2005

P.P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003, ISBN 88-339-1454-2

Nel primo dei tre saggi che compongono il libro, Portinaro delinea innanzitutto la biografia di Günther Stern (Anders è uno pseudonimo), il quale nasce da una ricca e colta famiglia ebrea tedesca e si scontra fin da giovanissimo con l'antisemitismo che lo costringerà a emigrare prima a Parigi e poi in America. Gli anni americani sono quelli della frequentazione degli intellettuali legati alla Scuola di Francoforte. Tuttavia la frequentazione non è nel caso di Anders sinonimo di integrazione, tanto è vero che "il suo percorso esistenziale diventa paradigma di una triplice mancata integrazione: alla non-appartenenza come eterno problema dell'ebreo si aggiunge la mancata assimilazione non solo nel paese in cui è emigrato ma anche nel gruppo stesso degli emigranti" (p. 25). Il suo percorso di non integrazione ha però un ulteriore passaggio al momento del ritorno in Germania, ovvero l'impossibilità di creare un vissuto comune con chi ha subito la guerra in casa.

Proprio il confronto con i superstiti convince Anders della necessità di dare voce alla memoria dei defunti con un vero e proprio pellegrinaggio nei luoghi dell'olocausto. Tali luoghi non sono tuttavia solo i campi di concentramento, ma anche Hiroshima e Nagasaki. Proprio riflettendo sulla bomba, come fa notare Portinaro, Anders giunge alla conclusione che la categoria di essere-per-la-morte heideggeriana deve essere ricondotta alla totalità del genere umano, nell'ottica di un'inautenticità della storia testimoniata dal fallimento del processo emancipativo della società tecnologica. Da ciò nasce il suo pessimismo, visto che di fronte al totalitarismo degli stati sembra ancora possibile trovare un riparo mentre di fronte a quello della bomba ogni speranza appare vana. La vita dell'uomo è quindi attesa dell'irreparabile, il principio speranza si capovolge nel principio disperazione e compito dell'intellettuale in questo ambito è solo di urlare un monito, di farsi "esibizionista dell'apocalisse" (p. 31).

Anders, insoddisfatto dall'astratta analitica dell'essere heideggeriana, aveva trovato in Brecht un maestro capace di unire efficacemente teoria e prassi e in Döblin uno straordinario interprete dell'alienazione metropolitana. Proprio nella città descritta da Döblin il modello brechtiano finisce però per apparire poco convincente, visto che teoria e prassi si perdono di fronte "al fantasmagorico impersonale dinamismo di quel tutto" (p. 39). In quest'ottica la passività diviene quindi il fondamento della condizione umana e l'apoteosi di tale condizione è descritta da Kafka, i cui personaggi sono veri e propri apolidi dell'esistenza, incapaci di trovare una loro collocazione nello spazio e nel tempo.

Il comune denominatore degli autori citati appare così, come osserva Portinaro, un "agnosticismo ontologico", cui si accompagna quel "depotenziamento del dover essere" (p. 42) che finisce in Anders per avere, nel procedimento dell'accusa, l'unica possibile modalità d'azione. Partendo da un'ontologia negativa (primato del non-essere sull'essere), Anders arriva quindi a un'antropologia negativa (primato delle cose sull'uomo) e, infine, a una vera e propria "escatologia negativa che assume la forma di una filosofia della fine della storia" (p. 45). Proprio l'approdo a questa conclusione spinge Anders a considerare da un lato l'urgenza della prassi e, dall'altro, la necessità di criticare ogni forma di pensiero ancora connessa all'idea di totalità. Tale critica, particolarmente feroce riguardo alla metafisica heideggeriana, non consente però ad Anders di tirarsi fuori dalle secche del nichilismo. Egli è comunque cosciente di tale limite e, come sottolinea Portinaro, sa bene che l'indignazione morale non è più riconducibile a un imperativo universalmente valido. D'altra parte, come sottolinea ancora l'A., se Anders ritiene veramente che essere e apparire coincidano nell'ente, allora suona paradossale il suo richiamo alla necessità di illuminare la vera realtà. Egli finisce insomma "per negare ogni fondamento alla morale, pur riaffermandone la soggettiva assolutezza, e per dubitare dell'essere, pur continuando a lottare per smascherare l'apparenza" (p. 57).

