2005

S. Panebianco (ed.), A New Euro-Mediterranean Cultural Identity, Cass, London-Portland (OR) 2003, pp. xiv-214, ISBN 0714654116

Il volume curato da Stefania Panebianco è ricco di elementi preziosi per riflettere sul dialogo euro-mediterraneo e sulle sue prospettive di sviluppo. Grazie ai contributi di una decina di studiosi - oltre che della curatrice stessa - A New Euro-Mediterranean Cultural Identity offre un'accurata ricostruzione dello sviluppo della cooperazione regionale nell'area mediterranea, con le sue luci e le sue innumerevoli ombre.

Si tratta di una vicenda tutt'altro che univoca: la dinamica delle relazioni euro-mediterranee, infatti, è tutt'altro che lineare. L'Europa del Trattato di Roma fin dai primissimi anni Settanta si era posta il problema di una politica unitaria verso i c.d. Paesi Terzi del Mediterraneo (PTM). Questo nuovo indirizzo avrebbe dovuto essere quanto meno complementare alla consolidata prassi dei rapporti bilaterali, una trama di relazioni segnata dalla retorica post-coloniale della special relationship. Già il vertice di Parigi del 19 ottobre 1972 aveva promosso una politica di cooperazione, diretta in primo luogo ad agevolare gli scambi con il bacino meridionale del Mediterraneo. In realtà, quella che fu grandiosamente denominata Politica Globale Mediterranea dette risultati modesti. In primo luogo la Guerra Fredda precludeva molti spazi politici alla CEE. L'adesione al Trattato di Roma di Grecia (1981), Spagna e Portogallo (1986), la cui produzione agricola era in diretta concorrenza con quella della sponda africana ed asiatica del Mediterraneo, poi, aveva raffreddato gli entusiasmi comunitari. La politica europea era destinata ad un brusco cambio di rotta con il crollo del Patto di Varsavia che, anche in una prospettiva mediterranea, apriva alla Comunità inediti scenari politici.

In relazione al rinnovato attivismo di Bruxelles si possono fare diverse ipotesi. Nelle pagine introduttive del volume è la stessa Panebianco ad elaborare un ventaglio di soluzioni riconducendo, ad esempio, la progressiva istituzionalizzazione delle relazioni trans-mediteranee ad analoghi fenomeni di integrazione regionale quali l'ASEAN (Association of South East Nations) o il NAFTA (North Atlantic Free Trade Area). Ma, come riconosce con schiettezza il politologo tunisino Bechir Chourou, il dinamismo comunitario è stato significativamente motivato dalla volontà di stabilizzare la regione, sottoposta all'offensiva del radicalismo islamico.

Questa rinnovata sensibilità 'mediterranea' ha fatto sì che il 27-28 novembre 1995 a Barcellona, sotto le insegne del Partenariato Euro-Mediterraneo, fosse indetta una prima conferenza interministeriale. L'iniziativa ha fatto convergere nel capoluogo catalano i rappresentanti dei paesi membri dell'Unione Europea ed i capi di stato e di governo di dodici stati della sponda meridionale del Mediterraneo: dal Marocco alla Turchia, ad Israele ed all'Autorità Palestinese, con la significativa esclusione della Libia - a tutt'oggi 'grande assente' dai tavoli della negoziazione euro-mediterranea -, ma con l'inclusione della Giordania.

La conseguente adozione da parte dei convenors della Dichiarazione di Barcellona, segnando l'indiscutibile successo dell'iniziativa, ha instaurato un sistema istituzionale basato su tre partenariati: i primi due, concernenti la sicurezza e la cooperazione economica, replicano modelli istituzionali consolidati. Il terzo, rivolto a favorire il dialogo interculturale, presenta caratteri piuttosto atipici.

In relazione alla delicata questione della sicurezza, con la Dichiarazione le parti si impegnano a promuovere la stabilizzazione della regione mediterranea, agendo in conformità della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Tra gli strumenti per raggiungere questo ambizioso traguardo è opportuno quanto meno segnalare l'enfasi attribuita alla formazione di un 'sapere' condiviso, di un linguaggio comune tra i tecnici - diplomatici e scienziati - delle due sponde del Mediterraneo. L'idea di fondo è che la costituzione di un network tra gli apparati burocratici dei paesi EU e di quelli dei PTM in grado di travalicare la dimensione protocollare, sia condizione necessaria per la stabilizzazione regionale. E che la costituzione di questa rete passi anche attraverso un percorso formativo comune.

