2008

Z. Bauman, Liquid Fear, Polity Press, Cambridge 2006, trad. it. Paura liquida, Laterza, Bari 2008, ISBN 978-88-420-8162-3

La paura più temibile, legata alla dimensione dell'incertezza, è quella "diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari" (p. 4). Essa, secondo Bauman, può derivare essenzialmente da tre tipi di pericoli: le minacce dirette al nostro corpo e ai nostri averi, le minacce alla stabilità e all'affidabilità del nostro ordinamento sociale e, infine, le minacce che possono colpire la nostra collocazione sociale. Tutte queste minacce sono sempre presenti e il loro numero cresce di giorno in giorno.

L'Illuminismo, osserva Bauman, prometteva di liberare l'uomo dalle sue paure tramite un uso accorto della ragione, ma il mondo di oggi appare ben differente rispetto alle premesse ottimistiche della modernità. Gli uomini passano gran parte della loro esistenza a calcolare i rischi legati ai loro comportamenti, ben sapendo che l'imponderabile è sempre in agguato. Oggi è insomma visibile una vera e propria sindrome del Titanic, con la differenza fondamentale che gli iceberg in agguato sono molti ed aumentano esponenzialmente di giorno in giorno. La fonte più terrificante di paura, "l'irruzione del possibile nell'impossibile" (p. 20), ovvero il verificarsi improvviso e inaspettato di qualcosa di inimmaginabile, è sempre presente ed eventi come l'uragano Katrina e la conseguente implosione dell'ordine sociale a New Orleans sono lì a testimoniarlo. La sindrome del Titanic è quindi, in ultima analisi, il terrore che la patina della civiltà di fronte ad eventi traumatici e inaspettati possa rompersi. Ciò che terrorizza nella vicenda del Titanic non è l'iceberg, ma la mancanza di apparati di sicurezza efficaci sulla nave che affonda, cosa che ci mette tutti nella condizione di temere per noi stessi, tanto più nella nostra società atomizzata, in cui ogni forma di solidarietà sociale sembra del tutto assente.

Dopo aver introdotto la dimensione della paura nell'ambito della modernità-liquida, Bauman si confronta con alcuni dei timori fondamentali dell'uomo, a partire dal timore della morte. Secondo Bauman "tutte le culture umane possono essere decodificate come ingegnosi congegni che rendono la vita vivibile, nonostante la consapevolezza della morte" (p. 41) e le strategie che vengono adottate a questo scopo sono innumerevoli, ma essenzialmente riconducibili a tre tipologie base. La prima di esse consiste nell'immaginare una qualche forma di sopravvivenza oltre la morte. La seconda strategia consiste nello spostare l'attenzione dalla morte in sé alle cause di essa, che prese una per una possono in qualche modo essere efficacemente affrontate e contrastate, mentre la terza strategia è essenzialmente quella di banalizzare la morte stessa attraverso vere e proprie prove metaforiche di morte che l'uomo moderno vive continuamente nell'ambito dei propri rapporti sociali ed affettivi. La paura della morte, al di là di tutte le strategie atte ad eliminarla, risulta però alla fin fine inestirpabile, portando con sé innumerevoli fonti di manipolazione per chi desideri utilizzarla per i propri fini.

Strettamente connesso all'idea di paura è poi il concetto di male, ma secondo Bauman dare una risposta alla domanda sul male è impossibile, visto che esso è, semplicemente, tutto ciò che, inesprimibile e inesplicabile, rompe gli schemi razionali in cui tendiamo a racchiudere il mondo che ci circonda. L'incomprensibilità del male è però un'idea relativamente recente. Per secoli infatti si è ragionato in termini di peccato e castigo e quindi il male era ricondotto alla dimensione della morale. Come tuttavia Bauman nota ciò non teneva conto del problema lasciato aperto dalla vicenda di Giobbe, ovvero il racconto del male immeritato, che rompeva necessariamente lo schema rigido del peccato a cui succedeva il castigo. Tale problema fa il suo ingresso nella storia della modernità con il terremoto di Lisbona del 1755, che rade al suolo un'intera città, colpendo indistintamente poveri e ricchi, buoni e cattivi. Proprio la distruzione di Lisbona fa sì che i filosofi scindano i disastri naturali, caratterizzati dalla loro casualità, dai mali morali, caratterizzati invece dalla loro intenzionalità. Da allora l'uomo ha sempre cercato di eliminare il male dalla propria esistenza tramite la ragione e la scienza, ma questo compito ha subito il suo ultimo e più decisivo scacco con la tragedia di Auschwitz. Il male moderno si è concretizzato infatti nella volontà razionale e burocratica di Eichmann di fare un lavoro ben fatto, indipendentemente dalle conseguenze che tale lavoro comportava. Il tentativo della modernità di risolvere razionalmente il problema del male finisce insomma, paradossalmente, per riprodurre su basi umane le meccaniche asettiche e casuali con cui la natura colpiva l'uomo: la figura di Eichmann, nella sua squallida e spaventosa banalità, ci indica che tutti potremmo essere vittime e tutti, avendo a disposizione il potere razionale della modernità, potremmo diventare carnefici. Proprio perciò l'altro è per noi solo "una vaga e confusa minaccia" e "mantenere le distanze ci appare il solo modo razionale di procedere" (p. 87).

