2005

N. Owen (ed.), Human Rights, Human Wrongs, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 358, ISBN 0-19-280219-4 (saggi di T. Todorov, M. Ignatieff, P. Singer, G. Bindman, G.C. Spivak, G. Sereny, S. Sontag, E. Hoffmann)

Il testo raccoglie le «2001 Oxford Amnesty Lectures» sul tema dei diritti umani e degli errori umani nel vegliare sui diritti. Si tratta di lezioni tenute a Oxford prima dell'11 settembre da docenti inglesi, americani, australiani (con qualche eccezione), presentate da docenti oxoniensi e curate da un oxoniense. Ma Oxford, come nota Susan Sontag all'inizio della sua conferenza, è molto lontana dai campi di battaglia e dalle tende dei rifugiati. In posti come Oxford è facile che i diritti umani vengano presi al più come una buona causa, con la quale tanti intellettuali si identificano, ma alla quale non destinano un grande impegno.

Gli intellettuali raccolti a Oxford si sono comunque dedicati a sviscerare il problema in diverse direzioni, producendo saggi di diverso peso e consistenza e di differenti stili: utopista e idealista quello di Todorov; realista quello di Ignatieff, sconcertante - e spiegherò il perché - quello di Singer; poco comprensibile il saggio di Spivak, toccante quello di Sereny, lucido e coinvolgente quello di Sontag, centrale quello di Eva Hoffman.

Le posizioni degli autori, ripeto, ricoprono un ventaglio molto ampio, soprattutto per quanto riguarda un nuovo diritto, un diritto di terza o quarta generazione, ovvero il «diritto di interferenza» sul quale si concentrano i primi tre saggi. Si tratta di un diritto emerso negli anni '90 del Novecento - i diritti, insegna Bobbio, nascono in concomitanza coi bisogni - e che giustifica l'azione militare esterna nei confronti di uno stato sovrano in caso di gravi violazioni dei diritti umani (genocidio, deportazione, stupro di massa etc.). In pratica il diritto di interferenza rientra nella teoria della guerra giusta e può essere usato solo come ultima risorsa, per una giusta causa, con mezzi proporzionali ai fini desiderati. Todorov, che non si lascia illudere dalla pretesa umanitaria della filosofia dell'ingerenza, prende chiaramente posizione contro questa misura, che presuppone che uno stato o un gruppo di stati (per esempio quelli che stanno dietro la NATO) abbiano il diritto di intervenire con le armi - scalzando i principi di sovranità degli stati-nazione - ovuunque nel mondo abbia luogo una violazione dei diritti umani (principio difeso da Kofi Annan, Bill Clinton e Vaclav Havel ecc., nonché applicato in Kosovo nel 1999). A Todorov questo presunto diritto ricorda troppo altri interventi condotti nella storia in nome della diffusione di principi umanitari del tipo dei sacri valori del Cristianesimo o dei valori profani del progresso, dell'industria e del mercato. Todorov avanza l'argomento che mette in rilievo come spesso gli interventi militari di stati esterni distruggono la nazione-stato, sostituendo alla tirannia qualcosa di ancor peggio, cioè l'anarchia, l'assenza di apparato statale e costituzionale, che lascia il paese in mano a criminali mafiosi. Intorno al «diritto di interferenza» Ignatieff, nel suo intervento, concorda con Todorov sul punto che la più grande violazione dei diritti umani procede dall'anarchia e non dalla tirannia, perché senza le istituzioni di base di uno stato non è possibile la protezione dei diritti; conviene con lui sulla constatazione che nei fatti non si interviene dove ce n'è più bisogno ma contro gli stati troppo deboli per resistere, talché nessuno interferisce con la Cina per l'occupazione del Tibet o con la Russia per la distruzione della Cecenia, e nemmeno propone sanzioni agli Stati Uniti perché aboliscano la pena di morte o rispettino i diritti dei prigionieri di Guantanamo. Ignatieff si distacca però da Todorov nell'ammettere la legittimità, per quanto condizionata, del valersi di questo diritto allo scopo di prevenire il peggio prima che avvenga, purché la forza militare di intervento rimanga forza di occupazione e non si trasformi in oppressore imperiale. Interviene a questo punto la voce di Peter Singer, che avevo definito sconcertante. L'autore, un utilitarista intransigente, sostiene infatti che un governo ha pieno diritto alla sovranità solo se democratico, cosa che giustifica l'intervento in paesi non democratici. Tanto più che gli esseri umani rivelano una propensione naturale al genocidio, che si può vedere all'opera nella selezione naturale. E con questa affermazione «scientifica» Singer ha bell'e che tappato la bocca a tutti quelli che non la pensano come lui, bollati come oscurantisti. Ora, la propensione naturale al genocidio - spiega Singer - nasce dal fatto che ogni nazione vuole massimizzare il numero di discendenti genetici propri e a questo scopo i maschi, se non impediti dalla legge, ammazzano i maschi di altri gruppi e ne fecondano le donne per lasciare i loro geni alle generazioni seguenti. Con tutto il rispetto per Singer e per il suo sforzo di una vita di divulgare i principi etici, questa posizione fondata su una presunta natura umana olocaustofila mi sembra raccapricciante.

