2010

S. Palidda, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Edizioni Cortina, Milano 2008, ISBN 9788860301666

Il fenomeno migratorio è sempre esistito ed è intrinseco nella natura dell'uomo perché frutto di un'aspirazione a migliorare la propria situazione o quella della propria famiglia. Tuttavia, oggi si sente spesso parlare dell'immigrazione come "emergenza", minaccia alla sicurezza e al benessere dei cittadini dei paesi sviluppati. Anche a causa delle politiche fortemente avverse all'immigrazione e delle distorsioni operate da molti media, gli immigrati sono mal tollerati dalla maggioranza della popolazione di questi paesi, e usati spesso come "capri espiatori" per tutti i mali della società. Pochi considerano gli immigrati persone uguali a loro, con gli stessi desideri e le stesse paure, e anche coloro che si dichiarano più "tolleranti" e aperti all'immigrazione spesso non arrivano a riconoscere nei migranti uomini e donne titolari degli stessi diritti che la cittadinanza concede loro. Gli immigrati sono concepiti, nel migliore dei casi, come "risorsa economica", forza-lavoro utile e necessaria per mantenere i nostri standard di vita: devono lavorare sodo, rispettare le nostre tradizioni, pagare le tasse, ecc... ovvero sono soggetti a tutti i nostri doveri - e anche qualcuno in più - ma non possono ottenere la cittadinanza che garantisce a noi diritti e libertà (come quella di movimento) che non vogliamo concedere a loro.

Basterebbe "cambiare prospettiva", provare a "mettersi nei panni" delle persone migranti: farsi raccontare la situazione che vivevano "a casa loro", i sacrifici fatti per partire e le ingiustizie subite nel loro viaggio, i loro sogni e i motivi che li hanno spinti a lasciare il proprio paese, le angherie e le condizioni terribili in cui vivono e lavorano nei nostri paesi "civilizzati", i ricatti e le umiliazioni che subiscono e le difficoltà quotidiane che una persona senza diritti incontra in un paese straniero a causa delle politiche nei suoi confronti, ecc... Forse questo permetterebbe ai cittadini dei paesi d'immigrazione di cambiare opinione, e scoprire che i migranti non meritano il nostro fastidio o disprezzo quando li incontriamo per strada o in qualche altro luogo pubblico, e che la maggioranza di essi non è venuta in Italia "per rubare il lavoro" o per delinquere, "dato che qui la giustizia è meno severa che al loro paese". Questo cambiamento di prospettiva è ciò che viene operato Salvatore Palidda, professore di sociologia generale, sociologia delle migrazioni e sociologia della devianza e del controllo sociale presso l'Università degli Studi di Genova, nel libro Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni.

Lo studio delle migrazioni proposto da Palidda vuole essere in primo luogo un'analisi dei dispositivi, delle pratiche e delle interazioni nel campo delle relazioni tra migranti, società di origine e paesi di arrivo. L'autore vuole capovolgere e decostruire foucaltianamente la "scienza delle migrazioni", cioè il "pensiero di Stato" (e quindi del dominante), che ignora il punto di vista dei migranti e fornisce una visione distorta e assolutamente parziale di un fenomeno molto complesso e che, soprattutto, riguarda persone non flussi.

Essendo un sociologo, Palidda considera la migrazione innanzitutto un "fatto sociale totale", cioè "un'esperienza umana che coinvolge ogni elemento, ogni aspetto, ogni sfera e ogni rappresentazione dell'assetto economico, sociale, politico, culturale e religioso" (p. 1). Per questo le migrazioni diventano anche una "funzione specchio" che rivela le caratteristiche della società di origine e di quella di arrivo, della loro organizzazione politica e delle loro relazioni. Il punto fondamentale, secondo l'autore, è che la scienza delle migrazioni, in quanto "discorso" del dominante, ha sempre nascosto la caratteristica politica fondamentale insita nel fenomeno migratorio, ossia l'atto – spesso inconsapevole – di libertà e di aspirazione all'emancipazione, riducendo le mobilità umane a puro fatto economico e/o demografico, a fenomeno quasi meccanico/idraulico di travaso di flussi di merci (manodopera) fra vasi comunicanti. In realtà, tutta la storia dell'umanità è storia di migrazioni, scaturite proprio dalla tensione fondamentale dell'essere umano a migliorare la propria esistenza. In questo senso, la migrazione può essere considerata un atto politico, poiché è, nei fatti, un tentativo di agire liberamente. La mobilità è intrinseca all'essere umano e ha molteplici cause: disastri naturali, guerre, ricerca di migliori condizioni di vita, desiderio di conoscere e di fare nuove esperienze... Senza mobilità, è assai probabile che l'umanità si sarebbe estinta, infatti, esse hanno un'importanza fondamentale sin dai primordi della storia della vita associata.

