2007

R. Martin, D.A. Reidy (eds), Rawls's Law of Peoples: A Realistic Utopia?, Blackwell Publishing, Oxford 2006, p. 322, ISBN 1-4051-3531-X

Rawls è notoriamente il filosofo più citato e più discusso della seconda metà del novecento. Tuttavia, l'attenzione dei critici non si è distribuita in maniera uniforme sulla sua intera produzione. Se Una teoria della giustizia può vantare un bibliografia sterminata, minore considerazione ha ricevuto la seconda monografia di Rawls, Liberalismo politico, per non parlare di Il diritto dei popoli, spesso considerato come un'opera senile e scarsamente significativa. Per questo motivo la raccolta di saggi curata da Martin e Reidy costituisce sicuramente un'utile addizione alla letteratura sul filosofo americano, contribuendo a colmare un vuoto editoriale ingiustificato. Il volume, dopo un'agile introduzione dei curatori, presenta sedici saggi, articolati in cinque sezioni, che esplorano, da prospettive teoriche differenti, tutte le tematiche principali dell'opera di Rawls.

La decisione di fare dei popoli i soggetti della teoria rawlsiana della giustizia internazionale costituisce, come è noto, una delle peculiarità di Il diritto dei popoli. Sembra pertanto opportuno domandarsi quali caratteristiche posseggano i popoli di cui ci parla Rawls. Questo tema viene esplorato nei primi due saggi. Nel testo che apre la raccolta - Uniting What Right Permits with What Interest Prescribes: Rawls's Law of Peoples in Context -, David Boucher analizza il rapporto che lega il testo rawlsiano alla tradizione nel campo del diritto internazionale. Secondo Boucher, Rawls diverge sia dall'impostazione realista - perché individua nei popoli, che, a differenza degli Stati, possono essere mossi da motivi ideali e limitano il perseguimento del loro interesse sulla base di considerazioni di ragionevolezza, i referenti della sua teoria -, che da quella riconducibile alla tradizione del diritto naturale - perché la sua teoria privilegia il momento più prettamente giuridico della stipulazione di patti tra gli attori internazionali. Sotto questo punto di vista l'impostazione rawlsiana appare più simile all'idea, difesa da Kant, che la strada che conduce verso la pace passa attraverso il diritto. Ma, dal momento che i popoli rawlsiani sono animati da un senso patriottico di «self-respect», basato sulla consapevolezza comune della loro eredità storica, devono potersi riconoscere nella regolazione degli assetti internazionali che contribuiscono a edificare. In questo senso, conclude Boucher, Rawls sembra attingere anche dell'idea rousseauviana di comunità, che anzi assume un ruolo cruciale nel legare fra loro la dimensione realistica della regolazione giuridica con quella più prettamente ideale della continuità con i principi di giustizia e di ragionevolezza che sono riconosciuti come validi in seno a ciascun popolo. Analogamente, Philip Pettit nel secondo saggio - Rawls's Peoples - sostiene che la caratterizzazione rawlsiana della nozione di popolo coincide con quella di una comunità che non solo è rappresentata da un governo legittimo ma che possiede anche una coesione interna che si articola intorno a una propria concezione della giustizia. I membri dei popoli bene ordinati condividono alcune intuizioni comuni intorno a ciò che è giusto, tuttavia, dal momento che un simile legame non esiste tra i membri di popoli diversi non è possibile estendere le obbligazioni dettate dalla teoria della giustizia a vantaggio dei cittadini di Stati diversi dal proprio: da qui il rifiuto rawlsiano del cosmopolitismo. Da questa concezione dell'ontologia dei popoli seguono però anche alcuni doveri, che coincidono con gli obblighi funzionali a un'ordinata regolazione della vita internazionale - come rispettare i diritti umani e l'autonomia territoriale degli altri Stati. Rimane meno chiaro, però, conclude Pettit, se il dovere di assistenza nei confronti delle società svantaggiate, comportando un'obbligazione nei confronti dei cittadini di un altro Stato, possa essere giustificato sulle stesse basi.

