2006

W. Kymlicka, A. Patten (eds), Language Rights and Political Theory, Oxford University Press, Oxford 2003, p. 350, ISBN 0-19-926291-8 (paperback)

Fino agli anni novanta del secolo scorso, sostengono Alan Patten e Will Kymlicka nell'introduzione a questa raccolta di saggi, l'interesse per la tematica dei diritti linguistici era praticamente inesistente. Contribuiva a questo stato di cose il sostanziale monolinguismo dei quattro Stati egemoni in campo culturale: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania. A partire dal crollo del blocco sovietico, tuttavia, questa situazione è mutata profondamente: non solo il tema dell'identità - non solo linguistica - è divenuto centrale nei nuovi Stati ex comunisti, ma quasi di riflesso, anche all'interno dell'Occidente il dato finora indiscusso dell'unità linguistica intrastatale ha cominciato a incrinarsi. Il risultato è stato l'accendersi di un dibattito quasi del tutto inedito che ha interessato non solo i casi tradizionali di Stati multilinguistici come il Canada e la Svizzera ma anche fenomeni più recenti come il multilinguismo connesso ai processi migratori internazionali.

D'altra parte è abbastanza ovvio che la discussione delle tematiche relative al ruolo politico delle differenze linguistiche e agli strumenti giuridici designati per disciplinarne gli effetti debba rivestire un ruolo di primo piano in un mondo globalizzato. Tanto più in quanto le questioni connesse alla dimensione politica della lingua sono profondamente sfaccettate e articolate al loro interno: dalle scelte delle istituzioni relativamente a quale lingua adottare come lingua ufficiale, ai problemi collegati all'esercizio del diritto di difesa per gli imputati che non parlano la lingua del paese nel quale sono sottoposti a procedimento penale, alle politiche relative all'istruzione pubblica. Si tratta evidentemente di nodi problematici che non è possibile sciogliere, come notano Patten e Kymlicka, invocando la tradizionale strategia liberale del «benign neglect», l'indifferenza del potere politico verso le scelte che concernono la vita privata dei cittadini, né ricorrendo ai cataloghi abituali dei diritti dell'uomo. Queste carenze mettono in luce, concludono persuasivamente Patten e Kymlicka, la necessità di una teoria normativa dei diritti linguistici, che prenda posizione rispetto a una serie di opzioni: i diritti linguistici devono configurarsi come diritti di tolleranza o diritti promozionali? Come diritti individuali o come diritti collettivi? Il regime di tali diritti deve orientarsi sulla base del principio di territorialità o di personalità? Deve essere improntato verso l'individuazione di un insieme ristretto di lingue ufficiali o deve indirizzarsi verso la previsione di regole di accomodamento per un insieme di lingue più vasto? E proprio su alcuni aspetti di una teoria normativa di questo tipo si soffermano i saggi raccolti in Language Rights and Political Theory.

Volendo tracciare una mappa generale del contenuto del volume si può fare ricorso a un'altra dicotomia, proposta da François Grin nel suo contributo: il fenomeno della differenza linguistica, sostiene Grin, è legato a una dimensione di conflittualità, perché chiama in gioco gli interessi in contrasto di comunità differenti, eppure la stessa persistenza dei presupposti di questa conflittualità è attualmente posta a repentaglio, dal momento che, secondo le stime più attendibili, una larga fetta delle lingue parlate nel mondo scompare ogni anno. La diversità linguistica è in questo modo conflittuale e minacciata allo stesso tempo. Una duplicità di prospettive che si riflette, come dicevo, nei temi dei saggi raccolti: alla dimensione conflittuale del fenomeno della differenza linguistica sono dedicati i primi sei saggi che compongono il volume, mentre i quattro testi seguenti esplorano principalmente il tema della difesa delle lingue in via di scomparsa. Chiudono il volume due saggi incentrati sul confronto tra principio di territorialità linguistica e principio di personalità. Per quanto concerne i primi capitoli, prevalenti risultano le problematiche connesse con l'accomodamento delle differenze all'interno dei paesi nei quali coabitano diverse comunità linguistiche - come il Canada, la Svizzera, il Belgio, ma anche gli Stati Uniti, dato l'aumento sempre crescente dei cittadini di origini ispaniche. Dai contributi raccolti emerge una stimolante varietà di impostazioni: ai saggi più o meno improntati ai canoni dell'ortodossia liberale, come quelli di Ruth Rubio-Marìn (Language Rights: Exploring the Competing Rationales), di David Laitin e Rob Reich (A Liberal Democratic Approach to Linguistic Justice) e soprattutto di Thomas Pogge (Accomodation Rights for Hispanics in the United States) fanno da contraltare altri testi orientati in direzione di una revisione multiculturalista del paradigma. Particolarmente emblematica dell'approccio liberale è la proposta formulata da Pogge per il caso delle minoranze di origine ispanica all'interno degli Stati Uniti: secondo Pogge le decisioni in merito alla politica educativa - decisioni relative alla possibilità di consentire ai figli delle famiglie ispaniche di frequentare scuole nelle quali la lingua di insegnamento è lo spagnolo - devono fondarsi sul principio secondo il quale "l'istruzione migliore per ciascun bambino è l'istruzione che è migliore per questo bambino" (p. 118). In pratica, ciò significa che, dal momento che l'apprendimento della lingua inglese offre le migliori possibilità di carriera e di mobilità sociale, le aspettative delle famiglie che i propri figli siano istruiti nella lingua dei genitori devono essere sacrificate per il benessere dei bambini.

