2008

G. Nevola, Democrazia Costituzione Identità. Prospettive e limiti dell'integrazione europea, Liviana, Torino 2007

Con la firma del nuovo Trattato a Lisbona (18-19 ottobre 2007) siamo, auspicabilmente, alla fine di uno dei periodi più difficili per l'Unione europea (UE). Lo stallo politico della UE circa la seconda guerra in Iraq (con la distinzione da parte dell'amministrazione Bush tra "vecchia" e "nuova" Europa), la bocciatura della c.d. "Costituzione europea" nei referenda in Francia e Olanda, preceduta comunque da avvisaglie circa la disaffezione dei cittadini dei paesi membri e determinata in larga parte dalla paura di una progressiva riduzione delle prestazioni sociali garantite dai governi nazionali, e infine lo scontro circa il bilancio dell'Unione sono le tappe di un processo che ha messo in crisi la retorica "europeista" circa un'integrazione inarrestabile tra i paesi membri. Si tratta di una crisi passeggera, di uno stop temporaneo (in attesa di contingenze più favorevoli, in primo luogo economiche, ma anche di politica internazionale), oppure dietro la crisi di una retorica si nasconde la fine di un progetto istituzionale (quello che puntava alla costruzione di una Unione politica sovranazionale a danno dei poteri dei singoli stati membri)? In altre parole, cosa ci insegnano questi anni e cosa ci aspetta per il futuro, anche alla luce del compromesso raggiunto in questi giorni a Lisbona?

Il saggio di Gaspare Nevola, professore di Scienza della politica a Trento, fornisce una serie di strumenti per meglio capire questi "anni orribili" (o straordinari, a seconda della prospettiva) e sulla base di questi immaginare uno sviluppo per l'UE.

È chiara, sin dal titolo, la volontà dell'autore di tenere insieme i tre corni del trilemma di legittimazione della UE. Mancando un'identità comune tra i paesi dell'Unione non possiamo avere una costituzione con dei valori condivisi; mancando una costituzione non possiamo avere una democrazia; mancando una democrazia non possiamo costruire una identità comune, tenuto conto del fatto che tutti i paesi hanno una costituzione democratica. In generale, secondo l'autore, la pubblicistica "europeista", in particolare tramite interviste e commenti nei quotidiani, durante questi anni ha fatto finta di non cogliere la radicalità del deficit di legittimazione della UE. Questo deficit non dipende dalle mutevoli aspettative, fa notare Nevola, di un elettorato irrazionale, avvolto ancora nei fumi di un nazionalismo reazionario, o preda di un sussulto di egoismo politicamente suicida. Abbiamo di fronte la fine di un modello di integrazione che l'autore chiama "modello di Maastricht". Tale modello, basato sul principio dell'integrazione negativa e avente la finalità di costruire esclusivamente un mercato comune e non una istituzione politica autoritativa, non è più sufficiente in una realtà fatta da 25 o 30 stati membri. L'allargamento ad Est, di cui correttamente, data la natura "scientifica" del contributo non viene messa in questione l'opportunità politica, costituisce uno spartiacque: non è più possibile "andare avanti senza sapere dove", bisogna domandarsi in che cosa consiste l'identità europea se si vuole costituire uno spazio politico comune.

In questo quadro, l'autore individua come condizione necessaria di una democratizzazione della UE un processo di unificazione politica, cioè di costituzione di istituzioni che godano di legittimazione da parte dei cittadini e che siano efficaci nell'esercizio delle loro competenze. Tali istituzioni devono godere di un monopolio di autorità e lealtà in stato di crisi, devono avere cioè il potere di mobilitare due risorse politiche: il potere (la coercizione) e l'identità collettiva. Questo processo di costruzione di uno "spazio politico europeo" sostanzialmente, denuncia l'autore, non ha avuto luogo. Nonostante la retorica circa il "destino della globalizzazione", gli stati nazionali sono rimasti gli ambiti in cui si realizza uno spazio politico, in cui cioè i cittadini riconoscono istituzioni dotate di autorità, istituzioni che possono imporre la loro volontà in modo coercitivo, ma legittimo. Seguendo le analisi di Stein Rokkan, secondo Nevola, gli stati nazionali sono quelle entità politiche che hanno superato il "test dell'unificazione politica", cioè hanno soddisfatto la condizione di avere istituzioni autoritative efficaci e legittimate da parte di un'unità collettiva. In questo modo, sostiene l'autore, si coglie la differenza tra esperienze federali, come gli USA e la Svizzera, e esperienze non ancora federali come l'UE. Nel primo caso nel tempo si è già costituito uno spazio politico in quanto i cittadini hanno già individuato una loro identità politica, sanno cioè quali sono le istituzioni autoritative che distribuiscono i beni secondo particolari norme e hanno un'identità collettiva intesa come una "comune appartenenza". In questo modo, secondo Nevola, bisogna sgombrare il campo da due fraintendimenti.

