2005

M. Davis, Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 390, ISBN 88-7285-173-4

Los Angeles quale metafora del mondo intero, e Los Angeles quale "punto di osservazione avanzato del XX secolo": Mike Davis non ha mai trascurato queste due ipotesi interpretative, neppure quando la sua indagine era impegnata in circostanziate descrizioni di fatterelli di quartiere. Il testo di Davis (un urbanista cresciuto proprio in uno dei ghetti della "regione urbana" di Los Angeles) è stato pubblicato per la prima volta nel 1990, dunque poco prima della spaventosa rivolta che gettò la metropoli americana in una sorta di guerra civile. Una rivolta polarizzatasi su uno sfondo razziale (neri contro coreani, neri contro bianchi, latinos contro bianchi, e così via) e maturata lentamente, in un decennale avvitamento su se stesso di misure repressive, neo-segregazione, abbandono degli strati indigenti. La scintilla di quella rivolta scoccò dal pestaggio gratuito di un nero da parte di poliziotti bianchi. E dal momento che lungo le pagine di Davis si respira sempre l'atmosfera dell'ingiustizia e del sopruso, è facile capire come questo saggio abbia saputo cogliere nel profondo della vita di una città usualmente dominata dal frastuono dei mass-media, della pubblicità, e dei dollari.

È un libro ricco e difficile da classificare. Accanto all'ovvia competenza urbanistica ed architettonica dello sguardo dell'autore, proliferano le considerazioni socio-economiche, storiche e politiche. Di più, dalle valutazioni di Davis sul trattamento e la suddivisione dello spazio urbano prende corpo un embrione filosofico che è andato (e meritatamente) ad arricchire il filone della sociologia e della filosofia della metropoli. Se Parigi e Londra stimolarono la speculazione nell'Ottocento, è comprensibile che oggi la novità sia espressa in un luogo dilagato in poco più di un secolo attorno ad un antico insediamento spagnolo: Nuestra Senora Reina de Los Angeles.

Prima di arrivare al cuore dei concetti formulati da Davis, il lettore deve fare i conti con la ricostruzione della storia della città, con una mappatura della sua vita intellettuale, e con la fondata insistenza di Davis sulla questione immobiliare. Si tratta, secondo me, della parte meno brillante del libro, eppure fondamentale per intendere quelle che seguono: la speculazione immobiliare è cruciale per comprendere quale sia stata la principale molla nello sviluppo di L.A., città con una originaria e perdurante attitudine non-industriale; e la sociologia culturale ne mostra un'altra attitudine, quella ad importare cultura ed intelligenza invece di crearla. Davis lascia così trasparire anche la vocazione parassitaria di quest'enorme agglomerato.

Ciò che però qui più interessa è l'ultima fase dello sviluppo di L.A.. Davis ha saputo rispecchiare le trasformazioni socio-economiche in quelle dello spazio urbano, senza che la sua ferocissima critica (questo è un libro sul rischio di implosione della metropoli) oscurasse la finezza dei contenuti e degli spunti di riflessione.

Los Angeles è una città che ha messo in crisi la sfera pubblica. Il punto di vista dell'urbanista è, ovviamente, quello della ristrutturazione dello spazio pubblico. Dalla militarizzazione dell'architettura degli edifici, all'innalzamento (evidente o cammuffato) di barriere tra quartieri e settori popolati da differenti strati sociali, dal marcato rivolgersi verso l'interno di spazi commerciali e di svago, fino alla trasformazione di lussuose ville in autentici castelli: sono numerose ed inequivocabili le tracce di una progressiva distruzione dello spazio pubblico, associata ad un'ossessione per la sicurezza nella quale l'architettura e lo strapotere della polizia sono funzionali allo stile di vita delle classi media e alta americana. In una città così rimodellata, anche le categorie simboliche si modificano: la sicurezza è simbolo di prestigio, mentre il senza-tetto svaluta i resti dello spazio aperto e comune in cui classi, razze, culture diverse potevano, in passato, mescolarsi.

Sì, perché tale divisione dello spazio urbano è principalmente retta da un forte principio di esclusione del diverso, sotto forma di nero, latinoamericano, e di povero. Il "fortino" dei bianchi è diventato uno spazio chiuso (che non guarda più verso l'esterno) nel quale è programmato il ciclo vitale: lavoro, consumo, svago.

Nell'interpretare questo processo, Davis calca sull'aspetto pervasivo e totale dei rapporti che uno spazio così organizzato instaura, e parla (p. 205) della sua "semiotica totalitaria", nella quale si moltiplicano i luoghi strettamente sorvegliati. Si tratta, a mio giudizio, di una chiave di lettura indispensabile ma insufficiente. Proprio la straordinaria proliferazione di rinnovate recinzioni cittadine dimostra che i caratteri totalitari di questa filosofia urbana si sono già fusi con una tendenza che si potrebbe definire 'neo-medioevale'. Una tendenza affascinata dalla 'casa-torre', seppure tecnologica e improntata alla fissazione di una miriade di limiti e confini, che la modernità europea aveva invece concentrato in una sola robusta frontiera, quella dello Stato. Non a caso (pp. 217-218) Davis nota come sia sempre più difficile distinguere - in una città dove la violenza è ormai endemica - la polizia pubblica dalle polizie private. Uno scenario che ricorda, appunto, l'inadeguatezza della coppia pubblico/privato quando essa viene applicata ai rapporti politico-giuridici medioevali.

In altri termini, se si legge Davis ponendo l'accento sull'uso 'benthamiano' e sul potente sistema repressivo delle tecnologie urbane (telecamere, elicotteri, radar ...), si perde di vista la spinta alternativa, 'medioevale', che emerge comunque dalla sua ricostruzione. Una spinta tutt'altro che totalitaria, diretta invece alla frammentazione, alla disgregazione della metropoli. Una frammentazione della quale Davis si accorge quando insiste sul policentrismo del potere a L.A.: Downtown, Westside, Hollywood, con le diverse élites bianche in conflitto per un impossibile controllo della città.

C'è un altro sintomo di una 'medioevalizazione' di L.A.: anche i diritti appaiono gradualmente rispazializzati, fino al caso limite dei quartieri bianchi nei quali vige un controllo d'identità, dentro il quale un nero, ad esempio, non ha più diritto di entrare e muoversi. Altrettanto illuminante è l'enfasi posta da Davis sugli interminabili conflitti tra associazioni di piccoli proprietari, costruttori e amministrazione per stabilire i diritti legati alla proprietà immobiliare. La concretezza della casa e la tutela del suo valore economico è il principale fascio di diritti per i quali lottano gli abitanti di L.A.

Il quarzo è un minerale incolore e trasparente. Nel testo (pp. 88, 110), Davis parla anche della "porosità sociale" di L.A., metropoli che ha sempre disposto di spazi non compatti, dotati di vuoti da riempire. Forse, paragonando al quarzo la 'sua' città, aveva anche in mente la forma del prisma, nella quale il quarzo spesso si presenta. Il prisma è una metafora della falsificazione della realtà. La vità umana che trasuda dalle pagine di Davis possiede, in effetti, alcuni tratti dell'allucinazione.

Nicola Casanova