Secondo Portinaro l'opera principale di Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, parte dal dato della vergogna prometeica che caratterizza l'uomo di fronte alla perfezione degli oggetti da lui stesso creati: nell'epoca del capitalismo avanzato e del conformismo di massa, l'uomo è ormai arretrato rispetto ai suoi stessi prodotti che finiscono per dominarlo e plasmarlo nei suoi fini e bisogni. Tale scarto, definito da Anders dislivello prometeico, è evidentemente uno stato patologico dell'essere umano, che passa disinvoltamente dalla sottomissione nei confronti della tecnica ai deliri di grandezza a essa correlati, non essendo in grado di comprendere appieno le conseguenze della produzione e i nuovi bisogni da essa suscitati. Portinaro evidenzia a questo punto le tre fasi della rivoluzione industriale secondo Anders: l'introduzione del macchinismo, la nascita di nuovi bisogni e, infine, la creazione di mezzi atti a mutare radicalmente l'ambiente e a mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dell'umanità. Proprio in questo ambito Anders, dipingendo un mondo di scienziati-apprendisti stregoni, riprende l'analisi marxiana del feticismo delle merci esasperandola e ammantandola di una luce che risulta "sospesa tra la teoria critica e l'utopia negativa" (p. 67): la tecnica diviene il vero soggetto di una storia che si fissa sul presente cancellando il passato e ogni forma di progetto per il futuro. Le categorie della politica risultano così insufficienti a descrivere una situazione storica in cui si combinano il razionalismo della scienza e l'irrazionalismo della morale. La bomba non è insomma un prodotto negativo di un percorso positivo, ma è piuttosto il prodotto necessario del dominio totalitario della tecnica sull'uomo. Tale situazione dovrebbe, secondo Anders, condurre l'uomo a una forma di angoscia positiva, l'ultima risorsa sociale contro il mondo dominato dalla tecnica.

La disintegrazione delle rassicuranti strutture temporali ottocentesche a cui assisteva Anders è un fenomeno descritto in particolare, come fa notare Portinaro, dalla letteratura anti-utopica. La prima opera andersiana, Die molussische Katakombe, è proprio un'utopia negativa e in essa si "delinea già quel corpo a corpo tra principio speranza e principio disperazione che si risolverà nel capovolgimento della blochiana filosofia del non-ancora" (p. 102). Nelle prigioni molussiche i dissidenti politici protagonisti del romanzo si interrogano sulla rivoluzione ed elaborano una complessa teoria che risulta però inutile nel momento in cui l'ultimo discepolo si ritrova senza nessuno a cui trasmettere il proprio sapere. Il partito rivoluzionario inoltre, come si apprende dall'appendice del libro, sacrifica i propri militanti e la rivoluzione ha dunque luogo, ma in modi e tempi che non hanno niente a che vedere con il sapere tramandato nelle catacombe.

Secondo Portinaro l'influsso di Brecht sulla prima opera di Anders risulta evidente. Tuttavia è solo dopo l'esperienza dell'esilio che "all'illuminismo materialisticamente demistificato e al moralismo nichilisticamente inacidito dei dialoghi molussici subentra l'attenzione per una tonalità emotiva che arresta, sia pure illusoriamente, il corso del tempo: l'angoscia" (p. 107). Tale sentimento, frutto del passaggio dell'umanità alla fase post-storica del dominio conformizzante della tecnica, non deve tuttavia essere paralizzante: solo l'angoscia può infatti ingenerare nel militante la forza della disperazione. Nonostante ciò, come dice Portinaro, non appare del tutto chiaro fino a che punto Anders sia riuscito a evitare di rimanere impigliato nel suo stesso immaginario distopico. Quanto più infatti "la fenomenologia del mondo sociale avanza in direzione della demolizione del soggetto, tanto più velleitari appaiono i richiami moralistici a un risveglio delle facoltà umane e a una rianimazione della coscienza" (p. 120).