Il 'secondo pilastro' della Dichiarazione di Barcellona è rappresentato invece dal partenariato economico. L'obbiettivo è duplice: da un lato si tratta di dare attuazione ad un'efficace politica di cooperazione. Dall'altro si intende preparare il terreno per l'istituzione nell'area mediterranea di una zona di libero scambio, prevista per il 2010. Il progetto suscita non poche perplessità tra gli autori dei contributi raccolti in A New Euro-Mediterranean Identity: Stelios Stavridis e Justin Hutchence, ad esempio, ritengono problematico un processo di liberalizzazione economica svincolato da un analogo processo di democratizzazione politica. Panebianco, dal canto suo, rileva come questa free trade area possa avere pesanti ripercussioni sui delicati sistemi economici dei PTM, privi degli adeguati strumenti competitivi.

Al partenariato in campo sociale, culturale e umano è affidato l'impegnativo compito di favorire, nel rispetto delle reciproche differenze culturali e religiose, la creazione di una società civile mediterranea. Questo partenariato è inoltre rivolto alla cooperazione in materia di immigrazione, lotta al traffico di stupefacenti e repressione del terrorismo. Non è il caso di indugiare sulle molte perplessità connesse all'inclusione in un unico partenariato di problematiche tanto differenti. Piuttosto mi pare opportuno sottolineare come questo 'terzo pilastro' - oggetto privilegiato dei contributi del volume - sia rivolto a stemperare l'asimmetria insita negli altri due partenariati. Ed è quanto meno significativo che proprio alla dimensione culturale sia riconosciuta dalla Dichiarazione una valenza 'centripeta' primaria. Si tratta, come nota Panebianco, di un approccio 'costruttivista' che, nella fondazione dell'identità politica mediterranea, postula la necessità di un sistema condiviso di norme, valori e prassi.

Proprio sui pregi e sui limiti di questo progetto emerge dal volume un vivace, e prezioso, dibattito. Il giurista libanese Youssef Mouawad, ad esempio, sottolinea la distanza che separa l'archetipo islamico di società civile, fondato sul primato dell'esperienza religiosa e sulla centralità del gruppo familiare, dal significato che questa locuzione assume nell'esperienza giuridica e politica occidentale. Dal canto suo Mohammad El-Sayed Selim, docente dell'Università del Cairo, avverte tutti i rischi connessi ad una politica culturale europea che, priva della necessaria flessibilità, risulta spesso unidimensionale. Ulteriori contributi esaminano poi la compatibilità tra le istituzioni politiche e giuridiche delle due sponde del Mediterraneo, con particolare riguardo al riconoscimento ed alla tutela dei diritti umani.

Se dunque la costituzione di un framework normativo condiviso da ambedue le sponde del Mediterraneo assume la fisionomia di una vera propria sfida culturale, si deve registrare come anche sul piano 'operativo' il terzo partenariato abbia incontrato forti difficoltà ed alcune spiacevoli impasses. La Dichiarazione di Barcellona ha promosso la costituzione di reti integrate di relazioni tra Organizzazioni Non-Governative (ONG), istituzioni culturali e centri di ricerca incardinati o meno negli apparati statuali. In particolare sono stati predisposti dei programmi di cooperazione rivolti ad ambiti specifici dalla tutela ambientale alla cooperazione nella formazione accademica, allo sviluppo dei media. L'esperienza maturata, salvo alcune pregevoli eccezioni quale il programma EuroMed Heritage, è stata tutt'altro che soddisfacente, tanto da portare ad inchieste giudiziarie ed al congelamento di molte iniziative. In questo poco confortante panorama, il contributo di Annette Jünemann fa luce sul ruolo delle ONG nel processo di costituzione di una società civile mediterranea. A Partire da Barcellona si è infatti instaurata la prassi dei c.d. EuroMed Civil Forums, riunioni parallele a quelle delle delegazioni governative del Partenariato Euro-Mediterraneo, organizzate dalle ONG. Questi Forums, arrivati nel 2005 al decimo appuntamento, coordinandosi in maniera più o meno diretta con gli appuntamenti 'istituzionali', hanno promosso istanze sociali, politiche ed economiche. Si è trattato di esperienze segnate spesso da atteggiamenti contraddittori, come Jünemann osserva con lucidità. Eppure di fronte alle difficoltà in cui si muovono i programmi ufficiali, proprio il ruolo degli EuroMed Civil Forums si sta dimostrando, in una prospettiva bottom-up, sempre più insostituibile nella definizione di una cornice normativa comune alle due sponde del Mediterraneo.

Filippo Ruschi