Ulteriore paura dell'uomo è nei confronti di ciò che non può essere gestito e, a questo proposito, sono indicativi il timore del nucleare, ma anche quello di rendere il pianeta inabitabile. Solo una minima parte del genere umano gode realmente dei beni derivanti dal progresso e ciò produce una diseguaglianza intollerabile, ma non superabile. Se infatti il resto del mondo si adattasse agli standard di vita occidentali il pianeta collasserebbe inevitabilmente. D'altra parte proprio il mondo occidentale, perseguendo freneticamente il benessere, non fa altro se non creare danni per poi interrogarsi sulle modalità per porvi rimedio, secondo la logica del "chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati" (p. 96) e senza rendersi conto che le stalle da chiudere si moltiplicano sempre di più. La mentalità moderna tende insomma ad identificare, diagnosticare e risolvere un problema per volta, senza rendersi conto che la risoluzione stessa, in mancanza di una visione prospettica adeguata, rischia di generare ulteriori problemi che finiscono per sommarsi ai precedenti.

Il progresso causa quindi una serie di problematiche connesse l'una all'altra, ma rende anche una parte del genere umano sicura come non mai. Ma quale parte? Bauman si rifà a questo proposito al disastro dell'uragano Katrina a New Orleans, dove è apparso evidente che la popolazione maggiormente colpita era quella più povera, afro-americana o ispanica, impossibilitata a procurarsi i mezzi atti alla propria sopravvivenza. La protezione dell'uomo di fronte ai capricci della natura era una delle promesse della modernità, ma tale promessa si è realizzata selettivamente, in gran parte sulla base del censo e della razza. Le conseguenze dei disastri naturali perdono insomma le connotazioni di cecità e casualità che avevano acquisito dopo la tragedia di Lisbona del 1755 e sembrano sempre più connesse all'ambito specificamente culturale ed umano. D'altra parte il male umano, burocratizzato e spersonalizzato, incarnato nella figura di Eichmann, acquisisce sempre più le caratteristiche di cecità e casualità di solito attribuite alla natura.

Al timore della morte, del male e dell'ingestibile Bauman aggiunge il terrore del globale poiché, secondo quanto egli afferma, "finora la nostra è una globalizzazione totalmente negativa" (p. 120), visto che ad essersi effettivamente globalizzati sono più che altro i commerci, i capitali, le informazioni, la coercizione e le armi. Tutto ciò impedisce sicurezza e giustizia all'interno dei singoli stati e crea terreno fertile per il proliferare del nazionalismo, del fascismo, del fanatismo, del terrorismo e, più in generale, della paura. In un mondo strettamente interdipendente, infatti, il calcolo dei rischi legati alle nostre azioni è di fatto impossibile e la capacità di assumersi responsabilità di fronte al moltiplicarsi delle possibili conseguenze di esse è sempre più difficile. Oggi viviamo insomma in un mondo dominato dall'incertezza, in cui, come traspare clamorosamente dalla guerra al terrorismo, i rimedi sembrano ben peggiori dei mali e le facili risposte del fanatismo religioso e, in ambito secolare, di politiche securitarie di stampo totalitario attecchiscono con particolare facilità. La paura nasce dall'incertezza del presente, dal timore del futuro e dall'impotenza di fronte alle minacce della globalizzazione negativa e l'unica soluzione sembra essere quella di elaborare nuovi strumenti politici, che consentano "alla nostra politica di ascendere al livello a cui è già arrivato il potere, mettendoci così in grado di riconquistare ed esercitare un controllo sulle forze che plasmano la nostra condizione comune" (p. 160).

Gli uomini più sicuri della storia dell'umanità sono anche, paradossalmente, i più spaventati. La tecnologia infatti, utile contro disastri naturali e malattie, si è rivelata del tutto inefficace davanti all'ostilità e all'inimicizia tra gli uomini. Inoltre con l'attuale globalizzazione dell'economia lo stato si è trovato a dover cedere posizioni rispetto al mercato su tutte le questioni attinenti al Welfare State, cosa che ha aumentato a dismisura i timori dei cittadini, sempre più abbandonati a se stessi in ambiti in cui la dimensione individuale risulta del tutto insufficiente. La paura quindi aumenta e diviene una sorta di "capitale liquido, pronto per ogni genere di investimento" (p. 180), sia di carattere commerciale che di carattere politico. Proprio il potere politico infatti, oggi fortemente ridimensionato nelle sue prerogative a causa della globalizzazione, trova la propria fonte di legittimazione nella garanzia dell'incolumità personale che è capace di dare ai cittadini. Tuttavia tale garanzia deve essere costantemente esibita, e si assiste quindi, da un lato, all'escalation di esibizioni muscolari da parte dello stato e, dall'altro, all'incentivazione delle paure (e quindi del bisogno di sicurezza) tramite i mass-media.

La conclusione della lucida analisi di Bauman, pessimistica ma anche aperta alla speranza, è una riflessione sul ruolo degli intellettuali, che si trovano, come sempre, presi nel dualismo tra teoria e prassi, ovvero nell'impossibilità di veder realizzate nel concreto le loro analisi teoriche. Ma tutto ciò, secondo Bauman, non deve esimere dal pensiero, poiché proprio gli intellettuali hanno il "dovere della speranza", in un contesto in cui, rispetto al passato, "solo la dimensione dello spreco e dell'ingiustizia è cambiata", visto che "entrambi hanno ormai scala planetaria" (p. 218). Il problema dell'emancipazione del genere umano è insomma ancora attuale e la globalizzazione sarà veramente una "catastrofe ineluttabile" (p. 220), a meno che, anche attraverso le analisi degli intellettuali stessi, non si recidano le radici di quelle paure che, di fatto, hanno spinto gli uomini in un vero e proprio circolo vizioso.

Valerio Martone