Nel terzo capitolo Portinaro nota come la filosofia della tecnica di Anders, che ha le sue radici in Heidegger, porti con sé sia "il superamento della [sua] concezione strumentale" sia, sulla base dell'idea di dislivello prometeico, "il superamento dell'orizzonte antropologico" (p. 127). Se il primo input di Anders proviene da Heidegger, il secondo deriva però dalla Scuola di Francoforte. A essa infatti egli è unito nella "diagnosi della dinamica della modernità come trionfo della ragione strumentale e come impotenza della ragione legislatrice in ambito morale e politico" (p. 133). Base comune dei francofortesi e di Anders era poi la teoria dell'alienazione in Marx che però, radicalizzata dall'Autore di Die Antiquiertheit des Menschen, finiva per produrre, paradossalmente, proprio la paralisi della prassi. Particolarmente significativo è poi il confronto istituito da Portinaro tra Anders e la Arendt, visto che essi, sulla base di una comune matrice heideggeriana, giungono a esiti totalmente differenti. La Arendt, partendo dall'idea (problematica) della totale distinzione tra sfera politica ed economica, elabora infatti un'analisi delle facoltà umane che riprende da Marx l'importanza del lavoro come fondamento della vita pubblica e, allo stesso tempo, denuncia l'idea marxiana della politica come "razionalità strategica" e l'incapacità dello stesso Marx nel distinguere tra "processo lavorativo e fabbricazione" (p. 143).

Anders arriva invece alla conclusione che sia il fabbricare che l'agire sono attività obsolete e che solo il servire può essere effettivamente connesso a un mondo dominato dalla tecnica. Proprio in tale esito, tuttavia, Portinaro individua lo scacco della filosofia andersiana, visto che egli, predicando l'apocalisse, finisce per perdere di vista la dimensione della prassi. Nella filosofia di Anders, in un mondo in cui la morale risulta ineffettiva e priva di fondamento, resta poco chiaro infatti "il rapporto che si dovrebbe costruttivamente attivare tra angoscia, sapere e responsabilità" (p. 152). Nella visione di Anders il Novecento ha prodotto insomma un crescendo di orrore culminato nella bomba atomica che, lanciata da una democrazia, diviene il mezzo totalitario per eccellenza e sancisce la morte della democrazia stessa, soffocata dal totalitarismo della bomba e dei mass media. Come nota Portinaro quindi, di fronte a tale panorama, a un Anders ormai anziano ed esacerbato non rimane altro strumento se non quello della denuncia morale e, in ultima analisi, della violenza. La violenza tuttavia, non solo è inefficace perché portata da pochi Davide di fronte a un immane Golia, ma inoltre, come afferma l'A. sulla scorta della Arendt, "non costituisce il potere, isola e non unisce, è il riflesso di quella frammentazione eremitica che caratterizza l'umano nel mondo della tecnica" (p. 173).

I tre saggi de Il principio disperazione discutono un autore poco praticato e irriducibile a qualsivoglia corrente politica o ideologica contemporanea. Afferma però Portinaro che proprio da tale irriducibilità potrebbe oggi scaturire un'importante base di confronto. Infatti, proprio l'attuale prevalenza di temi arendtiani nell'ambito di una visione consolante di stampo cattolico potrebbe portare a una "retorica della rassicurazione" rispetto a cui il principio disperazione andersiano, contrapposto al principio speranza di Bloch e al principio responsabilità di Jonas può "servire da antidoto", permettendo - ed è quantomeno auspicabile - di "pensare con più radicalità le antinomie del nostro tempo" (p. 9).

Valerio Martone