Dopo l'analisi sociologica del fenomeno migratorio, necessaria premessa per un libro destinato anche a studenti di sociologia, Palidda dedica un capitolo ad alcuni aspetti della migrazione italiana nei secoli scorsi, e in particolare all'associazionismo italiano in Francia. Decisamente più interessanti risultano però le pagine dedicate alle migrazioni contemporanee, dove l'autore compie un'analisi lucida e non banale, anche se a tratti un po' disorganica, che getta nuova luce su un fenomeno sempre al centro dei dibattiti politici e mediatici.

Lo studio delle odierne migrazioni implica necessariamente la comprensione dei mutamenti profondi avvenuti dagli anni Settanta del XX secolo in poi, in seguito al passaggio a un nuovo modello di sviluppo pervaso dalle logiche neoliberali. Queste producono sulle migrazioni effetti drammatici: per secoli, l'immigrazione era stata considerata indispensabile per lo sviluppo industriale e l'"etica" del migrante si combinava perfettamente con lo spirito del capitalismo; oggi, invece, le possibilità di diventare self-made men o di accedere ai ranghi anche più modesti degli inclusi sono limitate, mentre non è difficile rimanere nei ranghi delle classi subalterne, se non nel limbo infernale degli irregolari e delle non-persone.

Le migrazioni sono infatti divenute oggetto di un proibizionismo poliziesco-militare che le rende uno dei principali nemici del liberalismo, che pure si nutre di esse. Esiste una correlazione tra le migrazioni e lo sviluppo di rapporti neocoloniali tra paesi ricchi e società povere: gli attori dei paesi sviluppati possono delocalizzare le loro attività dove, come e quando vogliono, mentre la libertà di movimento degli abitanti dei paesi meno sviluppati è violentemente negata, e chi riesce ad emigrare sperimenta quasi sempre condizioni simili a quelle dei lavoratori coloniali, razzializzati, neoschiavizzati o, comunque, inferiorizzati. Gli immigrati di oggi, così come gli schiavi della colonizzazione di ieri, sono "milioni di persone cui sono stati inculcati scientemente la paura, il complesso d'inferiorità, il tremore, la genuflessione, la disperazione, il comportamento da lacchè" (Aimé Césairé, Discorso sul colonialismo, 1955, p. 77).

I migranti oggi sono categorizzati in "razze", "etnie", "comunità", entità culturali o religiose. Le società di arrivo, infatti, "nominando" gli stranieri pensano di conoscerli e si sentono rassicurate, poiché hanno paura della loro fluidità ed ibridazione più che della loro estraneità culturale. Inoltre, l'"etichettamento" dei migranti è un tipico atto di dominazione autoritaria, che li costringe a collocarsi nelle categorie che la società d'immigrazione impone, privandoli della possibilità di esprimere liberamente la propria identità, e favorisce l'identificazione dei migranti come nuovo "nemico di turno", utile alla coesione sociale.

