2007

J. McLaren, A.R. Buck, N.E. Wright (eds), Despotic Dominion: Property Rights in British Settler Societies, UBC Press, Vancouver 2005, pp. 312, ISBN 0-7748-1072-6

In quella sorta di vangelo giuridico inglese rappresentato dall'opera di William Blackstone Commentaries on the Laws of England, l'autore si riferiva al diritto di proprietà come a quel «sole and despotic dominion which one man claims and exercises over the external things of the world, in total exclusion of the right of any other individual in the universe» (II.1, 2). Non a caso i curatori di questo volume collettaneo hanno scelto come titolo proprio quel "despotic dominion", e con questa locuzione hanno inteso qualificare - come recita il sottotitolo - la dimensione tipica dei property rights nelle società coloniali inglesi. La definizione di Blackstone sembra attagliarsi perfettamente all'oggetto di questa raccolta di saggi, potendo figurare come la sottile linea che lega tra loro i diversi contributi: se si prendesse tale definizione davvero alla lettera e la si calasse all'interno dell'esperienza coloniale, si coglierebbe ancor di più il senso di quella "total exclusion of the right of any other individual in the universe" e si potrebbe rileggere la storia degli insediamenti coloniali inglesi come l'affermazione dispotica su scala globale del dominion, ovvero di quella concezione e di quella prassi tipicamente eurocentriche del diritto di proprietà con cui si è dato avvio, legittimandola, alla macchina del colonialismo. Questo sembra essere l'orizzonte di riferimento su cui si sono venuti strutturando e sono stati raccolti i saggi in esame.

Una prima parte del volume si sofferma su quelle che ben possono figurare come le "immaginazioni" coloniali (colonial imaginations) relative alle società indiane e cerca di mettere in evidenza quanto le realtà indigene fossero lontane da certe (pre)concettualizzazioni occidentali: Richard Overstall mostra come furono fallaci le abitudini mentali europee relative alle società indigene esaminando le strutture giuridiche, sociali e politiche degli indiani Gitxsan e facendo vedere quanto complessi e sofisticati fossero i loro sistemi di governo e di proprietà, organizzati attorno a gruppi di parentele, dimore e famiglie che garantivano un'amministrazione decentrata a livello "familiare" dei territori molto più efficiente del sistema di governo centralizzato tipico dell'esperienza coloniale e, soprattutto, molto più sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Come ha osservato James Tully in proposito, il sistema di proprietà dei Gitxsan «non è una reliquia arcaica ma un sistema funzionante che ha la capacità di competere allo stesso livello nell'ambito dei sistemi di co-uso e di co-management con i sistemi importati» (p. 6).

Brian Slattery passa in rassegna le "immaginazioni" giuridiche che hanno contraddistinto le diverse fasi della colonizzazione e le rivendicazioni imperialistiche dei territori americani, giustapponendo una dottrina del "legal vacuum", incentrata sull'idea della terra nullius e sul disconoscimento della sovranità indigena sulle terre occupate dai popoli autoctoni, ad una dottrina della "legal symbiosis", quale fu quella adottata dal Chief Justice John Marshall in alcune sue decisioni (Johnson v. M'Intosh;Worchester v. Georgia), basata sull'idea dello sviluppo di un processo di razionalizzazione giuridica delle relazioni tra coloni e aborigeni. Si passa così dalle bolle papali alle esperienze colonizzatrici inglesi e francesi, dal diritto di mera scoperta (che esauriva i suoi effetti tra sovrani europei) a quello dell'effettiva conquista e del possesso duraturo quali titoli per l'acquisizione proprietaria e l'esercizio delle sovranità piena sui territori conquistati, fino al diritto di acquisizione legittima delle terre a seguito dei treatises con gli indiani, uno strumento, questo, che, nelle intenzioni del giudice Marshall, garantiva quel processo di "simbiosi giuridica" e riconosceva, attraverso la "disponibilità" dei diritti di proprietà, la titolarità degli stessi in capo agli indiani.

Un'altra "immaginazione" fallace si accompagnava alla prassi e alla teoria in campo economico: John Weaver passa in rassegna autori quali Locke, Vattel, Smith per mettere in luce l'elaborazione dell'espediente che consentiva di valutare l'uso aborigeno della terra - e, più generale, qualsiasi possesso della terra in comune o di carattere tribale - come un uso improduttivo; tale espediente giustificava, in base alla classica teoria della proprietà-lavoro, lo spossessamento delle terre indigene. Fondamentale in tal senso fu l'impiego strategico della nozione di "improvement". Un impiego che dal XVII secolo continua anche oltre e si afferma nelle diverse realtà coloniali inglesi, e al contempo anche nelle aree metropolitane: l'idea che la terra, e un territorio in genere, debbano essere adibiti sempre ad usi "produttivi", siano questi agricoli o relativi ad attività industriali, al fine di giustificare una loro rivendicazione giuridica è stata al centro di tanti cambiamenti del modo di utilizzare la terra ed è stata responsabile di drammatiche conseguenze in relazione al paesaggio e all'ambiente naturale delle colonie e della stessa madrepatria.