Una valutazione completamente diversa dei problemi in gioco emerge dai testi di Stephen May (Misconceiving Minority Language Rights) e di François Grin (Diversity as Paradigm, Analytical Device, and Policy Goal). Grin sottolinea in particolare che se il fatto del pluralismo - linguistico e non - viene assunto come un valore da preservare, promuovendo un approccio interdisciplinare, si è portati a privilegiare politiche promozionali nei confronti delle minoranze linguistiche. Particolarmente rilevante è poi il saggio di May che contribuisce a mettere in discussione una serie di presupposti impliciti del discorso liberale intorno alla differenza linguistica: May evidenzia come in molti casi l'attuale unità linguistica di uno Stato costituisca il risultato di un processo eminentemente politico, che si è sviluppato in maniera più o meno parallela al processo di costruzione dell'identità nazionale (su questo punto si veda anche il saggio di Jacob Levy, Language Rights, Literacy, and the Modern State). Analogamente, anche il fatto che, come sostiene Pogge, l'apprendimento di alcune lingue offra migliori prospettive di mobilità sociale rispetto ad altre, non corrisponde a un dato di fatto inevitabile ma deriva generalmente da una strategia contingente, in cui alcuni gruppi linguistici dominanti attribuiscono un ruolo egemonico alla propria lingua, marginalizzando le lingue che potrebbero competere con essa. D'altra parte, non è neanche vero che l'adozione di un framework liberale debba sempre risolversi in una linea politica compiacente verso gli interessi dei gruppi linguistici maggioritari, come mostra l'intervento di Philippe Van Parijs (Linguistic Justice), il quale sostiene che, in base al principio di equità di Rawls - che afferma che coloro che godono di un bene prodotto da altri hanno il dovere di contribuire alla realizzazione di tale bene -, i membri delle comunità linguistiche dominanti dovrebbero compensare in parte, attraverso una tassazione speciale, gli sforzi sopportati dai membri delle minoranze linguistiche per apprendere la lingua ufficiale.

Il problema principale che alimenta il dibattito intorno alla rilevanza politica del fenomeno della scomparsa delle lingue deriva dalla possibilità di interpretare questo fenomeno in due maniere differenti. Da un lato, possiamo vedere la scomparsa di una lingua come l'esito di un processo di assimilazione da parte di un potere economico, politico e culturale cui i parlanti della lingua in estinzione non riescono ad opporsi. Dall'altro, questo stesso evento può essere descritto come il risultato di una scelta volontaria da parte degli esponenti dei gruppi linguistici minoritari, che decidono di «mescolarsi» alla maggioranza nazionale per godere di migliori opportunità. È chiaro che alla radice dell'alternativa si ritrovano le stesse opzioni di fondo che erano emerse discutendo le politiche di accomodamento delle minoranze linguistiche, riassumibili nella scelta tra una rappresentazione dell'attore politico come decisore autonomo e razionale e una valutazione più a vasto raggio dei contesti storici, politici ed economici che fanno da sfondo ai fenomeni sociali. Questo doppio registro è chiaramente presente non appena si confronti il contributo di Idil Boran (Diversity, Public Goods, and Fairness), che esplora la possibilità di argomentare in difesa della preservazione della differenza linguistica sulla base di un'analogia tra biodiversità e diversità linguistica, con quello già citato di Levy, che evidenzia da un lato il ruolo del processo di nation building nella definizione dei rapporti di forza tra lingue diverse e dall'altro sottolinea come in taluni casi la marginalizzazione delle lingue oggi in via di scomparsa abbia rappresentato il sottoprodotto di una campagna, in sé apprezzabile, di alfabetizzazione della popolazione. Anche in questo caso, d'altra parte, non è detto che nell'ottica della teoria liberale non sia possibile tenere conto di certe istanze generalmente associate con la prospettiva del multiculturalismo, come cerca di argomentare Michael Blake nel suo saggio (Language Death and Liberal Politics). In particolare, secondo Blake, gli episodi di scomparsa di una lingua non sono tutti ugualmente censurabili dal punto di vista politico: la scomparsa di una lingua può costituire il risultato di una graduale trasformazione, operata dalla comunità dei suoi parlanti, e in questo caso ipotizzare un intervento statale sarebbe controintuitivo. Al contrario, quando una lingua rischia di estinguersi a causa delle discriminazioni perpetrate dai parlanti della lingua dominante, è perfettamente legittimo per un teorico liberale argomentare in favore di un intervento statale che preveda misure promozionali per i parlanti della lingua minacciata. Molto utile per evidenziare i limiti delle posizioni multiculturaliste da una prospettiva liberale è anche il saggio di Daniel Weinstock (The Antinomy of Language Policy). Weinstock sottolinea come gli argomenti comunemente addotti in favore di una politica di difesa delle lingue minacciate facciano appello, in ultima analisi, ad alcune assunzioni intuitivamente poco condivisibili: per esempio, l'idea che le lingue minacciate vadano preservate per il loro valore intrinseco sembra configurare un dovere da parte dei parlanti della lingua minoritaria di impedirne l'estinzione, anche se tale dovere confligge sicuramente con la tesi liberale del valore dell'autonomia individuale. Da questa circostanza si può argomentare, conclude Weinstock, in favore di una versione debole del principio del benign neglect, che imponga allo Stato di adottare politiche linguistiche positive solo nella misura in cui ciò è necessario per una "comunicazione effettiva" (p. 265) con i cittadini.

