2005

R. Menotti, XXI secolo: fine della sicurezza?, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. ix-167, ISBN 8842069752

L'11 settembre 2001 gli Stati Uniti, osserva Roberto Menotti, sono stati colpiti "da un attacco portato con strumenti postmoderni (aerei di linea dirottati da un piccolo network ben organizzato), per obbiettivi moderni (far cadere dei regimi politici e forse controllare importanti risorse energetiche) usando un linguaggio premoderno (quello di una particolare forma di Islam)" (p.119).

In questa molteplicità di piani e di prospettive si misura la complessità dell'attuale contesto internazionale in cui - per dirla ancora con Menotti - si intrecciano confondendosi tra loro modernità, post-modernità e premodernità. Di fronte a questo sfalsamento di piani l'interprete, se vuole evitare una lettura distorta dei processi in atto nel sistema internazionale, deve dimostrarsi flessibile, capace di usare strumenti analitici e registri tematici differenziati.

Adeguandosi a questa situazione magmatica, occorre dunque che la scienza internazionalistica riveda criticamente i suoi assunti metodologici. Proprio in questa prospettiva, XXI secolo: fine della sicurezza? contiene pagine preziose. Pagine tanto più apprezzabili nel momento in cui si inseriscono in quel vivace dibattito - il c.d. Third debate - che pur avendo infiammato all'estero gli studi internazionalistici, in Italia è rimasto in realtà piuttosto flebile. Come ricorda Menotti (p. 152), fin dal primo dopoguerra - sull'onda del behaviorismo predominante nelle social sciences statunitensi - si era affermato un metodo di analisi, desunto dalle scienze naturali e in particolare dalla fisica classica, che mirava a ridurre la complessità ad una serie di eventi distinti, analizzabili singolarmente e tali da instaurare catene causali lineari. Oggi, però, tale approccio è considerato obsoleto: alla luce della fisica quantistica e della teoria del caos, le interpretazioni più rigidamente deterministiche sono state messe in discussione.

Forse non si è trattato di una rivoluzione copernicana, ma certo è che nelle scienze esatte si è registrato un sostanziale cambiamento di paradigma. Nelle scienze sociali - e nei security studies in particolare - questo mutamento tarda ad essere avvertito. Il mainstream degli studi internazionalistici, infatti preferisce rimanere ancorato ai consolidati paradigmi razionalistici. Si tratta di un ritardo assolutamente ingiustificabile, avverte Menotti: oggi l'analista deve riconoscere la complessità come dato imprescindibile del contesto internazionale e la turbolenza e l'instabilità come fattori non patologici, ma strutturali. Sul piano metodologico, in particolare, questo si deve tradurre nella consapevolezza che "ragionare in termini di caos e complessità impone di prendere sul serio l'esigenza di un approccio multidisciplinare ai problemi" (p. 154).

Il saggio di Menotti si colloca senza dubbio in questa prospettiva, alternando analisi empirica ed elaborazione concettuale, dialogo con i classici del pensiero internazionalistico - a partire da Machiavelli e Hobbes - e riflessione storiografica. Il risultato è un agile, ma convincente, ricognizione delle modificazioni che sta subendo l'idea di sicurezza internazionale.

Nella società occidentale, le conseguenze sul piano simbolico dell'attacco organizzato da Al-Qaeda non sono state meno devastanti di quelle materiali. Le macerie del World Trade Center hanno seppellito il New World Order con tutti i suoi miti: il progetto di una pacifica transizione verso un nuovo assetto internazionale ispirato alla tradizione liberaldemocratica, la fiducia nella capacità del mercato di livellare le tensioni internazionali, la globalizzazione intesa come un processo irreversibile ed incontrastabile. Si apre uno scenario inquietante, caratterizzato da una conflittualità diffusa, scarsamente visibile ma capace di improvvisi picchi ed accelerazioni. In un tale contesto, avverte Menotti, il rischio di una 'israelizzazione' dell'Occidente - ovvero della persistente soggezione di una società complessa ad un elevato tasso di insicurezza - è tutt'altro che un'ipotesi accademica.

