2011

M. Panarari, L'egemonia sottoculturale. L'Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, Torino 2010, pp. 145, ISBN 978-88-06-20483-9

In questo libro, Massimiliano Panarari descrive le condizioni culturali dell'Italia postmoderna. Il tema centrale è costituito dal passaggio dall'egemonia politica della sinistra novecentesca - i cui aspetti furono brillantemente delineati da Antonio Gramsci - a quella "sottoculturale" della nuova destra postmoderna.

L'autore evidenzia come il concetto di egemonia, funzionale ideologicamente alla pedagogia delle masse, altrettanto importante della struttura economico-politica del capitalismo - e in ciò Gramsci innovava la lezione marxista - a un certo punto della tarda modernità è stato accantonato dalla sinistre occidentali, ad esempio quella italiana, e quasi ritenuto inservibile. Errore macroscopico, sostiene Panarari, perché questo concetto, che in realtà si risolve in un'attività culturale, ideologica e, lato sensu, pedagogica, è stato "riesumato" dai conservatori, a partire dall'America per giungere alla vecchia Europa.

La chiave temporale si rinviene negli anni Ottanta del ventesimo secolo, allorquando nel mondo anglosassone giungevano a trionfo le politiche di personaggi come Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Sulla scia di una globalizzazione capitalistica marciante, al crollo delle culture politiche di sinistra, corrisponde la vittoria di un neoliberismo sfrenato, ormai postmoderno, perfettamente adeguato allo status quo. Si è passati pertanto, anche grazie alla diffusione forte dei mass media organizzati - televisione in primis -, assieme all'affermazione della "civiltà dei consumi", da un'egemonia tutto sommato di sinistra, ad una di ben altro segno. Se prima l'ideale prevalente - tra i ceti subalterni e i partiti di riferimento - era la rivoluzione o comunque la trasformazione solidale della società, ora è quello della conservazione degli assetti di potere.

In Occidente e nel mondo, nell'Impero e nelle sue province, specie nell'Italia berlusconiana l'egemonia, ormai "sottoculturale", si manifesta come "il controllo ideologico che le élite dominanti esercitano nei confronti delle classi inferiori, attraverso l'orientamento e il condizionamento delle credenze e della visione del mondo delle masse". Prosegue, così, l'autore: "Determinando e forgiando la 'Weltanschauung pop' (o 'di massa') si ottiene, senza procedere alla coercizione o all'esibizione dei muscoli, ed evitando qualunque repressione violenta, la fiducia e la fedeltà del popolo, che introietta una serie di stili di vita e valori appositamente scodellati a uso e consumo (e soprattutto questo secondo, nella mass market society) degli interessi di chi comanda" (pp. 14-15). Una sorta di "falsa coscienza" marxiana che imporrebbe il pensiero unico neoliberista, secondo il motto preferito dalla Tatcher "there is no alternative" (TINA).

Se il Partito comunista italiano aveva saputo stabilire una contro egemonia rispetto alla sovrastruttura ideologica del capitalismo industriale, a partire dagli ultimi trent'anni questo ruolo è ormai sfumato. I maître à penser postmoderni sono ben altri e vanno individuati in quei personaggi e in quelle agenzie di informazione che, nello sfruttamento sapiente dei media, costituiscono quelle che l'autore, ironicamente, definisce "armi di distrazione di massa".

L'avvento della Tv commerciale, ad esempio in Italia, segna bene, dal lato ideologico, il passaggio al postmoderno. Un mezzo pedagogicamente pervasivo nei confronti delle masse, adesivo ai criteri pseudo morali del capitalismo globale e neoliberale. Panarari richiama, tra gli altri, il pensiero del sociologo canadese Marshall McLuhan, inventore della massmediologia e critico della società contemporanea, il quale aveva intuito la potenza del mezzo televisivo, secondo lo slogan "il medium è il messaggio". Il medium televisivo non produrrebbe nuova cultura, ma sarebbe in grado di influenzare gli spettatori, in modo persuasivo e indiretto, di rassicurare e consolare le masse, confermando l'ordinamento in vigore. L'autore cita anche Karl Popper, critico nei confronti della Tv, con riferimento alle giovani generazioni; e, in particolare, Pier Paolo Pasolini il quale individuava la "mutazione antropologica", coeva agli anni Settanta, come effetto del genocidio culturale prodotto dall'omologazione e dal consumismo, favoriti dalla televisione. Nondimeno, Panarari si rifà anche al pensiero critico dei francofortesi, specialmente di Adorno.