Il filo rosso che lega i tre saggi che compongono la seconda parte è costituito dal tema dell'anti-cosmopolitismo di Rawls. Nel primo - Cultural Imperialism and 'Democratic Peace' - Catherine Audard sostiene che Il diritto dei popoli non riesce a creare una posizione intermedia fra cosmopolitismo e relativismo culturale. In particolare, Audard ritiene che Rawls ponga eccessiva enfasi sulle «condizioni psicologiche» che conducono alla stabilità internazionale e alla pace - come l'interiorizzazione di una concezione del bene comune e della giustizia - a scapito delle «condizioni istituzionali», legate all'assetto politico dei rapporti fra gli Stati. Questa scelta strategica, tuttavia, espone il filosofo americano all'accusa di imperialismo culturale, dal momento che insiste su un atteggiamento di fondo tipicamente liberale, trascurando l'idea che la pace possa costituire l'esito di un processo di trattative e di reciproche concessioni. Il saggio successivo - The Problem of Decent Peoples -, a opera di Kok-Chor Tan, pone l'interrogativo di come la tolleranza nei confronti dei popoli cosiddetti «decenti» - vale a dire quei popoli che, nonostante un'organizzazione politica non democratica, si mostrano non aggressivi nei confronti degli altri Stati e rispettano i diritti umani fondamentali - possa essere giustificata in una prospettiva rawlsiana. In effetti, sostiene Tan, l'idea che uno Stato liberale debba tollerare i popoli decenti sembra ingiustificata, poiché non è chiaro per quale ragione sia possibile accettare, da un punto di vista liberale, l'eventualità che il governo di un popolo decente limiti la libertà di espressione degli oppositori liberali al suo interno. D'altra parte, sul piano pratico, le differenze tra Rawls e i liberali cosmopoliti tendono a essere inesistenti, dal momento che le ragioni critiche verso la politica interna dei popoli decenti non sono generalmente ritenute sufficienti dai liberali stessi per giustificare un intervento militare. Nell'ultimo saggio della sezione - Why Rawls is Not a Cosmopolitan Egalitarian - Leif Wenar si propone un duplice obbiettivo: da un lato, offrire una spiegazione del motivo per cui Rawls non ha seguito in Il diritto dei popoli l'impostazione ridistributiva tracciata in Una teoria della giustizia; dall'altro, presentare una critica generale del cosmopolitismo. Per quanto riguarda il primo problema, Wenar sostiene che Il diritto dei popoli si ricollega, più che a Una teoria della giustizia, a Liberalismo politico nell'identificare nella legittimità politica, piuttosto che nella giustizia come equità, lo standard di riferimento cui i principi di giustizia internazionale si devono conformare. Siccome poi la «cultura politica pubblica globale», che detta i criteri della legittimità politica per le istituzioni internazionali, non include principi ridistributivi, si spiega il carattere conservativo della proposta rawlsiana. Per quanto concerne il secondo obbiettivo, invece, Wenar offre un argomento generale inteso a provare che un'impostazione cosmopolitica «pura», che pretenda cioè di derivare i principi di giustizia internazionale unicamente da assunzioni relative allo status degli individui, non può essere attuata. Tale argomento si incentra sulla circostanza che, in assenza di uno Stato mondiale, i diritti degli individui non possono essere specificati indipendentemente dalle loro affiliazioni territoriali.

La sezione seguente è dedicata alla teoria rawlsiana dei diritti umani. Nel primo saggio - Human Rights as Moral Claim Rights - Wilfried Hinsch e Markus Stepanians sostengono che i diritti di cui parla Rawls in Il diritto dei popoli vanno considerati come diritti morali, universalmente validi in ragione dei beni primari che tutelano. Più precisamente, si tratta, secondo gli autori, di diritti-pretesa in senso hohfeldiano: questa caratterizzazione è utile anche a gettare luce sulla tesi rawlsiana che i diritti sono suscettibili di essere imposti attraverso il ricorso a strumenti coercitivi compresa, sia pure come estrema ratio, la forza militare. Nel saggio successivo - Rawls's Narrow Doctrine of Human Rights - Alistair M. Macleod analizza il «minimalismo» di Rawls rispetto ai diritti, vale a dire la circostanza secondo la quale il filosofo americano difende in Il diritto dei popoli una lista di diritti umani assai più ristretta rispetto alle posizioni soggettive contemplate nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. A questo proposito, Macleod considera diverse possibili giustificazioni per la scelta rawlsiana, trovandole insoddisfacenti. Di conseguenza, la decisione di privilegiare alcuni diritti piuttosto che altri appare arbitraria e sembra comportare alcune difficoltà in relazione alla difesa della tesi dell'universalità dei diritti stessi: infatti, non si capisce perché gli Stati «fuorilegge» dovrebbero essere obbligati al rispetto, non dell'intero catalogo dei diritti, ma del sottoinsieme dei diritti umani sul quale i popoli liberali e decenti concordano. Conclusioni simili sono tratte anche da Allen Buchanan, che nel suo saggio - Taking the Human out of Human Rights - mette a confronto il minimalismo rawlsiano in tema di diritti con l'ortodossia liberale. Buchanan identifica quest'ultima con le posizioni di James Nickel, Henry Shue, Amartya Sen e Martha Nussbaum, e ritiene che tale ortodossia intenda fondare i diritti su un resoconto degli interessi o delle capacità fondamentali propri di tutti gli individui. Secondo Buchanan l'atteggiamento minimalista di Rawls non è giustificato né dalla tolleranza nei confronti dei popoli non liberali, né dall'intento di evitare una caratterizzazione «parrocchiale» dei diritti - perché entrambi questi limiti dovrebbero cedere di fronte al radicamento di certi diritti nei caratteri invarianti della natura umana -, né, infine, dall'insistenza del filosofo americano sul nesso tra diritti e cooperazione sociale, dal momento che quest'ultima nozione dissimula una considerazione degli interessi individuali non troppo differente da quella esibita dagli autori liberali. Nell'ultimo saggio, infine - Political Authority and Human Rights -, David A. Reidy intraprende una accurata difesa della dottrina rawlsiana dei diritti. Reidy ritiene che la teoria dei diritti sviluppata in Il diritto dei popoli sia una teoria eminentemente politica, nel duplice senso che i diritti riconosciuti come fondamentali coincidono con quelli che risultano enforceable in una prospettiva liberale - dal momento che un popolo liberale, consapevole delle possibili differenze nella tutela, per esempio, dell'uguaglianza fra i sessi non acconsentirebbe a includere questo diritto nel novero dei diritti fondamentali - e che sono essenziali per l'esistenza di una forma di governo costituzionale repubblicana.

