2005

U. Beck, Das Schweigen der Wörter. Über Terror und Krieg, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2002; trad. it. Un mondo a rischio, Einaudi, Torino 2003, 50 pp., ISBN 88-06-16617-4

Questo breve libro di Ulrich Beck riporta il discorso tenuto dall'autore alla Duma di Mosca nel novembre del 2001, a pochi mesi dalla tragedia dell'11 settembre. Al centro del volumetto l'idea di 'società mondiale del rischio': secondo Beck, tale idea nasce dal disagio comunicativo che l'11 settembre ha prodotto nella storia dell'umanità, nel senso che i nostri concetti, le nostre idee, la capacità che il nostro linguaggio aveva di spiegare la realtà circostante sono stati - secondo Beck - messi fortemente in crisi da quell'evento potente e tragico che ha così segnato definitivamente la discrepanza tra la lingua e la realtà (p. 7). Tale discrepanza si enuclea nell'incomunicabilità: non soltanto non siamo in grado di prevenire o evitare i pericoli che abbiamo disseminato nel globo, ma il nostro linguaggio non è in grado di informare le generazioni future su tali pericoli.

Ma allora quid novi? Non è forse stato sempre così? Secondo Beck, la peculiarità della 'società mondiale del rischio' è nello scontro irriducibile che in questa si realizza tra mondo dei fatti e mondo delle parole: "le conseguenze e i pericoli globali frutto delle decisioni della nostra civiltà sono in netto contrasto con il linguaggio del controllo istituzionalizzato e con la promessa di controllare la situazione" (pp. 10-11) nel caso dovessero verificarsi catastrofi messe sotto gli occhi dell'opinione pubblica. La dirompente portata degli eventi raccontati reagisce quando essi entrano in contatto con la realtà e da 'parole' divengono 'fatti'.

L'autore si propone, alla luce di questa premessa, di provare ad analizzare e ridefinire concetti quali 'terrorismo', 'guerra', 'globalizzazione', 'stato' e 'sovranità'.

Per quanto riguarda il terrorismo, Beck sostiene che esso produce un mutamento nella "grammatica nazionale degli eserciti e delle guerre" (p. 21) laddove, distaccandosi dalle logiche dei movimenti di liberazione nazionale, diventa transnazionale (Beck parla di 'ONG del terrore') e produce, di conseguenza, l'esplosione semantica del concetto di 'guerra' insieme alla crisi del monopolio statale del potere. Beck infatti sostiene che il terrorismo estende la guerra e la rende globale, annullando non solo i confini fisici tra gli Stati, ma anche quelli teorici tra civili e militari, innocenti e colpevoli, guerra e pace. Tutto ciò conduce, inoltre, all'individualizzazione del conflitto (Stati contro individui, individui contro Stati). Secondo Beck questa 'società mondiale del rischio' produce paura, e tale paura "produce una situazione quasi rivoluzionaria" (p. 13) perché "nazioni e schieramenti in lotta tra loro si uniscono contro il nemico comune rappresentato dal terrorismo globale" (ibid.). Il terrorismo crea così una solidarietà globale fondata sul rischio. Nel III capitolo Beck si occupa di ridefinire il concetto di 'globalizzazione' nell'epoca della 'guerra globale': egli sostiene che il neoliberismo non offre alcuna risposta in momenti di crisi, così che il terrorismo non ha fatto altro che dare la spallata ad un sistema - già in crisi - che mirava a sostituire allo Stato e alla politica l'economia e il mercato: "il principio che rappresenta l'antitesi del neoliberismo, ovvero la necessità dell'intervento dello stato, è tornato ad essere d'attualità, e per di più nell'accezione originaria suggerita da Hobbes: al fine di garantire la sicurezza" (pp. 34-35). La globalizzazione assume così - a causa del terrorismo - una nuova dimensione, politica e transnazionale (Beck ripropone pienamente il lessico del globalismo giuridico).

Per quanto riguarda il tema dello Stato e della sovranità, Beck assume che gli Stati hanno due modi di reagire ai rischi globali: possono diventare 'stati sorveglianti' (chiusi alla diversità, ripiegati su se stessi e su esigenze interne di sicurezza, esposti al rischio di trasformarsi in 'stati fortezza'), oppure 'stati aperti al mondo', cioè aperti alla complessità e alla diversità, cooperanti, esperenti politiche transnazionali e costituenti un "un sistema di stati cosmopolita, basato sull'accettazione dell'altro" (p. 45): tali Stati cosmopoliti dovrebbero "garantire la coesistenza di identità etniche, nazionali e religiose che non coincidono con i confini nazionali" (p. 46).

È evidente che, sviluppando queste tematiche, Beck si iscrive a pieno titolo nella tradizione del cosmopolitismo di matrice kantiana, e si espone inevitabilmente alla critica che a tale tradizione viene mossa dalla teoria 'realista' del diritto internazionale.

Francescomaria Tedesco