Gli ultimi due saggi propongono, come ricordavo in precedenza, un confronto tra forme di plurilinguismo incentrate sul principio di territorialità e ordinamenti in cui vige il principio di personalità. Nelle loro forme «pure» il principio di territorialità e di personalità asseriscono rispettivamente che i diritti linguistici devono variare da regione a regione in relazione alle condizioni locali e che i cittadini dello Stato devono godere degli stessi diritti linguistici in rapporto alle lingue ufficiali indipendentemente dal luogo in cui si trovano. Ciascuno dei due principi sembra presentare vantaggi e svantaggi: un'analisi accurata degli aspetti positivi e negativi relativi all'applicazione dei due principi in rapporto a una serie di diversi interessi da parte dei cittadini (interessi all'accesso ai pubblici servizi, alla mobilità sociale, alla partecipazione politica e all'identità individuale e di gruppo) è contenuta nel saggio di Alan Patten. (What Kind of Bilingualism?). La morale che si può trarre da questo confronto secondo Patten è che l'applicazione del principio di territorialità risulta più vantaggiosa solo nei casi in cui l'articolazione in comunità linguistiche distinte è necessaria per produrre un linguaggio pubblico comune o per assicurare la continuità di un contesto sociale di scelta. Una preferenza globale in favore del principio di personalità emerge anche dall'intervento di Denise Réaume (Beyond Personality: The Territorial and Personal Principles of Language Policy Reconsidered): Réaume, tuttavia, ritiene che la maniera migliore di formulare questo principio consista nel riferirlo a gruppi piuttosto che a singoli individui, in maniera da valorizzare la dimensione comunitaria e partecipativa dell'appartenenza linguistica.

Non è possibile in questa sede discutere nel dettaglio gli argomenti e le conclusioni che trovano posto in Language Rights and Political Theory. Mi limiterò pertanto a un'unica considerazione di carattere generale che non tocca direttamente la qualità - complessivamente alta - dei saggi che compongono la raccolta. È un peccato che la casistica delle situazioni di pluralismo linguistico sia limitata quasi esclusivamente agli esempi tradizionali degli Stati che, come il Canada, il Belgio o la Svizzera, sono composti da comunità linguistiche diverse e quindi risultano istituzionalmente bi- o plurilingui. Eppure gli scenari dell'Europa contemporanea ci presentano un livello di pluralismo e di frammentazione linguistica assolutamente non comparabile con le esperienze precedenti e tale da sollevare numerosi problemi in relazione alla tematica dei diritti alla lingua. È chiaro che la convivenza fianco a fianco di individui e di comunità di lingua slava, rumena, araba, indiana, cinese nei paesi dell'Europa mediterranea pone interrogativi di assoluto rilievo dal punto di vista del problema della relazione tra lingua e diritti, in primo luogo perché alcune delle dicotomie tradizionali, come quella esemplificata dal principio di territorialità versus il principio di personalità, sembrano non trovare applicazione in questi casi. Sarebbe stato auspicabile, per questo motivo, che almeno un capitolo del volume fosse stato dedicato a esplorare i problemi del pluralismo linguistico nelle nuove società multiculturali: ne avrebbe sicuramente guadagnato la completezza di un lavoro che si propone come punto di riferimento nel dibattito futuro sul tema dei diritti linguistici.

Leonardo Marchettoni