Uno dei nuclei tematici più dibattuti di Il diritto dei popoli concerne la giustizia sociale e in particolare il distacco di Rawls dal modello ridistributivo proposto in Una teoria della giustizia. Su questi problemi vertono i saggi compresi nella quarta sezione. Nel primo - Collective Responsibility and International Inequality in The Law of Peoples -, David Miller offre una difesa del rifiuto rawlsiano di prevedere un analogo internazionale del «Principio di differenza» introdotto in Una teoria della giustizia. Secondo Miller, il giudizio di Rawls si basa sulle seguenti premesse: (1) le cause della ricchezza o della povertà degli Stati sono in gran parte interne a ciascuna società; (2) se alcune disuguaglianze fra due o più agenti sorgono come conseguenza di fattori di cui gli agenti possono essere ritenuti responsabili, queste disuguaglianze non sono ingiuste; (3) i popoli decenti sono collettivamente responsabili delle caratteristiche culturali da cui si originano le disuguaglianze economiche fra di loro. Secondo Miller queste tre assunzioni sono almeno plausibili, dunque Rawls è giustificato nell'argomentare contro l'estensione del Principio di differenza allo scenario internazionale. Le argomentazioni di Miller a sostegno delle tre premesse non mi sembrano, tuttavia, del tutto convincenti; e d'altra parte, nel saggio seguente - Do Rawls's Two Theories of Justice Fit Together? -, Thomas Pogge, dall'esame delle stesse premesse, deriva una conclusione contraria: che l'atteggiamento di Rawls in Il diritto dei popoli contrasta con l'impostazione seguita in Una teoria della giustizia e che gli Stati più ricchi sono obbligati a ridurre le disuguaglianze nei confronti delle società più povere. Riprendendo alcuni temi costantemente presenti nei suoi lavori più recenti, Pogge elabora una critica radicale alla dottrina rawlsiana della giustizia economica internazionale. Uno degli assi principali di questa critica è costituito dall'affermazione che le attuali disuguaglianze nelle condizioni economiche degli Stati sono il risultato, più che dell'azione di fattori endogeni, dell'assetto dei rapporti internazionali e in particolare dello sfruttamento prolungato delle risorse di alcuni Stati da parte di altri (in pratica si tratta della negazione della premessa (1) di Miller). Questo sfruttamento, conclude Pogge, costituisce il più vasto crimine contro l'umanità mai commesso e configura una violazione «dei doveri negativi di non ledere, imponendo un ordine delle istituzioni globali che causa sofferenze umane prevedibili ed evitabili di inimmaginabili proporzioni» (p. 221). Rispetto al fuoco polemico di Pogge, gli ultimi due saggi della sezione mostrano un atteggiamento più simpatetico nei confronti del testo rawlsiano. Nel primo - Rawls on International Distributive Economic Justice: Taking a Closer Look - Rex Martin esamina accuratamente due argomenti addotti da Rawls contro la previsione di un Principio di differenza globale. Pur giudicando entrambi gli argomenti non conclusivi, Martin ritiene nondimeno che Rawls sia nel giusto a criticare l'estensione del Principio di differenza allo scenario internazionale, osservando al contempo che la formulazione rawlsiana del dovere di aiuto nei confronti delle burdened societies comporta, da parte degli Stati liberali, un impegno più gravoso di quanto solitamente si creda. Una linea di pensiero analoga è seguita da Samuel Freeman nell'ultimo saggio della sezione - Distributive Justice and The Law of Peoples. Freeman non solo dimostra in maniera convincente che il Principio di differenza è inapplicabile sul piano internazionale - fra le altre ragioni perché esso richiede un background istituzionale, legale e politico che, a livello globale, non può essere presupposto - ma si sofferma anche a considerare le debolezze dell'idea stessa di ridistribuzione internazionale. Secondo Freeman, Rawls ritiene che le gravi ingiustizie contro le quali puntano il dito Pogge e gli altri liberali cosmopoliti dovrebbero essere affrontate direttamente dagli Stati liberali nel corso della transizione a una Società dei popoli bene ordinata: gli Stati liberali, in quanto tali, devono impegnarsi a risolvere i problemi collegati allo sfruttamento delle risorse nei paesi in via di sviluppo - da notare, però che nel paragrafo conclusivo Freeman considera la possibilità di introdurre «istituzioni internazionali che regolino l'attività del mercato globale in modo da assicurare un commercio e un mercato del lavoro equi e garanzie contro lo sfruttamento» (p. 258). Nonostante la debolezza dell'idea degli Stati liberali che si fanno promotori di una guerra contro le disuguaglianze, l'interpretazione di Freeman contiene comunque, a mio avviso, spunti apprezzabili, perché propone una lettura «di sinistra» della teoria della giustizia rawlsiana - Rawls è espressamente collocato nella scia di Mill e di Marx -, che presenta il Principio di differenza non come una misura meramente ridistributiva ma come un principio che dovrebbe tendere a una definizione cooperativa degli assetti economici e sociali.

