2005

A. Petrillo, La città delle paure. Per un'archeologia dell'insicurezza urbana, Elio Sellino Editore, Napoli 2003, pp. 246, ISBN, 88-88991-00-X

Questo libro, frutto di un lavoro minuzioso e pedissequo che tiene assieme la teoria sociale e la ricerca etnografica, prevalentemente svolta attraverso i metodi dell'osservazione partecipante e dell'uso qualitativo delle interviste, parte da un episodio di cronaca. Siamo a Genova, l'anno è il 1993, il quartiere è il centro storico, i bersagli sono gli immigrati, gli agitatori sono i cittadini. Per tre giorni si scatena la bagarre tra le creuze, per tre giorni i cittadini si auto-organizzano per riprendersi il "loro" centro storico utilizzando metodi intimidatori e polizieschi: ronde e pogrom. La notizia "buca lo schermo" ed insieme ad altre di quegli anni contribuisce a generare un nuovo "discorso" per un nuovo "fenomeno" sociale. Il discorso è quello sulla "sicurezza", il fenomeno che lo mette in pericolo si chiama "immigrazione". A partire da quella data Genova si riempie di "comitati dei cittadini del centro storico" che chiedono, così come traduce Antonello Petrillo, "più pulizia" contro il degrado fisico del luogo e "più polizia" contro il degrado umano. L'arrivo degli immigrati, infatti, ha creato forme di paura e sconcerto tra gli autoctoni e quindi gli stessi immigrati non possono che essere: 1) i principali responsabili dell'incremento di economie parallele ed illegali; 2) i fautori di disordini e di pratiche di vita quotidiana devianti ed incivili; 3) i responsabili del degrado del quartiere.

Dalla documentazione minuziosa raccolta nel testo si evincono dati importantissimi per comprendere le mutazioni antropologiche e sociali di cui è partecipe la città di Genova. Per comprendere il fenomeno dei comitati non si può che sottolineare l'importanza di tre griglie interpretative che, a loro volta, non possono che diventare dei modelli attraverso cui cogliere il senso stesso di queste pratiche sociali votate all'auto-organizzazione: il modello del razzismo, il modello della reazione di difesa, il modello della guerra fra poveri.

Superato l'impatto fisico attivato contro i tanti immigrati-delinquenti che ha generato i fatti del '93, le pratiche discorsive dei comitati cambiano tonalità spostandosi su un nodo argomentativo che, più o meno, finisce per accomunarli tutti. I comitati, infatti, superata la fase delle discussioni e dell'organizzazione, costruito o meno il rapporto con le istituzioni locali non chiedono più "punizioni esemplari" per i colpevoli ed i responsabili del degrado ma qualcosa di più complesso: la rimozione di qualsiasi forma di rischio.

Tale istanza ha come presupposto base - come sostiene l'a. - il bisogno comune di rapportarsi all'immigrazione pensandola come una minaccia per l'ordine pubblico. E l'immigrazione, a sua volta, genera nei cittadini due piani di senso ed azione, il primo è quello della ragione, il secondo è quello dell'emozione. A volte i due piani si fondono e generano processi di razionalizzazione emotiva e forme di emozionalizzazione razionale, insomma si ha ragione ad avere paura degli immigrati e, contemporaneamente, si ha paura degli immigrati perché ci sono delle ragioni per cui ciò accada ("se sono disoccupati sono tutti dei delinquenti" pronti ad attentare l'ordine pubblico del quartiere, "se sono occupati sono in ogni caso diversi, le donne mettono il chador ed hanno abitudini troppo strane").

Lo studio di caso dei comitati dei cittadini per la sicurezza, però, dice molto di più. L'analisi delle fonti e della documentazione usata da Petrillo, infatti, apre a tematizzazioni più grandi ed importanti del caso in sé, scioglie ed annoda meccanismi politici e sociali che stanno oltre Genova e che attraversano anche i mutamenti concettuali delle scienze sociali. Innanzitutto la domanda che occorre porsi è: perché dei cittadini, quasi sempre ignari delle forme partecipative della politica si uniscono per "proteggersi" dagli immigrati? E cosa vogliono dallo Stato nei casi in cui lo riconoscono come soggetto politico? I comitati sono, contemporaneamente, l'effetto di un duplice movimento, da una parte essi nascono perché si va strutturando un progressivo ritiro dello Stato dall'intervento nel sociale (crisi del Welfare), dall'altra vi è un tentativo di ridefinizione dello Stato stesso ma nella veste della costruzione di un presidio difensivo permanente (la sicurezza) che avalla il nesso pericolosità sociale/ordine pubblico sulla scia della produzione di discorsi mass-mediatici.

Petrillo utilizza le analisi di Foucault per esplicitare meglio le modalità attraverso cui si costruiscono socialmente le stigmatizzazioni dell'altro ed in questo caso dell'immigrato. I discorsi, infatti, producono un potere in grado di costruire pratiche, universi di senso ed eventi materiali e, quindi, sono anche in grado di costruire tanti "razzismi possibili": un razzismo generato da forme di allarmismo sociale, un razzismo concorrenziale che si fonda sulla difesa materiale del proprio spazio e delle proprie risorse, un razzismo culturale o, come è stato definito da Etienne Balibar, un razzismo differenzialista e, verrebbe da aggiungere, un razzismo di Stato che, non riuscendo più ad essere sociale, si avvale della "sicurezza" per chiudere, reprimere, ingabbiare.

L'ideologia della sicurizzazione che ormai pervade gran parte dell'organizzazione del sociale ha una dimensione oggettiva ("sicurezza come assenza di pericolo") ed una dimensione soggettiva ("sicurezza come sentimento di colui che vuole ritenersi al riparo dal pericolo"). Tale dinamica, all'interno di un sistema di crisi del Welfare, trasforma il concetto stesso di pericolo in "rischio" e, ci dice Antonello Petrillo, attiva anche una trasformazione della paura. Se un tempo si aveva paura solo degli eventi legati alla natura, oggi, gran parte delle paure sono di tipo "relazionale" : «La paura contemporanea sarà, dunque, sempre piu paura del rischio. Con lo Stato sociale, l'insicurezza diviene specchio negativo di una sicurezza dotata di caratteri propri e fortemente storici». Ciò che è in gioco non è più "la sicurezza sul lavoro" ma la sicurezza stessa del lavoro, dell'istruzione, del diritto alla cura.

Si ha paura del rischio, quindi, della mancanza di risorse, della fine del lavoro, del potenziale delinquente-immigrato e non della realtà materiale che attraversa il mondo. Si ha paura dell'altro, però, solo perché noi stessi induciamo l'altro a divenire quel che nessuno vorrebbe divenire, "noi" in quanto mondo globalizzato, in quanto sistema sociale, politico ed economico. Il nesso sicurezza-rischio-prevenzione, allora, non può che generare meccanismi di esclusione a priori che attraversano il fuori ed il dentro delle nostre società contemporanee pervadendo qualsiasi tipo di relazione sociale.

Non lo dice solo certa sociologia militante, lo dicono anche e soprattutto gli esponenti dei comitati dei cittadini per la sicurezza.

Anna Simone