2014
Renata Pepicelli (a cura di),
Le donne nei media arabi. Tra aspettative tradite e nuove opportunità,
Carocci, Roma 2014
Recensione di Lucia Re
Il volume curato da Renata Pepicelli per Carocci, Le donne
nei media arabi. Tra aspettative tradite e nuove opportunità, nato
all’interno del progetto “Arab Media Report” (www.arabmediareport.it),
fornisce interessanti spunti di riflessione sul ruolo delle donne arabe
nei media, prima e dopo la cosiddetta “Primavera araba”, con
riferimento a tre principali paesi: Egitto, Tunisia e Marocco. I saggi
raccolti, scritti da studiose e giornaliste che da tempo si occupano di
comunicazione e relazioni di genere nei paesi arabi, offrono dati e
analisi sui mutamenti intercorsi negli ultimi anni non soltanto nei media
tradizionali, ma anche nei nuovi media, i quali hanno
avuto un ruolo di primo piano nelle rivolte nordafricane e
mediorientali. Sono stati proprio i social media a consentire a
cittadini e attivisti e, ancor più, a cittadine e attiviste di superare
le diverse forme di censura e intimidazione attuate dai regimi. Essi
hanno inoltre consentito il diffondersi a livello globale di una nuova
immagine femminile. Improvvisamente ci si è dovuti accorgere, anche in
Occidente, che l’immagine orientalistica della donna musulmana, velata
perché sottomessa, non si adattava alle molte donne arabe, laiche e
credenti, da anni attive nelle società dei loro paesi. I nuovi media
dunque hanno dato una inedita visibilità all’attivismo
femminile, anche grazie alla protezione dell’anonimato che essi
consentono. L’ampia fruizione del web da parte delle donne ha
inoltre favorito l’appartenenza di queste a molteplici reti, generando,
come sostiene nel suo saggio Sara Borrillo: “forme nuove di
rappresentatività non afferenti alla sola sfera virtuale, ma anche
all’esperienza di vita reale” (p. 101).
Vi sono significativi punti di contatto fra l’attivismo delle
donne online e il loro protagonismo nella società. Se, come
sottolinea nel suo contributo Cecilia Dalla Negra, le utenti dei nuovi media
non possono essere considerate del tutto rappresentative della realtà
delle donne arabe offline, è certo però che la rete ha permesso
di “veicolare messaggi che difficilmente in passato avrebbero trovato
spazio nell’arena pubblica” (p. 50), agendo come strumento di “gender
equalizer”.
Come Renata Pepicelli afferma nella Introduzione al volume, i
saggi raccolti illustrano non solo come vengono rappresentate le donne
nei media arabi, ma anche come esse si autorappresentano e che
cosa è cambiato nel processo di rappresentazione femminile con le
rivolte arabe e il successivo avvento al potere di partiti islamisti
(p. 18). Ne esce fuori un quadro complesso, sia perché esso varia da
paese a paese, sia perché i modelli femminili proposti dai media e
introiettati dalle donne protagoniste del dibattito pubblico – siano
esse attiviste, politiche o giornaliste – sono plurali. Anche i diversi
governi nazionali dopo le rivolte sembrano contribuire a diffondere una
immagine non uniforme delle donne arabe. Abbandonato il cosiddetto
“femminismo di Stato”, compromesso con la repressione delle opposizioni
e la censura operata dai regimi nei confronti dei movimenti femministi
non allineati con il potere, i governi di Egitto, Tunisia e Marocco si
sono trovati costretti ad assecondare il rinnovato protagonismo delle
donne. Essi, in parte, hanno tollerato una loro maggiore presenza nella
sfera pubblica, in parte, hanno cercato di ricondurre il cambiamento in
atto nell’alveo della tradizione, riproponendo l’immagine della donna
che, pur adottando uno stile di vita contemporaneo influenzato dalla
“cultura globale”, rimane legata alla religione e alla famiglia. In
alcuni casi, ad esempio in Marocco, la promozione di questo modello
femminile è passata anche attraverso riforme istituzionali e
l’attribuzione alle donne di nuove responsabilità nella sfera sociale e
religiosa.
Ancora una volta, non si può negare che la pluralizzazione
dell’immagine femminile si deve in primo luogo all’innovazione
tecnologica e alla diffusione sia dei nuovi media che delle tv
satellitari, come mostra l’analisi di Pepicelli sulle musalsalat,
le soap operas in lingua araba. L’autrice evidenzia la
nascita di un nuovo genere “che non è riconducibile né a un format di
solo intrattenimento, né a un progetto nazionalista di educazione e
propaganda strettamente in linea con le direttive governative e
approvato dalla censura di Stato”, un “genere ibrido”, che parla a un
pubblico non omogeneo (p. 38).
Accanto alla innovazione tecnologica, come strumento di empowerment
delle donne arabe, sono servite anche forme di rappresentazione più
vecchie, come il cinema, cui è dedicato il contributo di Carolina
Popolani, o i graffiti, che, in particolare al Cairo, sono stati
utilizzati come un potente mezzo di comunicazione, finendo per creare
uno spazio comunicativo alternativo a quello gestito dalla nuova
dirigenza islamista sulle principali tv del paese. I murales,
spesso fotografati e diffusi sul web, hanno colpito
l’immaginario collettivo non soltanto egiziano, evidenziando quello che
Azzurra Meringolo chiama nel suo saggio il “paradosso di genere” (p.
