2010

E. Pariotti, I diritti umani. Tra giustizia e ordinamenti giuridici, UTET, Torino 2008, pp. 188, ISBN 978-88-6008-187-2

Per comprendere la visione che sta alla base di quest'opera, credo sia necessario partire dall'ultimo capitolo di essa, in cui l'autrice chiarisce la questione del fondamento dei diritti umani ed il significato che la giustizia dovrebbe avere in un sistema politico improntato alla loro protezione. La prospettiva è quella liberal-democratica di matrice contrattualista, della quale condivide in particolare i valori della scelta, della libertà e dell'uguaglianza, che devono guidare l'organizzazione politica nel raggiungimento delle proprie finalità.

Si parte da una società come la nostra, connotata dal pluralismo, in cui il pluralismo è alcunché di ineliminabile. La discussione pubblica ruota intorno al giusto e si mantiene una concezione thin di bene, come fa John Rawls, affinché il giusto non appaia come un derivato del bene, ma come il fine ultimo dell'associazione politica. Tuttavia, diversamente che in Rawls, l'istanza è qui quella di sottoporre a giudizio critico gli stessi valori politici, e dunque di non dare per scontato che cosa siano l'uguaglianza o la libertà, ma di farne l'oggetto di una riflessione razionale, mediante l'accettazione del conflitto, nel rispetto delle diversità, come pure delle concezioni minoritarie. Ed infine, si fa seguire a questa riflessione la "scelta" dei diritti, concepita in termini di una loro giustificazione e di una determinazione del loro contenuto, mediante un'interpretazione e una legittimazione di istanze sociali riconducibili ai valori così determinati.

L'esempio di una società come la nostra, in cui il pluralismo è un "fatto", è necessario proprio per sottolineare come la giustificazione non possa essere guidata da un insieme ristretto e definito di valori politici che si suppongono condivisi: il significato della scelta razionale è più ampio e comprende anche il contenuto di tali valori. E tuttavia il riferimento ad una sola società vuole avere qui un valore di mera semplificazione, giacché l'aspirazione sottesa al procedimento che abbiamo descritto è che attraverso di esso si definisca il contenuto della giustizia ad un livello più alto, che è quello dell'universalità, e ciò «anche a prescindere da ciò che gli ordinamenti giuridici prevedano» (p. 160). Non si tratta soltanto di determinare cosa vorremmo per noi, ma si tratta di desiderare un miglioramento della condizione umana in generale, e dunque di determinare cosa vorremmo per l'essere umano in quanto tale. Tale, ad esempio, il procedimento che ha condotto alla proclamazione di alcuni diritti civili, politici e sociali, attraverso la famosa Dichiarazione Universale del 1948, e successivamente alla loro codificazione in trattati internazionali. Si tratta di diritti dal contenuto "minimo", rispondenti cioè ai bisogni essenziali degli esseri umani, la cui realizzazione dovrebbe consentire la conduzione di un'esistenza quantomeno accettabile.

Come l'autrice spiega, è importante nel caso dei diritti umani mantenere separati il piano della normatività da quello dell'effettività (p. 29). La giustificazione, infatti, non risolve il problema dell'effettività, e d'altra parte il fatto che tali diritti non sempre siano effettivi non ha nulla a che vedere con la loro normatività e non incide affatto sulla loro urgenza. Pensiamo ai diritti di solidarietà sociale, i quali persino nelle società democratiche sono spesso visti come non-diritti a causa della loro derogabilità, o che a livello internazionale tendono ad apparire meno urgenti dei diritti di libertà (la cd. prospettiva minimalista: cfr. John Rawls, Il diritto dei popoli, Milano, Edizioni di Comunità, 2001; Michael Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2003). E pensiamo alle difficoltà che incontra la realizzazione di questi ultimi nelle società non democratiche, e segnatamente nei contesti di crisi, in cui il rischio di violazioni diffuse e sistematiche è altissimo. Allora il ricorso al fondamento, e dunque ai valori etico-politici, è un fattore essenziale non solo del riconoscimento, ma anche della protezione di diritti già riconosciuti, che sono nelle carte costituzionali dei singoli paesi, come pure nelle fonti di rango internazionale: nessuna pretesa può infatti essere garantita se non è giustificata o quantomeno giustificabile. La giustificazione non è un fatto, ma un processo mai concluso. Lo dimostrano da un lato il processo di positivizzazione, che su di essa poggia, dall'altro gli stessi giudici che nel loro lavoro di interpretazione delle norme forniscono ulteriori giustificazioni ai diritti, sancendone così l'effettività.

Il problema dell'effettività si lega non soltanto alla mancanza o carenza di strutture di governo democratiche o alle inefficienze dei sistemi giurisdizionali e penali all'interno degli Stati, ma si lega anche all'annosa questione della sovranità esterna degli Stati, la quale, nonostante la nascita di un ordinamento sovranazionale, non ha mai cessato di condizionare la valenza delle norme proteggenti gli individui nonché il grado di esecutività delle sentenze delle giurisdizioni internazionali. La violenza che connota da sempre le relazioni internazionali, e dunque il problema delle guerre, i regimi d'occupazione che violano il principio di autodeterminazione dei popoli, sono la causa principale delle violazioni perpetrate su larga scala, o dei crimini internazionali, tanto che si potrebbe parlare di nodi irrisolti del sistema delle Nazioni Unite. A ciò si aggiungono le contraddizioni generate dalla globalizzazione, la quale, benché abbia contributo all'erosione di tale sovranità, accelerando il processo di internazionalizzazione dei diritti, nello stesso tempo ha acuito il problema delle disuguaglianze economiche tra Stati e fatto sorgere nuove dinamiche di sfruttamento e discriminazione all'interno delle società.