Ad essere mutata, suggerisce Menotti, non è solo la nozione di sicurezza collettiva, segnata dalla repentina presa di coscienza della vulnerabilità della 'società aperta'. E' la natura stessa del conflitto a subire una straordinaria modificazione: ormai il paradigma 'classico', frutto della prassi vestfaliana e dello jus publicum Europaeum, appare un relitto del passato, mentre è sempre più dominante l'immagine intrinsecamente anomica e asimmetrica della guerra civile.

Si tratta di un conflitto che si sviluppa su più dimensioni: su un piano 'orizzontale' assume una portata tendenzialmente universalistica. Da Kandahar a Manhattan non c'è alcuna delimitazione spaziale in grado di arginare ed isolare l'insicurezza, il rischio. Ed in questa prospettiva totalizzante, sembra venire meno - per dirla con Carl Schmitt - anche la fondamentale dicotomia Freund-Feind, con il conseguente corollario della progressiva indifferenziazione tra sfera civile ed apparato militare. Le esigenze securitarie, infatti, tendono a confondere le differenze tra le diverse agenzie, mentre è sempre più difficile determinare i caratteri stessi del nemico.

Su un piano 'verticale', invece, l'insicurezza globale si manifesta in ambiti diversi, assumendo modalità complesse che trascendono i tradizionali modelli interpretativi. La dimensione economica, ad esempio, mostra una straordinaria vulnerabilità: le società democratiche di mercato, osserva Menotti, poggiano sulla fideistica certezza di un'incessante crescita del benessere individuale. Ma questa convinzione postula un sistema economico più stabile e prevedibile di quanto non lo sia in realtà. E non si tratta solo di un'instabilità per certi versi strutturale: la presenza di forti appetiti speculativi nel mercato internazionale, nonché la porosità del sistema agli agenti criminogeni, sono infatti fattori primari di insicurezza.

Per altro, anche ipotizzando che tali fattori siano in qualche modo controllabili e contenibili, il modello di sviluppo in atto nella società postmoderna presenta ulteriori profili di vulnerabilità. Sia il sistema democratico che il modello di crescita economica connaturati alla 'società aperta' occidentale riposano infatti su un indiscutibile primato tecnologico. Ora - insiste Menotti - proprio queste tecnologie avanzate, generando una maggiore complessità, sono motivo di insicurezza. E' palese la dipendenza del modello di sviluppo dominante da un numero selezionato, e quindi facilmente aggredibile, di fonti energetiche. Le scelte operate in questo settore, come noto, non solo hanno causato un vertiginoso innalzamento del rischio ecologico, ma hanno avuto profonde ripercussioni geopolitiche ponendo serie ipoteche alla sicurezza internazionale.

Tra i fattori di insicurezza Menotti annovera anche i recenti progressi nel campo dell'informatica e delle biotecnologie. I sistemi informatici, pur essendo i gangli vitali della open society, hanno manifestato un'assoluta vulnerabilità come ha mostrato l'ondata di panico che ha scatenato il virus Y2K, altrimenti noto come Millenium worm. Al contempo vocaboli come 'biodifesa' o 'bioterrorismo', fino a pochi anni fa prerogativa di una selezionata letteratura specialistica - quando non degli autori di science-fiction -, sono divenuti di uso comune dopo il caso delle lettere all'antrace che ha scosso gli Stati Uniti proprio all'indomani dell'attacco alle Twin Towers.

Quello che ci aspetta nei prossimi anni è un periodo di forte turbolenza e di diffusa insicurezza. Ma la soluzione, conclude Menotti, non sta nel cercare di contenere i fattori di rischio, ricorrendo agli strumenti propri della tradizionale nozione di sicurezza. Piuttosto occorre riconoscere nella turbolenza i fattori di continuità, prendendo coscienza del fatto che "la logica del caos non concede la cupa soddisfazione di un'apocalisse, ma piuttosto promette altre sorprese e ulteriore adattamento" (p.162).

Filippo Ruschi