61), ovvero il fatto che la presenza nei media e nella società
di molteplici modelli femminili e il protagonismo delle donne faticano
a trovare un adeguato riscontro nelle istituzioni. Questo “paradosso di
genere” ritorna nelle analisi di Maryam Ben Salem e Atidel Majbri sulla
visibilità dei politici donna in Tunisia e in quella sulle giornaliste
televisive svolta da Leila El Houssi. Questi sono forse i saggi del
volume che offrono maggiori spunti di riflessione alle donne che vivono
sulla sponda Nord del Mediterraneo, soprattutto in un paese come
l’Italia che, negli stessi anni in cui scoppiavano le rivolte arabe, ha
visto i movimenti delle donne riprendere vigore e conquistare una nuova
visibilità pubblica.
Ben Salem e Majbri non si limitano a notare come dopo la
grande attenzione mediatica riservata alle donne tunisine durante la
Rivoluzione del gelsomino queste siano nuovamente state messe
nell’ombra. Le autrici indagano anche sulla autorappresentazione delle
donne tunisine impegnate in politica e sulla scarsa importanza che esse
sembrano attribuire alla visibilità mediatica. Ritroviamo qui – mi pare
– l’eco di un dibattito che si è svolto anche nei e tra i movimenti
femministi italiani degli ultimi anni. Mi riferisco alla vivace
dialettica che si è sviluppata fra le donne convinte che la visibilità
mediatica sia di fondamentale importanza per uscire dall’impasse
in cui il femminismo sembra loro trovarsi e le donne persuase che la
visibilità mediatica non sia opportuna e che, anzi, essa contribuisca a
focalizzare le battaglie femministe su pochi obiettivi tanto largamente
condivisi, quanto poco utili alla affermazione della differenza di
genere (penso in particolare alla contrapposizione, sebbene non sempre
esplicitata, fra il movimento “Se non ora quando?” e altre più antiche
organizzazioni femministe).
Ben Salem e Majbri muovono dall’assunto che la visibilità
mediatica conferisce ai politici donna la legittimazione a partecipare
alla sfera pubblica, sancendone lo status di attori politici
(p. 75). La copertura mediatica, inoltre, opera, secondo le autrici, un
effetto selettivo sui politici rafforzando l’idea che chi compare sui media
è un politico importante. Essa influenza il riconoscimento dei politici
sia da parte dell’opinione pubblica, sia da parte dell’organizzazione
politica e dei suoi membri (ivi). In questo quadro, va inserita
l’analisi sia dell’immagine della donna veicolata dai mezzi di
informazione, sia della diffusione dell’insulto sessista nei media.
Quest’ultimo può infatti essere valutato come una vera e propria arma
politica largamente impiegata contro i politici donna (e anche su
questo la realtà italiana, insistentemente denunciata da personaggi
pubblici come la Presidente della Camera Laura Boldrini, appare simile
a quella tunisina).
Ad apparentare sponda Nord e sponda Sud del Mediterraneo è
anche l’assenza di problematizzazione delle relazioni di genere sui media,
la quale contribuisce alla formazione di un ordine “spontaneamente
sessista” (p. 76). In Tunisia, come evidenzia Leila El Houssi, a fronte
di un settore della informazione che si è progressivamente
femminilizzato, si assiste ad una scarsa presenza delle donne nei ruoli
dirigenziali del settore mediatico. Le donne politiche, esperte o
portavoce sono inoltre sottorappresentate nei programmi di
informazione. Esse non sono quasi mai una “fonte di notizia”. E ciò
benché la presenza delle donne in politica sia aumentata dopo le
rivolte. Le informazioni per lo più rafforzano gli stereotipi di
genere. Si può dunque parlare in proposito di una “semi-invisibilità
mediatica” che “riduce significativamente il potere simbolico
dell’attivismo politico femminile” (p. 77). Come accennato, tale stato
è in parte dovuto alla resistenza degli stereotipi di genere, in
primis presso i diversi attori del mondo dell’informazione, in
parte allo scarso rilievo che molti politici donna attribuiscono alla
visibilità sui media. Grazie a una ricerca tramite interviste a
41 politici donna, Ben Salem e Majbri hanno infatti potuto mettere in
luce come queste diano in maggioranza importanza alle relazioni “faccia
a faccia” (potremmo dire “in presenza” per citare una espressione
utilizzata da una parte del femminismo italiano). Molte donne vedono
inoltre nella ricerca di visibilità mediatica un mero esercizio di
narcisismo. Le autrici giudicano negativamente questo atteggiamento,
considerandolo un segno della carenza di strategie di visibilità
mediatica delle donne sia a livello individuale che collettivo. E
tuttavia, forse da questa ricerca potrebbero essere sviluppate analisi
più approfondite sulla politica delle donne, non solo in Tunisia,
analisi che potrebbero – mi permetto di suggerire – condurre anche a
giudizi diversi circa le strategie messe in campo. La politica delle
donne può forse essere diversa anche nel cercare forme di comunicazione
che siano in grado di trasformare lo spazio pubblico sia reale che
virtuale. Privilegiare le relazioni interpersonali, fare rete,
rifiutare il culto della personalità, sono comportamenti che, invece
che configurare una debolezza delle donne, potrebbero divenire i
tasselli di una diversa strategia comunicativa delle donne sia al di là
che al di qua del Mediterraneo.