In primo luogo non si può pensare che si possa costruire uno spazio politico europeo, tramite una costituzione, in quanto nella stesura e nella ratifica di questa ritornerà, come è logico data la natura democratica dei singoli stati membri, la questione della legittimità di tale accordo. Non è un caso che tale accordo sia alla fine naufragato; non si è infatti voluto riconoscere che lo spazio politico, il luogo dove insistono istituzioni che possono prendere decisioni vincolanti però legittime, rimane ancora disperso tra gli stati nazionali gelosi delle loro prerogative. In questo modo, secondo l'autore, si spiega il reale punto di fallimento del progetto: i singoli stati non intendono cedere ancora parti della loro sovranità. La lunga vicenda della (mancata) ratifica del trattato, spiegata con l'ausilio di diversi interventi nella carta stampata da parte dei diretti protagonisti, mostra come si stesse portando avanti una sorta di "accanimento terapeutico-retorico" di fronte però ad una evidenza: che non si poteva arrivare ad una costituzione in una situazione in cui ciascun passo della convenzione doveva essere il risultato di un compromesso tra gli stati membri. Come afferma Valéry Giscard D'Estaing, presidente della Convenzione di Laeken: "la convenzione di Filadelfia ha potuto varare una vera costituzione perché non si è trovata sulla testa un potere superiore: quello degli stati sovrani con cui invece noi dobbiamo misurarci" (116). Dietro il progetto di convenzione costituzionale si nascondeva quindi una illusione: che si potesse costituire soltanto de iure (tramite una costituzione) uno spazio politico, mentre invece quest'atto normativo non è altro che la formalizzazione del successo di un processo di accentramento di poteri nelle mani di alcune istituzioni autoritative: "l'unificazione politica precede logicamente, e spesso anche empiricamente, la costituzionalizzazione" (118).

In secondo luogo, l'autore mostra come l'identità collettiva non debba essere considerata come un'entità naturale, ma come una costruzione sociale. In questo senso non è necessario condividere le tesi circa una natura "etnica" dell'identità collettiva. Non si possono accettare, tuttavia, tesi, come quelle di Habermas, che vedono nell'identità collettiva il risultato di un processo ideale di comunicazione. Le identità collettive sono il risultato certamente di processi di comunicazione, ma sono anche il frutto di decisioni politiche, in primo luogo di politica educativa e culturale. Inoltre è da rifiutare, secondo l'autore, l'idea che le identità collettive, come quella europea, possano essere multiple, in quanto secondo l'autore l'identità multipla può essere propria di un'identità individuale, ma non di un'identità collettiva. Per esserci una identità collettiva bisogna assumere che vi è un'identità che prevale sulle altre possibili, e spesso questa prevalenza è data dal riconoscimento di una istituzione che sancisce autoritativamente alcuni valori e che è frutto di una comune appartenenza ad un medesimo gruppo; l'identità politica risulta quindi dirimente nella formazione di una identità culturale.

È possibile costruire un'identità politica tramite una forma di patriottismo costituzionale? Anche in questo caso Nevola mostra come le teorie del patriottismo costituzionale non possono fare a meno dell'idea di uno spazio politico comune, particolare ed esclusivo. Tali dottrine non fanno altro che riproporre l'idea che non vi possono essere costituzioni senza previe identificazioni di un particolare spazio politico e di un'identità politica comune sulla base di valori storicamente inscritti nel documento costituzionale. Il patriottismo costituzionale, quindi, non è altro che una lettura dell'appartenenza ad uno spazio politico particolare (ad una particolare interpretazione di principi politici universali), storicamente individuato in cui competono per il consenso dei votanti partiti politici aventi programmi diversi. Tali partiti, che costituiscono l'espressione del pluralismo politico all'interno della comunità, riconoscono però la legittimità delle stesse istituzioni nazionali. Se queste sono le condizioni di esistenza di un patriottismo costituzionale, allora non si può parlare di un patriottismo costituzionale per l'UE, in quanto, come abbiamo visto, le costituzioni rimangono un patrimonio normativo proprio di entità politiche sovrane, cioè gli stati nazionali. Possiamo parlare piuttosto di una identità politica di "secondo grado", o di un "patriottismo europeo della cittadinanza multinazionale" (176). Si tratta di un "patriottismo il quale tenga insieme identificazione con principi formali, astratti ed universalistici della cittadinanza democratica (costituzionalismo; appartenenza costituzionale; lealtà democratica) e identificazione con ambiti di vita politico-culturali sostanziali, concreti e particolaristici radicati nelle storie e nelle strutturazioni di spazi politici nazionali (patriottismo; appartenenza nazionale; lealtà nazionale)" (178). Questa, a giudizio di Nevola, è l'unica forma di appartenenza all'UE, forma di appartenenza che comunque riposa su una previa identificazione con la propria comunità politica; si tratta quindi di un'identificazione derivata.

