seconda parte (nel complesso più compatta e sistematica) è dedicata principalmente all'analisi di un singolo campo: il campo per internally displaced persons di Plémentine, località a una ventina di chilometri da Pristina, dove l'a. ha soggiornato per quattro settimane nel 2000. Dopo aver analizzato e ricostruito le vicende (e le polemiche) legate all'intervento armato in Kosovo, le sue conseguenze parossistiche (sostanzialmente la riproposizione e, anzi, il rafforzamento di confini etnici e l'aumento dell'insicurezza fisica per i soggetti che tali confini eccedono), Rahola traccia una etnografia del campo di Plémentine, analizza il meccanismo discorsivo in base al quale il campo viene tematizzato dagli internati, concentrandosi sulla percezione (e gli effetti) della dimensione temporale e di quella spaziale: sul campo come luogo e sul campo come tempo. Nonostante la brevità temporale del soggiorno, i risultati di questo fieldwork appaiono davvero significativi, grazie soprattutto alla notevole padronanza di diversi strumenti teorici. L'immagine è quella di un non luogo (nei termini di Augé): un luogo dove «il provvisorio è vissuto come definitivo (e il definitivo è percepito provvisorio)» (p. 150), un confine all'interno del quale spazio e tempo sono assunti come semplice estensione e pura durata, mutilati di ogni dimensione produttiva e di ogni funzione orientativa, dove la stessa biografia individuale viene negata (perché è impossibile per gli internati definirsi nell'oggi del campo, ma il passato non arriva a Plémentine e il futuro non lo supera).

Se i campi del presente e, quello di Plémentine in particolare, si configurano indubbiamente come dispositivi di sicurezza per governare a distanza l'eccedenza, il loro rapporto con i diritti umani è ben più complesso. Rahola vede i campi come luoghi in cui vengono territorializzati i diritti umani (p. 200) o, meglio, quell'unico diritto umano che è il diritto/dovere a risiedere (e che include in sé il diritto a sopravvivere, a 'cavarsela', a vivere e a morire, dove però vita e morte si configurano come mere alternative biologiche). Ciò, secondo l'a., sarebbe in linea con una definizione puramente negativa dei diritti umani, come meri strumenti di protezione da ogni abuso. La figura dell'internally displaced, «diventa allora segno quasi letterale di questa libertà negativa» (p. 202): una libertà negativa che si oppone a «ogni dimensione positiva di cittadinanza» (p. 203); una dimensione che peraltro, secondo l'a., anche nelle attuali democrazie occidentali sembra progressivamente svuotarsi, perdere di contenuto.

Al riguardo sembra, però, che i diritti negativi e liberali, siano ben distanti, non solo numericamente, ma anche per qualità e struttura, dal diritto a risiedere in un campo (diritto che, se non altro, richiede interventi positivi, richiede un campo in cui essere territorializzato e finanziamenti che garantiscano il lasciar vivere e il lasciar morire). Piuttosto il grande nodo teorico, a cui questo testo, interessante e complesso, apporta un significativo contributo, sembra riguardare gli effetti (e le cause) della regressione politica «dalla solidità del diritto d'asilo all'inconsistenza dei diritti umani» (p. 127), la dimensione vuota (e retorica) di tali diritti, specie se sganciati da ogni effettiva protezione nazionale, la crisi (o meglio, la patologica inadeguatezza) del diritto internazionale.

Francesca Poggi