2013

Maria Pia Paternò, Donne e diritti. Percorsi della politica dal Seicento a oggi, Carocci, Roma, 2012, ISBN 978-88-430-6588-2

Il lavoro di Maria Pia Paternò - Donne e diritti. Percorsi della politica dal Seicento a oggi (Carocci, 2012) - introduce una lettura originale del percorso tramite cui il pensiero occidentale è andato elaborando - e poi, via via, decostruendo – la sua moderna nozione di soggettività con le categorie concettuali ad essa connesse. Il volume in questione si propone, infatti, di seguire tale tragitto osservandone una significativa componente rimasta a lungo ai margini del dibattito tra gli studiosi: il rapporto tra la donna e i diritti nel corso della storia del pensiero politico moderno. Proprio grazie a questo peculiare punto d’osservazione l’autrice elabora un’interessante problematizzazione di alcuni concetti cardine del discorso politico contemporaneo quali quello di eguaglianza e di differenza, di pubblico e di privato, di maschile e di femminile, ecc. Tale rivisitazione critica emerge a stretto contatto ricorsivo con quello che è il cuore storico della monografia, ovvero l’analisi del “lato oscuro” che ha accompagnato nel corso dell’età moderna la costruzione di una soggettività descritta come autonoma, autosufficiente, razionale e priva di legami materiali. Si tratta, per dirla con Paternò, della teorizzazione “della minorità giuridica e politica della donna” che per secoli ha favorito “alcuni degli esiti più ripetitivi della riflessione dei grandi maestri del pensiero politico-filosofico” (p. 21). A riguardo le pagine dedicate ai giusnaturalisti mostrano come la soggezione della donna, una volta venuta meno la tradizionale argomentazione su base teologica, sia spiegabile nei termini di una “precisa razionalità femminile”, di una “scelta libera e convinta che si esprime nella volontà di aderire alle diseguali clausole contrattuali del vincolo coniugale”(p. 44). Nel pensiero di Grozio, Locke e Pufendorf, infatti, la donna, considerata come diseguale per natura rispetto all’uomo, non può svolgere alcun ruolo al momento della stipula del contratto sociale in quanto, conscia del propri limiti, ha consensualmente rinunciato a tale diritto già nello stato di natura al momento della istituzione del patto coniugale (p. 51). Tramite quest’ultimo la libertà naturale delle donne viene assorbita completamente all’interno di una famiglia dove, per reciproca volontà delle parti, il marito assume la supremazia facendo così venire meno ogni presenza femminile all’interno del processo di definizione della società civile (pp. 49-59). Anche la riflessione del secolo dei lumi, come ci mostra l’autrice, sembra essere caratterizzata dalla ripetuta affermazione di una legittima ineguaglianza giuridico/sociale concernente il genere femminile. In tal senso i pensatori che criticano l’impostazione giusnaturalistica tramite il ricorso alla storia, all’esperienza e ai sensi – Montesquieu, Hume, Smith – hanno in comune con coloro che ne riprendono, sia pur rinnovandone i contenuti, l’argomentazione – Rousseau, Fichte, Kant – l’idea di una “sessuazione degli spazi” che vede la sfera di azione femminile rigorosamente ascritta all’ambito familiare, domestico e “privato”. Secondo siffatta impostazione il Settecento finisce per legare l’esclusione della donna dalla sfera pubblica ad una rivalutazione delle differenti caratteristiche della donna che, essendo maggiormente spendibili in relazione all’importante ambito dell’intimità e del sentimento, finiscono specularmente per risultare inadatte e nocive ai fini di una retta azione pubblica e del connesso esercizio del “diritto di comando” (p. 71). Sulla stessa scia, spostandosi nell’Ottocento, Hegel, Tocqueville e Proudhon argomentano in favore dell’esclusione della donna dalla sfera politica - e dai diritti ad essa connessi – secondo la riproposizione di uno schema che vede la naturale ed esclusiva realizzazione del sesso femminile all’interno dello spazio domestico e privato (pp. 78-82 e 96-100). Tale ricorrente