Una serie di saggi affrontano poi la tematica della ricezione nelle colonie del diritto inglese in materia di proprietà. Bruce Ziff e Philip Girard esaminano tale questione nel contesto delle colonie canadesi, concentrandosi sull'analisi della legislazione e della giurisprudenza delle corti coloniali e dimostrando come la gran parte del diritto inglese fu introdotto senza esitazioni e adattamenti nella realtà canadese. Girard, in proposito, mette in luce la compresenza di due atteggiamenti "liberali" apparentemente contrapposti, ovvero quello del "facilitative liberalism" (il cui scopo è la facilitazione dell'alienabilità della terra, perseguita tramite una revisione del rapporto giuridico debitore-creditore e del diritto successorio e tramite una progressiva rimozione della distinzione tra realità e personalità) e quello dell'"embedded liberalism", teso a preservare e rafforzare l'unità e le aspettative della famiglia nel contesto della società agraria di tipo coloniale attraverso misure quali la protezione delle ipoteche o l'assicurazione alla donna vedova del diritto all'intestazione dei beni. A ben vedere, entrambi questi atteggiamenti liberali erano funzionali alla conservazione e allo sviluppo del sistema proprietario inglese dei coloni nei territori colonizzati. In tal senso risultano interessanti sia il saggio di Andrew Buck, dedicato all'analisi del dibattito sul diritto di primogenitura nel New South Wales, sia quello di Nancy Wright, in cui si esamina - sempre nel contesto New South Wales - la questione dei diritti successori di proprietà dal punto di vista delle aspettative delle donne. L'autrice mette qui in luce le tensioni esistenti tra l'ala conservatrice, di ispirazione feudale-aristocratica, e quella più liberale nell'ambito del dibattito sulla proprietà. Una tensione, del resto, già ben presente nella madrepatria inglese, e che venne trasferita, acuendosi, nelle colonie americane, con gran pregiudizio (ignorato dai protagonisti delle due fazioni) dei diritti indigeni di proprietà sulla terra.

Sempre nell'ottica di tali tensioni e dibattiti, il volume si sofferma, con due saggi, su alcuni tentativi di superamento del modello proprietario in questione nella direzione di un'esperienza comunitaria che avrebbe potuto porsi quale anello di congiunzione con la realtà dei diritti indiani sulle terre, nell'ambito della quale pure venivano a trovare espressione la proprietà in comune e i diritti di co-uso della terra. Sono, in particolare, due esperienze di comunitarismo religioso che vengono prese in esame: Alvin Esau si sofferma su quella degli Hutterites nei Great Plains degli Stati Uniti nel tardo XIX secolo (e, dopo il 1917, nella zona delle praterie canadesi), mentre John McLaren analizza la migrazione e il settlement dei Doukhobors, dapprima a Saskatchewan e poi nel British Columbia, dopo il loro arrivo nel 1899. Ciò che più risalta è che, diversamente dalla situazione delle First Nations indiane, queste realtà comunitarie religiose non vennero ostacolate nella loro attività di gestione in comune delle terre fino a quando questa fu praticata nel contesto del sistema giuridico dominante. Non per niente i Doukhobors furono destinati al fallimento, nel momento in cui finirono, tenendo un atteggiamento fin troppo ambiguo e ambivalente, con il prescindere da quel contesto. Non così accadde invece per gli Hutterites, e questo la dice lunga sulle possibilità di coesistenza di esperienze culturali, politiche ed economiche sul suolo americano e, più in generale, di un pluralismo normativo che veniva di fatto ad essere soffocato in un sistema basato su un dominion - non a caso - "dispotico".

Chiudono il volume i saggi di Robert Foster e di Douglas Harris, che sono incentrati sulla disamina dei diversi "accomodamenti" dei diritti di proprietà degli aborigeni nelle colonie inglesi e prendono a riferimento le realtà del Sud Australia e del British Columbia nella seconda metà dell'Ottocento. Nel caso del Sud Australia ci viene mostrata una realtà basata sulla mutualità di interessi e sulla soddisfazione di bisogni reciproci tra gli aborigeni e i coloni che praticavano la pastorizia, con conseguenze significative anche in termini di diritto: i pastori rispettavano i diritti aborigeni di caccia sulle terre adibite a pascolo nella misura in cui i prodotti della caccia contribuivano al mantenimento delle comunità di pastori, e così avveniva anche da parte degli aborigeni. E tuttavia, il riconoscimento dei diritti di caccia avvenne solo dopo che la cultura e l'economia aborigene erano state seriamente compromesse dalle spoliazioni europee, e per di più gli aborigeni non furono mai consultati circa il fatto di doversi adattare a quello che presto divenne un sistema di "colonized labour". Nel caso del British Columbia, la realtà descritta è invece quella della perdita delle riserve di pesca degli aborigeni in favore di un diritto "pubblico" alla pesca sulle coste canadesi: l'uguaglianza giuridica è stata in questo caso impiegata come un pharmakon che "emancipando" gli individui e civilizzandoli giuridicamente li ricaccia in realtà in una condizione sostanziale ben peggiore di quella combattuta in nome del diritto.

Così strutturato, il volume, pur nella eterogeneità dei contributi e dei linguaggi impiegati, mantiene nel suo complesso un carattere unitario, fornendo molteplici strumenti critici utili all'analisi e alla comprensione del fenomeno coloniale per ciò che riguarda la questione dei diritti di proprietà fondiaria, di questa operando una notevole mappatura, che si estende dal Nord America all'Australia, nonché un'adeguata copertura temporale di oltre due secoli.

Ilario Belloni