Il libro si chiude con una rassegna delle prospettive di sviluppo della UE di fronte alla crisi di consenso che si è venuta a creare in seguito alla mancata ratifica del Trattato costituzionale. L'autore a tal proposito distingue tra scenari massimalisti e scenari realisti. I primi si distinguono in scenari di "rilancio costituzionale" (concernenti o un'ipotesi di approvazione del Trattato costituzionale ad opera dei 4/5 degli Stati, ipotesi ormai decaduta data l'approvazione a Lisbona del nuovo Trattato costituzionale, o una nuova Convenzione o Assemblea Costituente europea), e scenari di "ricominciamento dell'integrazione", tramite una distinzione tra paesi a maggiore vocazione europeista, che seguirebbero una costituzione comune, e paesi con minore vocazione (con la creazione quindi di "due Europe", di due processi di integrazione). Gli scenari realisti riguardano invece un modello di Maastricht conservativo e un modello riformato. In particolare l'autore si sofferma sui modelli "riformati" distinguendone due: uno è un modello "neoanseatico", cioè una unione economica e commerciale, ma non politica (modello preferito dalla Gran Bretagna); l'altro è invece un modello "neoimperiale", "un sistema di stretto coordinamento europeo di politiche utili e necessarie alla salvaguardia di interessi e di identità politiche nazionali- sotto l'egida autorevole di alcune «grandi potenze» europee...e con la volontà di promuovere un patriottismo multinazionale della cittadinanza europea, che ci aiuti a farci sentire anche «cittadini europei»" (198). Questa forma di sviluppo dell'integrazione europea è quella che, secondo Nevola, coniuga realismo, dati i rapporti di forza all'interno dei paesi dell'UE (rapporti ormai chiari dopo il doppio binario usato per le procedure di infrazione per deficit eccessivo contro Francia e Germania), e spinte ideali, come la costruzione progressiva di una cittadinanza multinazionale. Si tratterebbe di passare da un europeismo fondamentalista ad un "europeismo disincantato" (201).

È sicuramente utile leggere queste analisi circa le prospettive di sviluppo della UE alla luce dei recenti sviluppi, soprattutto per il fatto che la bozza di Trattato uscita dalla conferenza di Lisbona cerca di mettere insieme sia logica neoanseatica (con le varie clausole di salvaguardia a favore dell'Irlanda e del Regno Unito), sia quella neoimperiale (seppur non in termini così crudi e grazie a molteplici compromessi, non ultimi con il nostro paese). C'è però da domandarsi se il modello neoimperiale sia coerente con l'idea di una cittadinanza multinazionale nei termini in cui viene esposta da Nevola. L'idea che i destini di uno spazio politico unificato siano nelle mani di un insieme di potenze è propria della logica "neoimperiale" dell'integrazione. Ci sembra però una logica contraddittoria con l'idea di una cittadinanza multinazionale, germe di una identità politica europea. Una cittadinanza multinazionale all'interno di un impero è un simulacro di cittadinanza, in quanto nasconde dietro la retorica di uguali diritti e opportunità una sostanziale differenza tra i cittadini dei vari paesi membri (la voce di un cittadino francese sarà più ascoltata di quella di un cittadino slovacco). Avremmo in questo caso una cittadinanza a-democratica molto simile ad una riedizione dell'apparato retorico proprio del modello di Maastricht, in cui la cittadinanza non era altro che uno slogan per coprire un inesistente spazio politico comune. Un trucco che come evidenzia Nevola è ben conosciuto dai cittadini europei come è chiaro dalla disaffezione alle elezioni per il Parlamento europeo.

Ma forse il prezzo da pagare è proprio questo: nella UE non c'è spazio, al momento, per una cittadinanza che non sia "a democrazia variabile". Un contributo realista come quello offerto da Nevola ci offre gli strumenti per cogliere questi cambiamenti dell'idea di cittadinanza, soprattutto quando trattiamo temi come l'appartenenza e la partecipazione ad istituzioni politiche sovranazionali.

Francesco Biondo