Già Kelsen aveva compreso l'importanza del costituzionalismo, e che un rafforzamento del diritto internazionale sarebbe stato possibile soltanto conferendo centralità e carattere obbligatorio alla giurisdizione internazionale (cfr. ad es. La pace attraverso il diritto, 1944; Id. Teoria generale del diritto e dello Stato, 1945). In particolare, egli aveva sostenuto l'esigenza di contrastare la visione "volontaristica" del diritto internazionale, in base alla quale esso sarebbe un prodotto della volontà degli Stati (p. 72). Oggi questa concezione sembra essere avvallata dal concreto funzionamento di alcune norme di diritto consuetudinario, come quelle imperative (si pensi al divieto internazionale di torturare e compiere trattamenti inumani e degradanti), le quali, se da un lato identificano un nucleo di valori ritenuti imprescindibili dalla comunità internazionale, dall'altro rischiano di essere invalidate dalla prassi e dalle politiche degli Stati. L'idea è allora quella di mantenere fermi i principi della legalità e della certezza del diritto per i crimini internazionali, in linea con Kelsen, e di appoggiare, andando oltre Kelsen, una visione "ermeneutica" del diritto per quanto attiene ai diritti umani (p. 76), una visione che faccia leva sul ruolo creativo dei giudici, al fine di superare il limite della loro acquisizione all'interno degli ordinamenti giuridici. L'idea di giustizia sottesa all'attività di interpretazione e di giustificazione nell'ambito delle corti, poggiando in ultima analisi sul costituzionalismo, dovrebbe generare un ridimensionamento della sovranità esterna degli Stati, capace di condurre, sia pure in tempi lunghi, ad una eguale sottomissione di questi ultimi all'ordinamento internazionale, analogamente a quanto si è già verificato per la sovranità interna (p.73).

Quanto ai diritti positivi propriamente detti, bisogna contrastare la prospettiva di chi pensa che siano meno urgenti delle libertà negative e vedere in essi delle prescrizioni relative a qualcosa di necessario e indispensabile per garantire quell'esistenza accettabile di cui parlavamo, vale a dire condizioni di vita dignitose per tutti gli esseri umani. Si tratta di spinte all'azione, la cui importanza non può essere sminuita, ma che al contrario va difesa alla luce della tesi dell'interdipendenza e dell'interconnessione dei diritti umani già affermata nella Dichiarazione finale della Conferenza di Vienna del 1993, giacché, per usare le parole di Dworkin, «l'oppressione non riguarda solo la libertà, ma anche l'impossibilità di accedere ai mezzi materiali per la sussistenza» (cit. p. 160). Pertanto il problema dell'effettività dei diritti non può essere risolto riducendone l'elenco, ma semmai individuando quel contenuto minimo al quale accennavamo, che sia il più possibile difendibile, e dunque individuando un insieme di bisogni essenziali e di risorse atte a soddisfare questi bisogni. Occorre, in altri termini, "avvalersi della ragione per progettare, e promuovere concretamente, società migliori, o più accettabili, e per eliminare privazioni intollerabili di varia natura" (Amartya Sen, Razionalità e Libertà, Bologna, Il Mulino, 2005, cit. p. 195).

L'importanza di una concezione dei diritti definita in termini di giusto politico e quella di una loro giustificazione si spiegano proprio in virtù dello scopo di renderli difendibili dinanzi a concezioni e a prassi che minacciano l'uguaglianza e la libertà fondamentali. E tuttavia, le finalità dei sistemi politici, come pure di quelli giuridici e morali, non debbono ridursi alla sola difesa dei diritti, i valori etico-politici ai quali abbiamo fatto riferimento sono la base comune per determinare le aspettative reciproche all'interno delle comunità, delle quali i diritti rappresentano soltanto una parte, ben più circoscritta (p. 162). I diritti, e quelli umani in particolare, non sono altrimenti difendibili che in questa prospettiva, la quale riconosce sì la potenza del loro linguaggio, ma anche i limiti di un approccio che fa leva soltanto sulla giustificazione di bisogni e aspettative. Lo dimostrano chiaramente le critiche cui essi si sono prestati nelle più recenti elaborazioni di pensiero filosofico e giuridico, dal comunitarismo al femminismo, alla teoria delle capabilities elaborata da Sen e poi ripresa da Martha Nussbaum. I bisogni non possono costituire l'unica base per la determinazione del bene umano, né tantomeno della giustizia politica e sociale, c'è una componente di responsabilità nell'agire pubblico che va salvaguardata, e ciò proprio per pensare le libertà come universali.

Lucia Dileo