Nel primo saggio della quinta sezione - Are Human Rights Mainly Implemented by Intervention -, dedicata ai problemi della politica internazionale, James W. Nickel prende in esame la dottrina rawlsiana dei diritti umani dal punto di vista del diritto internazionale. Nickel osserva in primo luogo che la dicotomia tra Stati che rispettano i diritti e Stati fuorilegge, che si macchiano di gravi violazioni, sembra troppo stretta: tra i due estremi esiste una zona grigia, rappresentata da quegli Stati che commettono violazioni non gravi dei diritti, alle quali è possibile rispondere adottando un atteggiamento di «serious criticism». Inoltre, Nickel sostiene che la divisione tra basic human rights e non basic appare forzata, poiché i diritti umani sono strettamente connessi fra loro e una violazione di alcuni di essi può ripercuotersi sul godimento di molti altri. L'obbiettivo del saggio di Alyssa R. Bernstein - A Human Right to Democracy? Legitimacy and Intervention - è quello di valutare se in base alla teoria rawlsiana sia ipotizzabile l'esistenza di un diritto alla democrazia che possa essere invocato per giustificare gli interventi umanitari. Bernstein nega questa eventualità, giudicando, in primo luogo, che non ci sono basi empiriche per sostenere che la democrazia procedurale costituisca un requisito indispensabile per ottenere la tutela dei diritti umani fondamentali e dunque la legittimità di uno Stato. Secondariamente, Bernstein sostiene che non è possibile esibire un consenso sufficientemente esteso in relazione al valore della partecipazione democratica dei cittadini alle istituzioni. Questa circostanza comporta anche che nel decidere quale forma di governo si addica maggiormente a uno Stato che deve essere ricostituito dopo un evento bellico è opportuno bilanciare i pregiudizi in favore della forma democratica con considerazioni attinenti alla cultura politica e alle idee di giustizia prevalenti nell'area in esame. Nell'ultimo saggio, infine - Justice, Stability and Toleration in a Federation of Well-Ordered Peoples -, Andreas Føllesdal confronta le soluzioni proposte da Rawls in Il diritto dei popoli con l'assetto dell'Unione Europea. Secondo Føllesdal la tolleranza verso gli Stati gerarchici decenti è ingiustificata, perché la comunità internazionale dovrebbe intervenire anche contro le violazioni dei diritti umani non fondamentali, analogamente a quanto avviene nel caso delle federazioni come l'UE nei confronti dei propri Stati membri. Il paragone con gli ordinamenti federali giustifica invece l'atteggiamento di Rawls verso i principi di ridistribuzione internazionale, perché l'esistenza di disuguaglianze economiche all'interno di una federazione può condurre a un beneficio complessivo anche per i membri più svantaggiati.

È inevitabile che non tutti i saggi che compongono Rawls's Law of Peoples siano dello stesso interesse o risultino ugualmente convincenti. Nondimeno, il volume si pone come un punto di riferimento per l'interpretazione dell'ultima opera di Rawls e per la discussione dei temi che vi vengono trattati. Dispiace unicamente che le voci chiamate a dibattere i problemi del diritto dei popoli siano riconducibili o all'ortodossia rawlsiana oppure all'alveo dei suoi critici liberali e cosmopoliti. A questo proposito, sarebbe stato forse necessario aprire un altro fronte di discussione, chiamando in causa i sostenitori di quel realismo, scettico della possibilità di una giustizia internazionale, che viene talvolta evocato nel volume solo per essere esorcizzato dopo poche righe.

Leonardo Marchettoni