vulgata incontra, tuttavia, l’opposizione di quante e quanti, a partire dalla Rivoluzione francese, iniziano a reclamare eguali diritti per tutti gli esseri umani a prescindere da ogni logica di discriminazione o di differenziazione basata sull’identità sessuale del soggetto. A riguardo l’autrice mostra come - a partire dalle teorizzazioni di Condorcet, de Gouges e Wollstonecraft (p. 107) - inizia a diffondersi, sia pur in una minoranza dell’intelligencija europea, l’idea che l’attribuzione di pari diritti agli individui di entrambi i sessi possa costituire un elemento di valore progressivo per l’intera comunità (pp. 101-108). Nel corso del XIX secolo quest’idea viene ripresa e diffusa ad opera di due principali correnti emancipazioniste: una liberal-democratica e una socialista. Mentre la prima – descritta tramite il pensiero di Hugo, Mill, Taylor, von Hippel, Morelli, Mozzoni – collega la parità dei diritti per le donne ad un progresso sociale che non avrebbe pregiudicato l’esistenza della famiglia, la seconda – individuata nella riflessione di Owen, Thompson, Fourier, Marx, Engels, Bebel – ritiene la liberazione, materiale e giuridica, del genere femminile un importante elemento della futura società socialista, che, in quanto tale, avrebbe fatto venire meno l’istituzione familiare borghese (pp. 129-130). Grazie alla spinta di queste due correnti si ha quindi un deciso salto di qualità che porterà alla nascita dei movimenti emancipazionisti e al, successivo, rivoluzionamento della condizione femminile (pp. 101-135). Ciò detto, è ora interessante notare come tale lettura storica sia introdotta e alimentata da un’interpretazione critica del percorso che ha portato alla nascita – e allo sviluppo - di una determinata nozione di soggetto. Si tratta del “cuore filosofico” che, ad avviso di chi scrive, tiene insieme l’intero lavoro nella misura in cui questo risulta decisamente ispirato da un interrogativo di fondo concernente la definizione del soggetto umano, delle sue caratteristiche e delle sue modalità di affermazione e determinazione. Il percorso contenuto nel testo consente, infatti, di individuare come il soggetto moderno - inteso come autonomo, autosufficiente, razionale, irrelato, ecc. – si configuri in corrispondenza alle caratteristiche di una natura maschile il cui “rovescio” – specularmente opposto – è proprio quella femminile, non a caso definita a più riprese come dipendente, bisognosa di cura, sentimentale e via dicendo (p. 44). Su questa scia è interessante notare come la progressiva affermazione di un ruolo attivo e paritario della donna all’interno della società occidentale sia storicamente accompagnata dalla critica di tale idea “moderna” di soggetto e dalla rivalutazione di quegli elementi – debolezza, bisogno, interdipendenza – sino ad allora associati al genere femminile (e, sempre negli stessi frangenti, determinanti per la legittimazione della sua subordinazione sociale e giuridica). Sono significative a riguardo le pagine dedicate dall’autrice alle critiche della soggettività “illuministica” elaborate nel corso del XX secolo da intellettuali quali Arendt, Young, Benhabib e Nussbaum. In esse, nonostante l’eterogeneità dei rispettivi punti di vista, sono i concetti di pluralità, relazionalità, sentimento, desiderio, cura, bisogno, fragilità, interattività a fornire gli argomenti per il rigetto di una concezione astratta, solipsistica e decontestualizzata del soggetto che, affondando le sue radici nel pensiero del XVIII secolo, viene riproposta, ad esempio, nelle opere di autori quali Rawls e Habermas (pp. 137-158). Si tratta di un insieme di critiche che di frequente colgono nel segno pur presentando, sul piano costruttivo (o meglio “ricostruttivo” nella misura in cui aspirano a dare vita ad un’ idea alternativa di soggetto), alcuni elementi problematici. Se si guarda, in particolare, a coloro che hanno messo l’accento sul “bisogno di cura” dell’uomo – Nussbaum, McIntyre, Kittay – individuandovi l’elemento chiave su cui rifondare l’indipendenza