La categorizzazione dei migranti è anche agevolata dalla presenza di catene migratorie, che collegano una determinata società locale di origine a una precisa società locale di immigrazione, e che continuano a caratterizzare la maggioranza delle migrazioni, anche se in misura minore rispetto al passato. Questa pratica migratoria "di richiamo" tende a produrre reticoli o gruppi sociali, spesso piuttosto ristretti, legati da rapporti di parentela o dalla semplice provenienza comune. Tale prospettiva politica etnico-religiosa si concilia perfettamente con uno sviluppo economico che favorisce la segmentazione della società perché punta al massimo profitto. È appunto il controllo etnico-religioso a consentire la sottomissione a pessime condizioni di vita e di lavoro: il caporale diventa etnico, a lui viene subappaltato il "lavoro sporco". La difficoltà o l'impossibilità di pervenire a un'integrazione pacifica costringe molti immigrati a sottostare alle appartenenze etnico-religiose, che, ovviamente, saranno facilmente additate come una prova del loro rifiuto dell'integrazione o della loro incompatibilità con la "nostra civiltà". Così si viene a creare un circolo vizioso che produce risultati vantaggiosi per padroni e padroncini, notabili e religiosi integralisti di ogni tipo, razzisti e neoconservatori che auspicano la distruzione dello stato laico e della parità dei diritti per tutti gli esseri umani.

Ogni migrante, dal momento in cui decide di partire fino all'inserimento nella società d'arrivo, conosce tipi diversi di passeurs, intermediari o mediatori, che rappresentano l'"aiuto" necessario per "riuscire". Man mano che in Europa è cresciuta la "guerra alle migrazioni" – conseguenza della gestione neoliberale – il prezzo delle prestazioni degli intermediari è cresciuto enormemente, insieme al numero dei morti durante i tentativi di migrazione, e l'opinione pubblica nei paesi ricchi ha sviluppato la tendenza ad attribuirne la responsabilità ai passeurs criminali, o "trafficanti di esseri umani", nascondendo che il primo responsabile di queste perdite è il proibizionismo delle migrazioni. Negli ultimi dieci anni i migranti morti nei pressi delle frontiere marittime o terrestri dell'UE sarebbero almeno 15.000. La parola d'ordine nei paesi d'immigrazione è diventata "aiutiamoli a casa loro", e si è approdati alla "guerra umanitaria" all'immigrazione clandestina, che in nome della lotta ai trafficanti continua a produrre morti, considerati "effetti collaterali".

Questo anche perché, come sottolinea Palidda, nei paesi "democratici", i migranti, oltre a diventare "capri espiatori" per tutti i malesseri e i problemi sociali, sono percepiti come una minaccia per i privilegi della cittadinanza, che sembra quindi configurarsi come antagonista rispetto all'universalità dei diritti. Infatti, i migranti sono relegati al rango di non-cittadini, emarginati dalla società e senza alcun diritto. Le migrazioni vengono viste come la principale causa dell'insicurezza della "civiltà postmoderna", e per ridefinire un presunto "ordine liberale" si susseguono campagne sicuritarie o per la "tolleranza zero". L'insicurezza provocata dalle conseguenze del liberismo è del tutto ignorata: lavoro nero, precarietà, molestie sessuali nei confronti delle donne, violenze razziste contro zingari, immigrati e marginali, incidenti sul lavoro, e altri generi d'insicurezza, che riguardano almeno un terzo della popolazione, non contano.

Decostruendo i "discorsi dominanti" (neoliberali) sul fenomeno migratorio, Palidda coglie e denuncia le contraddizioni e le ingiustizie che la logica neoliberale genera e nasconde servendosi della politica e dei mass media. Oltre al proibizionismo e alla criminalizzazione delle migrazioni, le pratiche attuali che rendono sempre più difficile per i migranti l'accesso all'inserimento pacifico e regolare, ma anche il mantenimento della posizione raggiunta, sono: la distruzione delle società povere dalle quali provengono; la privatizzazione della gestione delle migrazioni e l'aumento del controllo sociale; la negazione dell'asilo umanitario (palese in Italia); la trasformazione della regolarità in clandestinità e la fabbricazione dei clandestini; la destinazione delle risorse (derivate dai contributi degli immigrati regolari) alla guerra contro le migrazioni; lo sfruttamento di manodopera irregolare nelle economie sommerse; il gioco delle sanatorie; il turnover tra gli immigrati e gli scarti; il razzismo e la guerra dei neoconservatori contro terrorismo, criminalità e migrazioni di "musulmani", che segnala un continuum tra guerra al terrorismo e nuova "guerra alle migrazioni".