La televisione produce un'influenza culturale soft, rivelando un carattere didascalico e pedagogico, ed opera in modo subliminale ma efficace. L'autore descrive Drive In, trasmissione cult degli anni Ottanta, opera del regista Antonio Ricci: un programma che seduce, mediante l'esposizioni di belle ragazze, svestite e provocanti. Al centro, una comicità nuova, attraente, orientata al consumismo; lo spettatore veniva coinvolto in uno spettacolo individualistico, edonistico, nel quale la bravura degli attori non era certo indirizzata ad una satira critica nei confronti del potere. All'opposto, trasmissioni come Drive In erano in grado sì di divertire, ma certamente non di produrre alcuna critica, più o meno irriverente, dello status quo. Sullo sfondo, una malcelata volgarità, un semplicismo demenziale di origine americana, lontanissimo da un'idea consapevole e critica della società contemporanea.

Panarari, poi, affronta il tema del "gossip", in cui consiste di fatto la nuova egemonia sottoculturale, almeno in Italia. Egli ritiene di individuarne lo stratega massmediatico in Alfonso Signorini, direttore di vari settimanali di proprietà di Berlusconi, conduttore di programmi radio-televisivi incentrati su entertainment e gossip. Opinionista, poi, del Grande Fratello, altro programma cult, stavolta dell'inizio del nuovo millennio: una trasmissione reality, destinata a far scuola, ove prevalgono vouyerismo, edonismo, individualismo ma anche frivolezze e volgarità di vario tipo.

Non saremmo, comunque, di fronte a un mestierante della televisione, ma ad un intellettuale nazionalpopolare, rectius "gossipopolare", che usa sapientemente i media come efficacissime "armi di distrazione di massa" (Krugman). L'autore è persuaso, insomma, che Alfonso Signorini non sia simpliciter un professionista dello spettacolo, ma un intellettuale organico, "nella più pura e filologica accezione gramsciana" (p. 40). Sulle riviste dirette da Signorini o sui programmi Tv da lui condotti, passa gran parte del mondo dello spettacolo italiano; personaggi caratterizzati da grandi dosi di esibizionismo (si pensi alla scuderia di Lele Mora), gente più o meno talentuosa, ma comunque fortemente in cerca di fama e notorietà. L'importante, in tal caso, non è tanto essere, ma apparire, giungere sul palco della "società dello spettacolo", rimanerci il più possibile - eventualmente persino per motivi pseudo politici.

Il quadro diventa viepiù postmoderno, perché nello spettacolo mediatico, così come nella società in generale, vige ormai l'esibizionismo della forza e della ricchezza, l'ostentazione dei privilegi delle classi opulente e dei vip, senza più remore o sensi di colpa. Il cambio di mentalità, per l'autore, è dovuto al reaganismo, al suo incoraggiamento dell' "egoismo sociale"; invero, "la rivoluzione ultraconservatrice sbarcata sulle coste della penisola in epoca craxiana assecondava così i gusti naturali della razza padrona italiana, dando vita a un matrimonio perfetto e dando la spinta ulteriore e decisiva al processo di gossipizzazione" (p. 46). D'altronde, nella cointeressenza di realtà e spettacolo, l'informazione stessa è inevitabilmente manipolata. Come avverte Panarari: "la notizia viene (...) 'massaggiata', come stabiliscono i precetti dello spin, la manipolazione delle news cui si fa sempre più ricorso nella comunicazione politica della nostra epoca postdemocratica, dal momento che, sostanzialmente, i fatti non esistono, e il postmoderno è solo una questione di interpretazioni" (p. 48).

Quindi, l'autore affronta in modo diretto il postmoderno. Panarari rammenta le definizioni proposte da Jean-François Lyotard nel suo libro La condizione postmoderna del 1979, ovvero un "rapporto sul sapere" delle società postindustriali. Notoriamente, le conclusioni erano innovative e radicali: la contemporaneità segna la fine del progetto moderno, ossia illuminismo, idealismo e marxismo. Crollano, dal lato teorico-politico, le metanarrazioni e le ideologie, in corrispondenza ad una cultura scientifica ormai pienamente relativistica. Sullo sfondo, l'egemonia dei mass media, televisione in primis, che tra l'altro bombardano di informazioni i cittadini-spettatori, dando luogo ad una sorta di "ossessione informazionale": un'informazione veloce e spesso effimera, in grado tuttavia di produrre spaesamento e alienazione della public opinion tradizionale.

