2011

U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 116, ISBN 88-420-9717-4

È passato poco più di un mese dall'esito dei referendum del 12 e 13 giugno su acqua, nucleare e legittimo impedimento. Poco più di un mese da quello che - sia pur con tutte le cautele del caso - non può che essere salutato come un passo importante nella costruzione di una democrazia realmente partecipativa, fuori dalle secche della rappresentanza partitica. Il risultato di una sinergia di forze tenute assieme da ciò che è ormai ben più di una parola d'ordine: la difesa dei beni comuni. Con questo manifesto Ugo Mattei - nella sua duplice veste di giurista e attivista - tenta allora di tracciare le linee di una riflessione che consenta di evidenziare in tutta la loro portata i tratti di novità di questa esperienza politica.

Bisognerà però per prima cosa allargare il campo d'osservazione. Perché se è vero che la battaglia referendaria italiana rappresenta «l'epifania locale di una guerra globale di lunga durata» (p.77), diventa dunque necessario inquadrarla all'interno di una cornice più ampia - nello spazio come nel tempo. Così, il primo capitolo si apre tornando indietro al 1968, anno in cui Garrett Hardin pubblica su "Science" il suo celebre The tragedy of the commons. La tesi era (fin troppo) semplice: se i beni comuni vengono lasciati agli illimitati appetiti acquisitivi dell'individuo possessivo sono inevitabilmente destinati alla rovina. Per quasi vent'anni, anche grazie alla spinta ideologica della Scuola di Chicago e al clima da Guerra Fredda, "la tragedia dei comuni" fu usata per ribadire che i commons «erano luoghi di non diritto [...], che potevano essere efficientemente governati soltanto tramite la privatizzazione, che (dando loro un prezzo) ne limitava l'accesso e il consumo eccessivo» (p.5). Solo a partire dai primi anni Novanta le ricerche di Elinor Ostrom (premio Nobel per l'economia nel 2009) permisero di contestare l'applicazione immediata del paradigma dell'homo oeconomicus al problema dei beni comuni, riaprendo così di fatto la partita (perlomeno sul versante teorico). In effetti, come sottolinea anche Mattei, nessun essere umano «in carne ed ossa» risponde al modello comportamentale del massimizzatore razionale dell'utilità attesa: nella realtà, convenzioni e codici sociali impongono seri limiti alle condotte eccessivamente egoiste, votate all'esclusivo perseguimento dell'interesse individuale. Di conseguenza, le comunità umane sono generalmente in grado di regolare senza troppi inconvenienti la gestione dei loro beni comuni.

E tuttavia, nota ancora l'autore, tutto ciò cessa di essere vero non appena si rivolga l'attenzione a quelli che sono attualmente tra i più importanti attori istituzionali sulla scena economica, politica e giuridica mondiale: le grandi corporations multinazionali. Questi nuovi soggetti globali sembrano incarnare alla perfezione il tipo dell'homo oeconomicus, senza essere vincolati - per ovvie ragioni - dalle aspettative sociali: «Essi mirano sistematicamente alla massima acquisizione quantitativa di risorse a spese di altri» (p. XII). Una situazione inedita a fronte della quale le ricette del costituzionalismo liberale risultano del tutto inadeguate: nel momento in cui i rapporti di forza tra Stato e mercato si invertono decisamente a favore di quest'ultimo, le tradizionali tutele giuridiche a esclusivo vantaggio della proprietà privata nei confronti dell'autorità pubblica - senza che alcuna garanzia sia prevista in senso opposto - rischiano di tradursi in una pericolosa asimmetria costituzionale, lasciando via libera al saccheggio illimitato delle risorse collettive da parte delle grandi multinazionali e spingendoci così sempre più sull'orlo del disastro ecologico.