Chiusa la parte sul diritto di interferenza, il testo continua con un saggio di G. Bindmann in favore della persecuzione e punizione dei colpevoli della violazione dei diritti umani e della ricerca dei modi più adeguati per farlo, per esempio con l'istituzione di tribunali internazionali. Segue il lungo e alquanto oscuro intervento di Spivak, pensatrice femminista di matrice decostruzionista, che riorienta il dibattito spostandolo non sul divario tra il primo mondo e i tre continenti del sud, ma piuttosto su quello tra élites e subalterni, per i quali Spivak propone un modello educativo che superi il sillabare e memorizzare per arrivare a comprendere i contenuti. Gitta Sereny, che affronta il problema del razzismo interno, ci redime dalla nostre naturali inclinazioni al genocidio sostenendo molto rousseauianamente che i bambini - almeno quelli - nascono fondamentalmente buoni e vengono distorti dalle cose che accadono loro durante l'infanzia. Rimarcando una realtà banale quanto trascurata, cioè che non è facile abbandonare la case e i familiari e diventare immigranti, e che per farlo bisogna essere disperati, Sereny sottolinea i legami tra le politiche contro l'immigrazione, la xenofobia e il razzismo interno. Nella sua «Amnesty Lecture» Susan Sontag si concentra sulla fotografia di guerra e sulle immagini di atrocità, chiedendosi se esse risveglino le coscienze o piuttosto le anestetizzino contro gli orrori, ed effettuando a questo scopo una acuta lettura della foto scelta per la copertina del libro: un soldato serbo, un bel ragazzo biondo, occhiali da sole, sigaretta in mano, che prende a calci il corpo di una donna agonizzante o già morta. Se non ci fosse Sontag a farci notare i particolari, ci basterebbe guardare la foto per capirli e provare disgusto? L'ultima lezione, quella di Eva Hoffman, esplora il peso della violazione dei diritti nel ricordo dei sopravvissuti. Le sue considerazioni sono degne di nota. E' vero che i fatti sono fatti e non possiamo far finta che non siano accaduti, eppure c'è un atteggiamento che si può proporre come forma di riparazione in grado di fornire qualche chance di riconciliazione: il riconoscimento dell'esperienza della vittima e della responsabilità di chi ha perpetrato i torti. Pur se il riconoscimento è solo simbolico e non prevede risarcimenti materiali, sappiamo che i gesti simbolici hanno una grande forza, e sappiamo anche che i perpetratori di umiliazioni e violenze quel gesto minimo non lo compiono volentieri perché preferiscono mantenere le loro convinzioni e giustificarle internamente.

Francesca Rigotti