Il postmoderno, destrutturando le verità e le certezze moderne, consente un'apparente liberazione e legittimazione delle differenze; ma, al contempo, impone, sia pure in maniera non coercitiva, una serie di tendenze culturali sempre più diffuse e omologanti. Peraltro, sebbene descritto in chiave ideologica, il postmoderno è il riflesso della globalizzazione capitalistica, per cui "società dell'informazione" e neocapitalismo ("turbo capitalismo") sono due facce della stessa medaglia.

Queste questioni venivano lette, all'epoca, in modo chiaro e innovativo da almeno due correnti filosofico-culturali, ovvero il "situazionismo"e la cosiddetta French Theory (il pensiero post-strutturalista e decostruttivista francese). In particolare, Jean Braudillard aveva inteso il passaggio al postmoderno come trasfigurazione stessa della realtà attraverso l'immagine televisiva e spettacolare. Su di un altro versante filosofico, ma analogo, il situazionismo. L'internazionale situazionista, fondata nel 1957, fu un insieme di pensatori geniali e, spesso, controcorrente, caratterizzata, fondamentalmente, dall'attribuzione del primato all'immagine nella società tardo-moderna (da ricordare, lo slogan "l'immaginazione al potere"). Guy Debord, autore de La société du spectacle, nel 1967, aveva capito, con grande lungimiranza, l'importanza dello "spettacolo" entro le società occidentali dell'epoca. Dalla marxiana accumulazione di merci, si passava, ormai, alla accumulazione degli spettacoli: tuttavia, se l'immagine tende a prevalere come prototipo della merce capitalistica, è nuovamente l'economia a vincere, giacché finisce per ricondurre - pur se in modo ingannevole - a unità le varie tendenze sociali del tardo capitalismo. In ogni caso, l'imporsi della merce-spettacolo, determina altresì il dominio dell'apparenza, di modo che il processo marxiano di "alienazione" procede oltre: dall'essere all'avere... all'apparire. Invero, "tutto è merce e tutto è spettacolo nel regno autoritario dell'economia mercantile" (p. 58, corsivo nostro).

Un programma come Striscia la notizia, opera del "situazionista" Antonio Ricci, di grande successo, esprime bene, da un lato, l'imbarbarimento della televisione commerciale e, dall'altro, le sue potenzialità persuasive nei confronti delle masse. Con Striscia, si abbattono le differenze di generi televisivi e di ambiti sociali, conformando gli stili comunicativi al consumismo omologante del capitalismo; la comunicazione è veloce e semplice, per poter raggiungere il maggior numero di persone. Oltre al fenomeno del "velinismo", va considerato il linguaggio carnascialesco del programma, il quale destruttura, in particolare, il linguaggio (ed il ruolo) della politica, intesa non tanto come classe o potere, quanto come dimensione eminentemente pubblica ed istituzionale. E invero, in questo quadro, "il debordiano regno autoritario delle merci spadroneggia senza confini nei regimi postdemocratici in cui viviamo, nei quali la sfiducia (motivata o generica) nei confronti della politica e del suo ruolo di regolazione aumenta a dismisura, in larga parte cinicamente e intenzionalmente alimentata" (p. 65).

In tal modo, la politica è oggetto di caricatura e di svilimento, affiancata alla mera attività delle caste privilegiate e privata, fondamentalmente, della dimensione di impegno civile che essa comunque comporta. Antipolitica pura che prepara il terreno o comunque favorisce, a ben vedere, l'idea e la pratica di un partito-azienda populistico, istituzionalmente inedito, quale per esempio quello berlusconiano.