Sbaglierebbe però chi volesse cambiare strada puntando tutto sull'altro polo del binomio, lo Stato. Perché - e su questo punto l'autore insiste molto - Stato e mercato non sono che le due facce di una stessa medaglia: «Lungi dall'essere contrapposte, queste nozioni sono figlie di una medesima logica assolutistica e riduzionista che deprime il comune a favore dell'individuo, sacrificando l'identità del tutto a quella delle sue parti» (p.34). Sovranità e proprietà privata condividono la stessa struttura concettuale, basata sul modello romanistico del dominium esclusivo di un soggetto su un oggetto - il proprietario sul suo bene, il sovrano sul suo territorio. Non solo. Stato e proprietà condividono anche lo stesso atto di nascita, sulla soglia tra Medioevo e Modernità. Il processo di recinzione (enclosure) delle terre comuni, avviato in Inghilterra già alla fine del XV secolo e accompagnato dalla dispersione violenta delle comunità che da esse traevano la maggior parte dei loro mezzi di sussistenza, segna in effetti da più punti di vista un momento di svolta nella storia dell'umanità occidentale: un passaggio (perlomeno sul piano simbolico) dal qualitativo al quantitativo, dall'essere all'avere, dallo status al contratto, dal collettivo all'individuale. Autorità pubbliche e grandi proprietari terrieri furono storicamente complici in questa impresa di accumulazione originaria tanto vividamente denunciata da Tommaso Moro e tanto lucidamente analizzata da Marx. Le enclosures sancivano l'alleanza tra Stato e proprietà privata ai danni dei beni comuni (e delle forme di vita ad essi connesse): «A seguito delle recinzioni, per un fenomeno centrale allo stesso sviluppo della coscienza della modernità, i beni comuni sono stati espulsi, cancellati come categoria politico-culturale dotata di una qualunque dignità costituzionale. Soltanto Stato e proprietà privata, presentati come fra loro in conflitto, ma in realtà complici nella distruzione del terzo fattore, sono presenti negli orizzonti del costituzionalismo moderno» (p.46). I proprietari guadagnavano così nel breve periodo grandi appezzamenti di terra da destinare al lucroso allevamento di pecore da lana; nel lungo periodo, manodopera a basso costo da destinare all'ancor più lucroso lavoro nelle nascenti manifatture. Da parte sua, lo Stato compiva invece un ulteriore passo sulla strada del raggiungimento del monopolio sulla produzione di diritto, riducendo drasticamente il notevole pluralismo giuridico medievale e avvicinandosi all'ideale teorico (mai davvero realizzato nella prassi) dell'assolutismo sovrano. Sotto la dicitura rassicurante di rule of law (delle cui mythologies Mattei si era già occupato nel suo precedente Il saccheggio) si compiva in realtà l'espropriazione del diritto ai danni della comunità, cui esso appartiene nella sua qualità di «bene comune condiviso e fondamento delle contestazioni sociali proprie di una dialettica viva» (p.59).

Oggi però il panorama appare drasticamente mutato. Dopo la breve parentesi dell'assolutismo giuridico teorizzato dalla modernità, sembra si torni nuovamente a fenomeni di pluralismo e policentrismo, con gli Stati nazione costretti a cedere pezzi sempre più rilevanti della loro sovranità. Solo che a contendergli il monopolio del diritto non sono più le potestates indirectae dell'età feudale ma tutti quei nuovi attori globali che vanno dalle organizzazioni internazionali (ONU, WTO, FMI, ecc.) alle grandi corporations. Non è allora un caso che, in questo scenario da "nuovo medioevo", il tema dei beni comuni riemerga con forza - dal Chiapas a Cochabamba, da Seattle a Genova. Innanzitutto, ed è la posta in gioco forse più radicale, i commons portano con sé una fenomenologia e un immaginario assolutamente incompatibili con quelli dominati dalla tenaglia Stato-mercato: una forma di vita (corredata di una sua propria narrativa) che oppone l'essere all'avere, l'ecologico all'economico, il dono alla merce, l'inclusione all'esclusione, la diffusione del potere alla sua concentrazione gerarchica, la percezione olistica del reale al riduzionismo delle scienze sociali. Lottare per i beni comuni non vuol dire allora arroccarsi su posizioni solo difensive; al contrario, significa scatenare un'offensiva a tutto campo che a partire dal piano simbolico (quella «guerra paradigmatica» di cui parla Vandana Shiva) sia capace di estendersi anche a quello politico e giuridico. La rilevanza dei commons dipende infatti dal loro essere inseriti in una prassi di conflitto: «In altri termini, i beni comuni sono resi tali non da presunte caratteristiche ontologiche, oggettive o meccaniche che li caratterizzerebbero, ma da contesti in cui essi divengono rilevanti in quanto tali» (p.53). Di qui la loro estrema flessibilità, capace di fungere da denominatore comune di lotte anche assai disparate. Una dimensione fortemente politica il cui principale interprete non è più il partito con la sua forma gerarchica ma l'inedita alleanza di sapere critico (non solo accademico) e movimenti a potere diffuso - quella stessa alleanza uscita vittoriosa dalle urne dei referendum e costruita su una fitta rete di relazioni non solo virtuali (Mattei mette giustamente in guardia contro l'esaltazione di Internet come luogo di orizzontalità ed eguaglianza assolute). Questa sembra essere ad oggi l'unica alternativa in grado di invertire quella rotta neoliberista che punta sempre più speditamente verso la crescita esponenziale delle disuguaglianze, la sostituzione della partecipazione democratica col consumismo acritico e, ultima ma non in ordine di importanza, la catastrofe ecologica. Un primo passo potrebbe allora essere rappresentato dall'introduzione di garanzie costituzionali a tutela dei beni comuni, assieme all'istituzionalizzazione di forme di governo che ne assicurino una gestione condivisa e dal basso. L'obiettivo finale resta però quello di una società in cui «Stato e proprietà privata possono al più essere l'eccezione, non certo la regola» (p.106).

Lorenzo Coccoli