del soggetto (o su cui istituire una nuova eguaglianza fondata sulla “relazione” – pp. 28-34), non ci si può esimere dal segnalare un rischio paradossale insito in tale, per altri aspetti pregevole, argomentazione. Se, infatti, la riconsiderazione del concetto di bisogno e di dipendenza è necessaria ai fini di una rinnovata concezione della soggettività umana capace di andare oltre i, pericolosi, limiti emersi dalla razionalità illuministica, essa, tuttavia, non è affatto sufficiente a fondare, se considerata come “chiave di volta”, una nuova indipendenza o una nuova eguaglianza. Infatti, si perdoni la brutalità, sul bisogno, sulla debolezza e sulla (inter)dipendenza si fonda solo un soggetto bisognoso, debole e (inter)dipendente che vede dinnanzi a sé o il bisogno di protezione – con il conseguente rischio autoritario – o la sua impotenza dinnanzi al mondo e alla società che verrebbero sempre più percepiti come dati immodificabili (in tal senso il rischio sarebbe quello di un passivo e omologante conformismo). L’esito della modernità sarebbe così, a modesto parere di chi scrive, doppiamente paradossale : dopo aver lottato per porre fine alla discriminazione di una parte dell’umanità basata su un dualismo naturale costruito ad hoc per legittimare la discriminazione di quella parte e dopo aver individuato i punti deboli della concezione che omologava il soggetto umano ai termini di una – presunta – natura maschile, si utilizzerebbero alcuni degli elementi storicamente attribuiti alla – presunta – natura femminile (che erano serviti per legittimarne la subordinazione) per fondare una nuova concezione della soggettività umana che dovrebbe dare vita ad una nuova forma di indipendenza e/o di eguaglianza. Ovvero si sposterebbe sull’intera umanità il peso che, nel corso dell’età moderna, era stato portato dal genere femminile finendo così, paradossalmente, per legittimare la subordinazione non di un genere rispetto all’altro ma dell’intera umanità rispetto al suo mondo. In questo modo, contrariamente alle nobili intenzioni delle autrici e degli autori sovra-citati, l’unica eguaglianza che si avrebbe la si avrebbe nella schiavitù rispetto al dato, la si otterrebbe come, reciproca, impotenza. In ogni caso, è bene precisarlo, l’autrice del nostro volume è, insieme a pochi altri (ad es. Žižek), lontana dal correre tale rischio. Interessanti sono, a riguardo, le pagine dedicate al rapporto ricorsivo tra soggetto, autonomia e relazione che chiudono il volume. In esse, anche grazie ad un’originale valorizzazione dell’antropologia pufendorfiana, si introduce l’idea di un soggetto autonomo non malgrado i suoi legami ma grazie ad essi : un’ accezione della soggettività in cui “il modo in cui ciascun individuo contribuisce a forgiare i suoi legami interpersonali e procede a riplasmarli nel corso del tempo costituisce il nocciolo più interno dell’affermazione della sua libera determinazione” (p. 180). In questo modo il singolo, lungi dal subire come semplice dipendenza i suoi legami sociali, se ne rende attivo protagonista e costruttore in un gioco ricorsivo che, finemente, gli indica un passaggio sicuro tra la Scilla della debolezza fondazionale e la Cariddi dell’atomismo razionalistico. Tale prospettiva – volta a pensare l’io alla stregua di un soggetto arricchito dal continuo confronto attivo con l’altro – è doppiamente significativa qualora la si pensi come indirizzo tramite cui rispondere a quanti hanno visto e vedono nel soggetto umano un semplice “volto sulla sabbia” destinato ad essere cancellato dai marosi (ad es. Foucault). Si tratta, a modesto avviso di chi scrive, di un’interpretazione incautamente funzionale a sprofondare in quelle stesse acque che, in una società baumaniamente sempre più “liquida”, stanno facendo affogare quanto di più prezioso vi sia nell’uomo : coscienza e dignità. Oggi infatti, per usare un’icastica espressione di Enrico Donaggio, “solo un Io ci può salvare”. Un motivo in più per leggere e discutere le tesi di “Donne e diritti”.

Tommaso Visone