Questa è la summa critica di Panarari alla Tv italiana di oggi, cui si aggiungono ulteriori considerazioni sui programmi di Maria De Filippi, Simona Ventura e dell'ottimo Bruno Vespa. Mentre la prima, divenuta una sorta di "arbitra" elegantiarum del nostro Paese, ha sdoganato le sub-culture giovanili - quelle più volgari e "coatte" - rafforzando i processi di omologazione dei costumi, la seconda è considerata da Panarari come il prototipo della conduttrice dei reality di ultima generazione, come l'Isola dei famosi. Antesignano dei reality è, comunque, il Grande Fratello: produzione televisiva innovativa nel quale un gruppo di giovani dà il meglio di sé, mettendosi in mostra nel quotidiano, ma entro le mura della casa del Grande Fratello. In programmi di questo tipo, inevitabilmente, prevalgono il vouyerismo, la volgarità e l'approssimazione culturale. I protagonisti e gli spettatori rappresentano uno strumento o un target del mercato televisivo, per i quali la sbandierata ignoranza legittima un discorso consumistico, completamente sganciato dai problemi socio-politici del Paese. Bruno Vespa, dal suo lato, specialmente col suo Porta a Porta, ha dato vita a un talk show quasi istituzionale: in quel salotto, Vespa ospita politici importanti o gente comune, in una cornice solenne e pop allo stesso tempo, con un atteggiamento da cronista moderato e, spesso, riverente verso il potere (si è parlato, a proposito del programma, come della "terza camera del Parlamento"). Contestualmente, però, il nostro ha dato vita a un genere televisivo (quasi) nuovo, alla cui base c'è lo storytelling, ovvero "l'arte di raccontare storie". In generale, l'autore vuol dimostrare come il ceto dirigente, in Italia, supportato da certa televisione, abbia voluto sviluppare ed imporre un certo storytelling per convincere il pubblico, ed orientarlo, così, anche politicamente. Non a caso, ricorda Panarari, da sinistra, Nichi Vendola sottolinea come "le plurime e cocenti sconfitte della sinistra siano da imputare all'assenza di un racconto popolare all'altezza dei tempi, dominati invece dalle storie e dalle narrazioni veicolate senza sosta da quell'egemonia sottoculturale che fa il gioco della destra" (p. 110).

Nel capitolo conclusivo, Massimiliano Panarari enuclea la sua tesi di fondo: la sinistra politica, qualora volesse davvero scalfire il predominio della destra neoliberale, dovrebbe senza dubbio conquistare una sua propria egemonia culturale. Per far questo, essa non dovrebbe certo star lontano dalla Tv, ma utilizzarla nel modo giusto; sicuramente, non nella maniera ingenua come è stato fatto sinora, in Italia. Gli intellettuali di sinistra, o comunque gli opinion maker progressisti, non dovrebbero, cioè, rincorrere la destra nell'uso che questa ha fatto della televisione; bensì, con una certa dose di creatività, dettare l'agenda setting. Insomma, "non si va alla battaglia (delle idee) con le baionette (e le canzonette) contro il Moloch neoliberale e le sue propaggini italiche" (p. 125).

Panarari ricorda, in proposito, l'autorevole opinione di Carlo Freccero, secondo il quale la sinistra ha ingenuamente perso l'egemonia culturale che aveva saputo costruire decenni fa, in favore della sottocultura di destra. Per Freccero, ciò sarebbe avvenuto in quanto gli intellettuali di sinistra, influenzati dal marxismo, avrebbero attribuito, anche dopo la caduta del muro di Berlino, più importanza alla struttura economica che alla cultura della società, insomma alle idee. La destra neoliberale, in Italia Berlusconi, nel frattempo ha conquistato i centri del potere informativo e li ha utilizzati in modo da imporre forme nuove di Kultur e Zivilisation (quasi, una nuova antropologia, sicuramente postmoderna).

D'accordo con Freccero, Panarari sostiene dunque che, in particolare della televisione, "la sinistra dovrebbe riprendere a pensarne linguaggio e contenuti, senza cadere nella duplice tentazione del rigetto apocalittico del piccolo schermo, né della volontà di condizionare banalmente le coscienze. Ma, per un verso, rimettendo al centro quella nozione di servizio pubblico che ci rende ormai lontani, ahinoi, dalle nazioni occidentali e, dall'altro, riprendendo le mosse dall'antica, eppure mai logorata, nozione di 'pedagogia di massa'" (p. 127).

A sostegno di questa tesi Panarari richiama il pensiero di Jacques Derrida, secondo il quale i media in genere dovrebbero realizzare, per il popolo, una "pedagogia intelligente e inventiva" (cfr. J. Derrida e B. Stiegler, Ecografie della televisione, Milano, Cortina, 1997, p. 157). L'obiettivo dovrebbe essere non quello di inculcare con forza una qualche Weltanschauung alternativa, bensì quello di "stimolare ed espandere quello spirito critico tanto caro all'illuminista Immanuel Kant, senza il quale non si dà cittadinanza profonda e attiva" (p. 128).

In definitiva, si può dire che con questo libro Massimiliano Panarari abbia descritto in maniera realistica lo status dei mass media occidentali e, in particolare, italiani. L'idea di tornare a Gramsci, ossia all'idea di egemonia culturale, si rivela utile: qualora si sostenesse la cultura etico-politica della sinistra, indubbiamente si porrebbe il problema dell'utilizzo dei media e della Tv, anche con finalità, lato sensu, pedagogiche. Più in generale, una rinnovata battaglia progressista è anche una "battaglia delle idee", e non può esimersi dall'affrontare il nodo "sovrastrutturale" - per usare una terminologia marxiana - della stessa società. E' quanto ha sostenuto, dal lato della politica, recentemente, Nichi Vendola.