Un aspetto importante delle migrazioni contemporanee, a cui l'autore dedica un capitolo, è la correlazione positiva tra immigrazione e criminalità, oggi quotidianamente riproposta dai media e all'interno di dibattiti densi di superficialità e luoghi comuni. L'ossessione per il controllo sociale è manifesta, e l'opinione pubblica dei paesi ricchi sembra accettare il sacrificio delle libertà, dei migranti innanzitutto, ma anche proprie, in nome di una illusoria garanzia di sicurezza. Mobilità umane aiuta a comprendere come le migrazioni siano ormai ritenute uno dei nemici della "postmodernità", una minaccia ai privilegi incerti della cittadinanza nei paesi ricchi, e la polizia delle migrazioni sia diventata così pratica di difesa della cittadinanza. La devianza e la criminalità attribuite ai migranti rappresentano una costante trasversale a luoghi e tempi, e hanno sempre suscitato una certa attenzione. Le "prede facili" del fenomeno della criminalizzazione sono da sempre zingari, migranti dell'interno e stranieri. Durante i periodi di crisi politica e/o economica, come quello attuale, l'immigrato è costantemente additato come responsabile di tutti i mali, il nemico comodo che aiuta a forgiare la nuova coesione sociale. Tuttavia, se oggi una minoranza dei giovani immigrati è approdata allo spaccio o ad altre attività delinquenziali è innanzitutto perché questo è il tipo di inserimento che, nei fatti, è stato loro concesso o a cui hanno creduto di poter aspirare. Un aspetto che ha sicuramente favorito tale deriva riguarda la riduzione delle possibilità di riuscita economica e sociale mediante l'inserimento regolare.

Secondo le analisi neopositiviste, le statistiche sulla crescente carcerizzazione degli immigrati mostrerebbero in modo indiscutibile che questi hanno una propensione a delinquere molto più forte rispetto agli autoctoni: il crimine dell'"altro", soprattutto se zingaro, corrisponde alla propensione alla violenza che sarebbe insita in una data popolazione, la quale merita dunque un duro trattamento repressivo. All'opposto, secondo altri autori, tra i quali Palidda, il maggior numero di arresti e condanne fra gli immigrati riflette il processo di costruzione sociale che fa di loro dei delinquenti. A tale costruzione hanno contribuito il protezionismo delle migrazioni e la guerra al terrorismo, che ha provocato una nuova persecuzione degli immigrati etichettati come islamici e dei loro figli, non solo negli Stati Uniti. I dati sulle carcerazioni in Italia dimostrano che più della metà dei detenuti stranieri è imputato per reati previsti dalla legge sugli stupefacenti, poiché il classico meccanismo che riserva il peggio all'ultimo arrivato sulla scena sociale ha condotto, dalla fine degli anni '80, alla sostituzione degli spacciatori "nostrani" con i giovani stranieri. Questi sono, infatti, i più colpiti dai meccanismi di esclusione sociale e dagli effetti della destrutturazione del paese di origine (soprattutto gli algerini, gli albanesi, i marocchini, e i nigeriani) che li condannano alla criminalizzazione e all'autodistruzione. Questi giovani, in preda alla disperazione e alle illusioni sull'Occidente, fuggono da una società distrutta con prospettive di cambiamento pressoché nulle, ma spesso la fretta di "riuscire" li conduce al fallimento ancora prima che possano imboccare la strada della devianza: è così che inizia il calvario verso l'autostigmatizzazione e l'autodistruzione.

In conclusione, il libro di Palidda rappresenta uno dei pochi studi organici pubblicati in Italia che consentono di studiare il fenomeno migratorio da un punto di vista esterno alla logica neoliberale nella quale siamo quotidianamente immersi. Non resta dunque che augurarsi, con l'autore, che "l'insopprimibile tensione verso la libertà di movimento e l'aspirazione all'emancipazione riescano a vincere sulle pratiche protezionistiche e proibizionistiche delle elite dominanti" (p. 161), che non solo provocano tragedie e violazioni dei diritti umani, ma non determinano alcun aumento effettivo delle possibilità d'inserimento regolare, stabile e pacifico.

Stefania Bracco