Pur condividendo le tesi di Panarari, vorremmo da ultimo precisare, brevemente, alcuni problemi comportati dal suo discorso.

In primis, va considerato che, per quanto siano possibili ed auspicabili un uso diverso della Tv e l'adozione di contenuti televisivi differenti da quelli imposti, ad esempio, dai programmi brillantemente discussi (e criticati) da Panarari, non c'è dubbio che, al contempo, come sostenne Marshall McLuhan, "il medium è il messaggio". Pertanto il medium televisione, rivestendo peculiari caratteristiche tecniche e comunicative, tende ad influenzare gli spettatori secondo modalità, in molti casi, che esulano dai contenuti. In particolare, la Tv implica il predominio dell'immagine e di una comunicazione, contemporaneamente, asimmetrica e spettacolare, sovente superficiale, ma non per questo non in grado di coinvolgere anche emotivamente gli utenti. D'altro canto, lo spettacolo è merce e dunque il suo predominio è il riflesso della civiltà dei consumi e del neocapitalismo. Con ciò si vuole dire, per caso, che i contenuti dei programmi siano sempre e comunque irrilevanti? Ovvero, che la televisione sarebbe "naturaliter di destra", come affermò Norberto Bobbio, in occasione della vittoria berlusconiana del 1994? Certamente no; più semplicemente, si vuol dire che la televisione come medium di massa presenta alcune particolarità comunicative e tecnologiche che non si prestano facilmente all'adozione di una determinata pedagogia (televisiva) - ad esempio, di sinistra. Numerose ricerche al riguardo hanno dimostrato, con una certa plausibilità, che gli effetti di lungo periodo, anche di tipo politico, dei media e della Tv sul pubblico degli spettatori prescindono dall'imposizione di determinati contenuti e programmi (cfr. le tesi di Danilo Zolo descritte ne Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli II ed., 1996, pp. 182-203). Ovviamente ciò non significa non essere d'accordo con Panarari circa la necessità di realizzare, in Italia, un autentico servizio pubblico radiotelevisivo ovvero di rafforzare programmi di vera informazione (come Ballarò ed Annozero, per intenderci). Così come ciò non implica che l'obiettivo di superare il conflitto d'interessi politica-Tv, di cui è portatore Berlusconi, non sia importante e, per certi aspetti, decisivo (è il tema, anche, del pluralismo). Tuttavia, occorrerebbe cautela nell'affidarsi eccessivamente al medium televisivo in quanto tale (come strumento, cioè, fondamentale per la rinascita della sinistra, e non solo in Italia).

Ad ogni modo, l'idea, pur condivisibile, di favorire il servizio pubblico e di contrastare l'oligopolio delle Tv private, al fine di favorire un'egemonia di sinistra, implica la grande questione della proprietà dei media. Una questione definibile, marxianamente, strutturale: assieme ad una rinnovata "battaglia delle idee", occorrerebbe una lotta socio-politica per la conquista di nuovi spazi e mezzi di informazione pubblica. Se prima la sinistra di orientamento marxista si proponeva, tra l'altro, di realizzare la "socializzazione dei mezzi produzione", oggi dovrebbe porsi, particolarmente, anche l'obiettivo della socializzazione dei mezzi d'informazione (quantomeno nel senso di condurre la comunicazione televisiva dal lato sociale, dal basso, evitando che la stessa sia realizzata soltanto dalle élites).

Va, poi, tenuto presente il quadro della globalizzazione entro cui si iscrive il problema televisivo italiano; al proposito, si pensi alla questione del mainstream mediatico-informativo, ossia all'egemonia comunicativa imposta dai grandi networks internazionali - i quali operano febbrilmente, a quanto pare, a servizio del capitale globale. E' evidente, dunque, che la riconquista di un'egemonia culturale progressista implica un impegno politico e ideologico al livello della globalizzazione; e ciò comporta la necessità - pure avvertita dall'autore - di avvalersi anche di mezzi diversi da quello televisivo, come, ad esempio, la Rete.

In ogni caso, il saggio di Panarari illumina efficacemente gli effetti ideologici dei media e della televisione, con particolare riferimento all'attualità italiana: leggere ed approfondire le tesi dell'autore è, dunque, assai utile sia per comprendere lo status quo sia per cercare di proporre un plausibile ed auspicabile cambiamento politico e culturale.

Alfonso Liguori